ÍNDICE
Introduzione
1. L’America latina nel quadro dell’espansione europea
3. Le città nobiliari delle Indie
Introduzione
La domanda a cui questo libro cerca di rispondere riguarda il ruolo svolto dalle città nel processo storico latinoamericano. Tale processo, differenziato fino a sembrare caotico, ha senza dubbio un suo filo conduttore, la cui ricerca è però sicuramente complicata dal fatto che una certa omogeneità originaria si è perduta nel corso dei profondi conflitti a cui le guerre di indipendenza diedero avvio. Alcune costanti sembrano tuttavia suggerire la presenza di questo filo dietro parte dei fattori che intervengono nel processo di cui si parla. Per uno storico sociale non vi è dubbio che la strada da seguire per ritrovarne le tracce coincide con il cammino percorso dalle società latinoamericane nel loro confrontarsi con le singolari circostanze in cui si sono formate e nel loro misurarsi con gli eventi, molteplici e talvolta oscuri, nei quali si realizza la loro continua differenziazione. Lungo questo cammino il ruolo svolto dalle città – cioè dalle società urbane e dalla loro pregnante genesi – sembra offrire una chiave decrittabile nel cuore di un quadro estremamente confuso.
È chiaro che la città non ha sostenuto ovunque il medesimo ruolo. Il Brasile rappresenta per esempio un caso limite nel quale i processi sociali e culturali passano fondamentalmente attraverso le aree rurali nel corso dei primi secoli del periodo coloniale; la stessa cosa avviene, sia pure in misura minore, in alcuni settori dell’area ispanizzata, dove la presenza del latifondo (hacienda) formatosi con il regime delle commende (encomiendas) presenta caratteri egemonici. Tuttavia persino in queste zone le città arrivarono con il trascorrere del tempo a ricoprire quell’importanza che avevano avuto fin dal principio della colonizzazione nelle rimanenti aree di penetrazione spagnola, forse perché l’America latina era venuta costruendosi nel corso del XVI secolo come proiezione di un mondo europeo, borghese e mercantile. Energici luoghi di concentrazione del potere, le città garantirono la presenza della cultura europea, diressero il processo economico e, soprattutto, disegnarono il profilo tanto delle regioni sottoposte alla loro influenza, quanto dell’area latinoamericana nel suo complesso. Furono proprio le società urbane a svolgere questa funzione; alcune lo fecero fin dal primo giorno di insediamento, mentre altre vi giunsero soltanto più tardi, a conclusione di un processo nel corso del quale venne sottomessa e resa conforme la vita spontanea delle aree rurali.
La storia dell’America latina è, ovviamente, sia urbana che rurale. Se però si vogliono trovare le chiavi per comprendere lo sviluppo che porta al presente, occorre cercarle, a quanto sembra, proprio nelle città e nel ruolo svolto dalle comunità urbane e dalle culture a cui diedero origine, dato che il mondo rurale si mantenne più stabile, mentre furono sempre le città ad avviare le trasformazioni, partendo sia da contatti con l’esterno che da ideologie elaborate mescolando elementi originali a quelli importati. La ricerca che questo studio si propone è, almeno in principio, storica, anche se pretende di ottenere più di quanto di norma si richieda alla pura e semplice storia.
Non vi è dubbio infatti che ciò che di solito ci si attende dalla storia non è altro che l’insieme dei risultati offerti dalla storia politica: si tratta di una vecchia e lamentevole mancanza, tanto da parte degli storici di professione, quanto da parte dei dilettanti in cerca di risposta di fronte ai fatti privi di coordinazione. Nonostante questo il presente studio intende identificare e ordinare il processo della storia sociale e culturale delle città latinoamericane; a questo genere di storia è lecito chiedere molto di più proprio perché essa, dando ai fatti una struttura, ne svela la trama profonda. Forse è proprio a questa trama che occorre infatti far riferimento per trovare le chiavi interpretative della storia delle comunità urbane e, dunque, indirettamente, di quella della società nel suo complesso.
Se nel Brasile predominò per un certo periodo la società eminentemente rurale che vi si era costituita al principio, nell’area spagnola la nuova società fu, fin dalla sua prima fase, un insieme di comunità urbane attorno alle quali le comunità rurali vennero costituendosi come strumenti economici dipendenti dai gruppi sociali dei centri urbani, i cui settori privilegiati erano i beneficiari dello sfruttamento del mondo rurale. Non fu un arbitrario progetto spagnolo a porre l’accento su questo tipo di organizzazione sociale: essa dipendeva infatti da una concezione della città, che sulla base di un’antica tradizione dottrinaria, era andata irrobustendosi con l’esperienza dei cinque secoli immediatamente precedenti l’arrivo in America dei Conquistadores. La città, o, più esattamente, la comunità urbana, era la più alta forma che potesse essere raggiunta dalla vita umana, la forma «perfetta», come Aristotele l’aveva definita e come ancora la definiva verso la metà del XVI secolo il domenicano Bartolomé de las Casas nella sua opera Apologética Historia Sumaria, con dovizia di citazioni da autorità cristiane e pagane. A questo stesso ideale pareva inoltre tendere anche il mondo mercantile e borghese che diventava, sempre più, un mondo di città. Fu forse per questa ragione che in America latina si venne accentuando quella tendenza all’urbanizzazione che, disegnatasi con la conquista, giunse infine a permeare di sé anche le aree che avevano avviato il popolamento sulla base di un modello diverso.
In generale il mondo dell’America indigena fu prevalentemente rurale e la vita urbana fu quasi del tutto ignorata da vaste aree. Nell’ambito delle culture più sviluppate vi furono, certo, alcuni grandi centri come Tenochtitlán e il Cuzco, oltre a numerose città più piccole che non mancarono di suscitare una certa ammirazione nei conquistatori spagnoli, primi tra tutti Cortés e Cieza de León. Proprio sull’esistenza dei centri urbani Las Casas basò la sua difesa della capacità razionale degli indios. Tuttavia la maggior parte della vita economica e sociale si svolgeva nei campi e nei villaggi poiché rustici erano i caratteri fondamentali di quelle civiltà. Le Antille e il Brasile non ebbero centri urbani. I villaggi non vennero utilizzati come postazioni difensive per ostacolare gli invasori e quando Cortés decise di distruggere Tenochtitlán non lo fece per il timore di un suo possibile utilizzo strategico, quanto per l’enormità del suo significato simbolico: in quel luogo e in nessun altro doveva infatti essere fondata la capitale spagnola della Nuova Spagna, della Spagna delle Indie.
Se furono gli spagnoli a distruggere Tenochtitlán furono addirittura gli stessi indigeni a distruggere il Cuzco; tutti gli altri insediamenti, piccoli e grandi, vennero inclusi nel sistema dei repartimientos senza che si prendesse seriamente in considerazione la loro condizione di centri urbani. Fu soltanto la loro felice collocazione geografica ad attirare i Conquistadores che non di rado vi si installarono rifondandoli e riorganizzandone la vita secondo gli schemi della conquista. Sorsero così Tlaxcala, Cholula, Bogotá, Huamanga, Quito e, soprattutto, México e il Cuzco che conobbero una rinascita grazie al popolamento spagnolo. Città e villaggi dell’America indiana vennero così ricomprese nel nuovo mondo dei colonizzatori.
Furono loro a decidere di cancellare ogni traccia delle antiche culture indigene e, forse perché erano convinti di ben operare nei confronti degli infedeli, portarono a termine con zelo ciò che si erano prefissi. Se in molte zone i colonizzatori non incontrarono che popoli primitivi, come accadde per esempio lungo le coste del Brasile o nel Rio de la Piata, altrove ebbero a che fare con civiltà così raffinate da suscitare il loro stupore. Ciononostante un irremovibile pregiudizio li spinse sempre ad operare come se la terra che veniva conquistata fosse, culturalmente parlando, vuota, cioè popolata soltanto da individui che potevano e dovevano essere strappati alle proprie radici culturali per venire integrati isolatamente nel sistema economico instaurato dai colonizzatori, che, nel frattempo, cercavano di riconquistarli anche culturalmente per mezzo della catechesi religiosa. L’annientamento delle antiche culture, primitive o sviluppate che fossero, costituiva in tal senso, insieme alla deliberata sottovalutazione del loro significato, un passo non prescindibile verso la realizzazione del progetto fondamentale della conquista: imporre ad una natura vuota di trasformarsi in una nuova Europa, conformemente a quanto prescritto da una regia cedola che ordinava di dare un nome a monti, territori e fiumi come se questi non ne avessero mai avuto uno prima.
La Spagna e il Portogallo ebbero una diversa concezione dei metodi che dovevano essere utilizzati. I lusitani delegarono tutti gli oneri dell’impresa a coloro che beneficiarono delle assegnazioni dei fondi agricoli, dove ebbe inizio la produzione di tabacco, zucchero e cotone e dove sorsero le piantagioni e gli impianti di raffinazione, cioè le unità economiche e sociali su cui venne organizzandosi la vita della colonia. Ridotte a centri di amministrazione, le città furono per molto tempo semplici agenzie commerciali destinate a favorire l’imbarco delle ricchezze coloniali alla volta dell’Europa. Furono i grandi latifondisti a tracciare la prima fisionomia del Brasile coloniale, dato che gli abitanti delle città – artigiani, piccoli funzionari, chierici e dettaglianti – ne furono letteralmente scavalcati. Fino al XVIII secolo soltanto poche città – Salvador de Bahía e, più ancora, la Recife degli olandesi – erano in condizioni di penetrare nell’interno e di influenzare la potente aristocrazia fondiaria che amava la vita di campagna e viveva in mezzo ai propri possedimenti.
La Spagna, per contro, immaginò il proprio impero coloniale come una vera e propria rete di città. Non vi è dubbio che in alcune regioni abbia continuato a prevalere l’influsso delle grandi haciendas, o, meglio, quello dei vecchi encomenderos che dominavano con la forza i propri possedimenti rurali, ma la Spagna, a differenza del Portogallo, attribuiva alla colonizzazione un significato più ampio, che non si esauriva nel mero sfruttamento economico. La Spagna si faceva portatrice, più o meno esplicitamente a seconda delle circostanze, di una missione che, per essere portata a termine, necessitava di un nucleo compatto, cioè di una società nuova che, mantenendo i propri vincoli, sorvegliasse e garantisse la realizzazione del progetto. Lo scopo ultimo di questa missione trascendeva l’orizzonte privato dell’arricchimento e la personale esistenza del singolo encomendero. Era qualcosa a cui tutti dovevano partecipare e la città era lo strumento utilizzato per garantire questa partecipazione.
Questo era il ruolo assegnato alla città fin dal momento della sua fondazione, dato che con essa, più che alla costruzione fisica della città stessa, si mirava alla creazione di una società. Era compito di questa società compatta, omogenea e militante, dare forma alla realtà circostante, usando, se necessario, la forza e la costrizione pur di adeguare al disegno prestabilito gli elementi – naturali e sociali, indigeni e non – che ne componevano la trama. La società urbana – compatta, omogenea e militante – nasceva strutturandosi secondo i dettami di quella stessa ideologia che era poi chiamata a difendere e ad imporre ad una realtà considerata inerte ed amorfa. C’era, alla base di tutto, un’antica idea circa le capacità civilizzatrici delle città e delle comunità urbane; era, in sostanza, la stessa ipotesi di sviluppo elaborata e messa in pratica da Alessandro Magno e dai sovrani ellenistici, dai proconsoli romani e dai primi amministratori coloniali che, con l’incarico di adelantados, diedero inizio, a partire dal secolo XI, all’espansione del nucleo medievale europeo in direzione della periferia. Alla radice di questa concezione vi erano una teoria della società e della cultura e un’esperienza pratica da cui la Spagna seppe ricavare un progetto politico.
Quanto detto circa la capacità ipotetica della città ideologica di trasformare la realtà faceva riferimento a due premesse: il carattere inerte e amorfo della realtà preesistente e la convinzione che questa realtà, una volta inglobata in un disegno prestabilito, non potesse più avere – né lo dovesse – uno sviluppo autonomo e spontaneo. La politica sociale e culturale della Spagna, minuziosamente esplicitata e tradotta in precetti che aspiravano a prevedere ogni possibile circostanza, sembrava escludere nel modo più assoluto la possibilità di un qualsiasi evento non previsto, quasi che una società nata dalla volontà progettuale del potere fosse al riparo da qualsiasi processo di trasformazione e differenziazione. All’origine di questa scelta vi era, a rigor di termini, la percezione di un rischio fin troppo noto all’esperienza spagnola e derivante dal contatto con la cultura musulmana: quello del meticciato e dell’acculturazione. Più per far fronte a questa eventualità che per impedire possibili ribellioni sembrò opportuno costituire una rete di città e di comunità urbane che fosse compatta, omogenea e militante, essendo inquadrata in quel sistema politico rigoroso e rigidamente gerarchico che si basava sulla solida struttura ideologica della monarchia cristiana, così come essa si era venuta formando, grazie all’appoggio della Chiesa, nel corso della lotta che aveva opposto la Spagna ai musulmani prima e alla Riforma poi.
La rete delle città aveva il compito di creare un’America spagnola, europea e cattolica, ma, soprattutto, un impero coloniale nel senso più stretto del termine, cioè un mondo dipendente e privo di espressione autonoma, periferico rispetto alla madrepatria di cui doveva riflettere e seguire ogni azione e reazione. Per trasformare l’America in un impero concepito come la Spagna lo voleva era necessario che la realtà coloniale fosse omogenea, o, addirittura, monolitica. Non solo era imprescindibile che l’apparato statale fosse rigido e che il fondamento ideologico dell’ordine costituito fosse totalmente condiviso, tanto nelle sue radici religiose, quanto nelle sue diramazioni giuridiche e politiche, ma, occorreva anche che la nuova società ammettesse la propria condizione di dipendenza, rinunciando così alla possibilità di un moto spontaneo di differenziazione, dato che soltanto una società gerarchica e stabile fino all’immobilismo – perinde ac cadaver secondo il motto di S. Ignazio – poteva assicurare la propria dipendenza e farsi strumento in nome dei superiori fini della madrepatria. Si trattava di un’ideologia che, portata alle sue estreme conseguenze, dava origine ad una specie di delirio che, in una prima fase, aspirò a modellare totalmente la realtà. Nonostante ciò la realtà sociale e culturale dell’America latina era ormai caotica. L’audacia dell’esperimento socio-culturale mise in moto, fin dal primo momento, tutta una serie di processi che risultarono non controllabili e determinarono il progressivo fallimento del progetto originario.
Non fu questo l’orientamento del Portogallo e, perciò, nell’ambito della colonizzazione portoghese il processo fu meno ideologico e quasi del tutto programmatico. La civiltà rurale vi realizzò completamente il proprio ciclo, determinando una situazione nella quale i colonizzatori accettarono lo spontaneo formarsi di una società nuova e, con l’andare del tempo, di una cultura. Soltanto la crescente pressione del mondo mercantilista e borghese, che faceva del Brasile e di tutta l’America latina una zona periferica, modificò questo equilibrio. Mano a mano che tale pressione aumentava, le città e le comunità urbane, in cui la borghesia stava diventando sempre più forte, cominciarono ad assumere maggiore importanza rispetto a quanto era accaduto nel primo periodo della colonizzazione. Lo sviluppo economico e la differenziazione sociale determinarono, indipendentemente dai vincoli politici, una crescente autonomia di fatto che si manifestò con il formarsi delle borghesie locali nel corso del XVIII secolo. Le città smisero così di essere i pallidi centri amministrativi della prima fase di colonizzazione, popolati da comunità urbane povere di mezzi e di aspirazioni, e cominciarono a crescere e ad irrobustirsi fino ad acquisire, nel XIX secolo, un significato paragonabile a quello che, proprio allora, veniva raggiunto anche dai centri dell’area spagnola.
In quest’era il processo fu, naturalmente, più evidente. Fondate e organizzate per assicurare l’omogeneità e la dipendenza del mondo coloniale, le città incominciarono ad assumere pienamente il ruolo ideologico che era stato loro assegnato; tuttavia esse non si limitarono ad essere le intermediarie ideologiche della madrepatria, ma crearono nuove ideologie per fornire risposte adeguate alle situazioni che si erano spontaneamente venute creando in ciascuna zona. Le città smisero poco a poco di essere semplici copie delle città spagnole, da cui traevano spesso persino il nome, e cominciarono ad assumere un carattere meno generico.
Non vi è dubbio che i centri urbani continuarono ad essere zone particolarmente sensibili all’influenza esterna. Ad essi giungeva ed in essi trovava eco sia ciò che proveniva dalla madrepatria sia ciò che invece arrivava indirettamente da quell’agitato mondo altro che non rinunciò mai al suo tentativo di integrare l’America latina nel più vasto ambito del sistema mercantilistico. Tutti questi elementi originarono domande e fu subito chiaro che le risposte che si venivano elaborando non erano ispirate dal monolitico sistema imperiale ma da una prudente valutazione delle circostanze particolari. Le città non solo mantennero ma addirittura accentuarono il proprio carattere ideologico, esercitando la propria egemonia per trasmettere alle rispettive aree di influenza un’immagine del mondo, una spiegazione degli eventi e, soprattutto, una risposta adeguata alle aspettative di ciascuna zona.
E cosa certa che gli scenari ideologici che queste città andavano elaborando autonomamente furono sempre, almeno in parte, dovuti all’impianto di fattori esterni, determinati sia dalla struttura socioeconomica dei paesi europei che da quelli del mondo capitalista, mercantile e borghese, per non parlare dell’influenza esercitata dalle grandi correnti di pensiero che permeavano tanto le ideologie destinate a spiegare la realtà quanto quelle che invece intendevano modificarla, dato che le une come le altre operavano a molteplici livelli. Il punto di partenza fu sempre l’immagine di un’America europeizzata e considerata alla stregua di una nuova Europa, inserita nel sistema di relazioni creato e diretto dall’Europa stessa. Tuttavia, sia pure entro questi limiti e molto lentamente, le ideologie finirono per tracciare un proprio percorso e, senza alterare il quadro generale, per acquisire una certa autonomia, grazie alla quale poterono ben presto presentarsi come risposte spontanee e definizioni concrete collegate direttamente a situazioni reali.
Una definizione concreta fu, per esempio, quella che si riferiva alla reale posizione di ogni città nell’ambito del vasto e differenziato mondo continentale. La città ideale dell’epoca delle fondazioni – amministrativa, contabile, militare e religiosa – incominciò a scoprire se stessa come città reale, quasi sempre piccola e miserabile, povera di abitanti e ricca di pericoli e di difficoltà. Incominciò, cioè, a rendersi conto di essere in un luogo reale, circondata da un territorio reale, attraversata da strade che portavano ad altre città, anch’esse reali, così come erano reali le zone rurali che queste strade attraversavano, dato che ogni cosa aveva tratti peculiari che sfuggivano a qualsiasi generalizzazione giuridico-amministrativa. Le città coloniali presero, insomma, coscienza di quanto i loro veri problemi e le loro possibilità future derivassero e dipendessero da tutto ciò e riuscirono a farsi reali grazie al rapporto con il mondo che le circondava.
La città reale si rese così conto di costituire una società nuova che non era più quella dei primi residenti, ma quella dei veri e propri abitanti, che vi si stanziarono definitivamente, costruendovi la propria casa, andando a vivere, per mancanza di mezzi, in case di proprietà altrui, o rassegnandosi al misero tugurio che ne simboleggiava l’emarginazione. Costoro vissero del proprio lavoro all’interno della città, popolandone le strade e le piazze, discutendone sia i piccoli problemi quotidiani che quelli, più importanti, che comportavano scelte inerenti il destino della comunità. Altri si aggiunsero agli eredi di costoro, con un lento processo di integrazione. La città reale prese coscienza di essere una società urbana composta da gruppi etnici non meno reali: gli spagnoli, i creoli, gli indios, i meticci, i negri, i mulatti e gli zambos, tutti inesorabilmente uniti, nonostante l’ordinamento gerarchico, in un processo altrettanto inarrestabile che li conduceva verso l’ibridazione e verso l’incerta avventura di una fortunosa mobilità sociale.
Ogni società urbana capì di essere una società sui generis, diversa, in generale, dalle società urbane delle città della Spagna e, in particolare, da quelle delle altre città latino americane, ciascuna delle quali, vicina o lontana che fosse, aveva specifici problemi, dovendo rispettare la peculiare e non risolvibile equazione che governava le relazioni tra i vari elementi sociali che la componevano. Per finire, ci si rese conto che ogni città aveva cominciato ad avere una propria storia, dalla quale non poteva prescindere ed il cui peso si avvertiva in tutte quelle situazioni e quei momenti reali nei quali era necessario prendere una decisione; tale storia era collegata allo sviluppo di ogni particolare comunità urbana, composta da generazioni successive, legate, in qualche modo, alla stessa struttura e allo stesso genere di situazioni. Prendere coscienza della peculiarità di ogni società urbana significò abbozzare un’altra concreta definizione destinata ad inserirsi nel quadro della particolare ideologia di ciascuna di esse.
Definizione concreta fu anche quella di precisare quale fosse la reale funzione della città. Non vi è dubbio che tutti i centri urbani condividessero quella basilare funzione che era stata loro attribuita dalla politica coloniale spagnola: assicurare il controllo del territorio, tutelare la purezza razziale e culturale del gruppo colonizzatore e promuovere lo sviluppo della regione nella quale erano inserite. Oltre a ciò era stato affidato a ciascuna di esse un compito specifico: essere porto, sede di guarnigione, centro minerario, emporio mercantile. Si trattava di funzioni molto precise, poste in relazione con le esigenze generali del sistema. Tuttavia una città e una società urbana non possono essere costruite in aria. Dopo un certo numero di generazioni ogni comunità urbana era, di fatto, andata oltre i limiti del compito strumentale che le era stato assegnato e aveva cominciato a delineare il profilo di quella funzione reale che la città doveva e poteva compiere e che la società urbana, nella sua specificità storica, desiderava compiere. Tra queste linee di sviluppo vennero determinandosi diverse possibili combinazioni e i vari gruppi sociali cominciarono a perseguire obiettivi differenziati. A poco a poco, a margine delle fondamentali funzioni svolte dalla città, cominciarono ad apparire gli stili di vita della comunità e dei gruppi sociali, dando origine ai tratti specifici di ciascuna cultura urbana.
Queste definizioni contenevano un’interpretazione del passato e un progetto per il futuro e costituivano le ideologie particolari con cui ogni città andava lentamente sostituendo quella generica della colonizzazione; nel corso di questa differenziazione veniva rimodellato l’originario disegno imperialistico, insinuando nella sua utopica omogeneità il nuovo ordinamento destinato a subentargli.
Questa trasformazione incominciò a delinearsi negli ultimi decenni del secolo XVIII, quando il mondo latinoamericano subì l’impatto frontale dell’offensiva mercantilista. Allora le città spagnole delle Indie, nate con le fondazioni, incominciarono a differenziarsi sulla base delle possibilità offerte loro dalla localizzazione e dalla struttura sociale: mentre alcune, restando fedeli all’ideologia da cui erano nate, mantennero in vita il sistema tradizionale, incominciando così a percorrere il cammino che le avrebbe portate a diventare centri di monopolio, altre, facendo propria l’ideologia borghese, fecero il salto che le avrebbe trasformate in attivi centri di libero mercato, la cui vocazione internazionale andava oltre i confini del mondo spagnolo e si collegava agli interessi di borghesie nazionali sempre più forti. Si trattò di una trasformazione profonda, resa più percepibile da alcuni fattori destinati ad accelerare il processo di differenziazione: mentre alcune città, sospese tra la condizione di centri satellite e quella borghese, preferivano restare nell’orbita spagnola, altre, più spiccatamente borghesi, incominciarono ad intravedere i vantaggi che sarebbero potuti derivare dall’indipendenza politica.
Il mondo spagnolo finì così per adeguarsi alle esigenze mercantili e borghesi della comunità internazionale. Le nuove idee che incominciarono a diffondersi, in campo economico, sociale, politico e culturale, all’epoca dell’indipendenza non solo misero in movimento le aree rurali ma modificarono anche le città in modo sostanziale. Le classi borghesi che accettarono la sfida e produssero un radicale cambiamento nella struttura delle aree che gravitavano attorno alle città finirono in qualche modo per sacrificare i propri interessi a vantaggio di quelli comunitari; in questi gruppi andarono confluendo anche le nuove élites formatisi con l’ascesa dei gruppi rurali e la classe che ne risultò si fece carico di fornire al complesso sociale un progetto politico e un orientamento di fondo. Si formò così un nuovo patriziato inestricabilmente legato al destino nazionale, benché i membri della neonata classe dirigente mescolassero, senza averne precisa coscienza, gli interessi pubblici a quelli privati.
In questo periodo cominciò a risultare chiaro che le città dell’America latina stavano seguendo, nel loro sviluppo, strade diverse. I centri del monopolio accentuarono il proprio isolamento, senza che per questo si arrestasse al loro interno l’evoluzione di processi sociali di grande complessità; le città più dinamiche cercarono invece di adeguarsi alle esigenze della comunità internazionale, affrontando al contempo i problemi posti dalla modificazione della propria struttura interna. A rigor di termini tutte le città latinoamericane accelerarono a partire da questo momento il duplice processo che aveva avuto inizio ai tempi della fondazione. Da un lato cercavano di adeguarsi al modello europeo seguendone i cambiamenti e dall’altro si trovavano a dover fronteggiare i problemi posti dalle proprie modificazioni strutturali, che alteravano le funzioni dell’agglomerato urbano e le relazioni tra i vari gruppi sociali, nonché quelle tra le città e il circondario. Questo duplice processo di sviluppo, eteronomo ed autonomo, caratterizzò, intensificandosi sempre più, tutto il periodo indipendente. I settori che erano stati penalizzati in epoca coloniale, in special modo rurali, fecero il loro ingresso nella vita pubblica, chiedendo di partecipare alla lotta politica e ricercando la scalata sociale; entrarono così a far parte delle comunità urbane nuovi gruppi che impressero alle città un carattere più decisamente regionalistico, accelerandone lo sviluppo autonomo. Nel frattempo, però, aveva cominciato ad essere percepibile nei centri più dinamici, a partire dalle ultime decadi del secolo XIX, una nuova influenza esterna: quella della società industriale, che impresse una brusca accelerazione allo sviluppo etero dipendente delle città latinoamericane, portandole alla definitiva inclusione nel sistema economico di un mondo capitalistico sempre più proiettato in direzione di una politica imperialistica.
Si aprì in questo modo un’epoca meno tormentata di quella che l’aveva preceduta. Le borghesie nazionali, ormai mature e dotate di una lunga esperienza, fecero propria l’ideologia del progresso e lavorarono per accelerare lo sviluppo eteronomo delle città, contenendo quello autonomo con l’esercizio di un potere forte. Non vi è dubbio che tale progetto sia riuscito ad imporsi e abbia costretto il mondo rurale ad accettare gli orientamenti proposti dai gruppi intermediari. Era però inevitabile che tale equilibrio crollasse nel volgere di pochi decenni. Ai fattori sociali che agivano da sempre nel mondo americano si aggiunsero, in molte delle città più dinamiche, alcuni aspetti nuovi, sia di carattere etnico e sociale, come le migrazioni, sia di carattere funzionale, come la crescita dei gruppi addetti al settore terziario. Resi più gravi dalla rottura degli equilibri con il mondo rurale i problemi della città vennero moltiplicati dalla crescita demografica, dalla differenziazione sociale e, talvolta, da quella ideologica tra i vari gruppi. L’impatto della crisi finanziaria del 1929 determinò il crollo dei cambi.
Da allora in poi il processo di metropolizzazione dei più importanti centri dinamici latinoamericani fornì la misura sia dell’intensità che l’urbanesimo andava assumendo nell’America centro meridionale, sia della speculare crisi del mondo rurale. Proiettate verso uno sviluppo eteronomo, le metropoli acquistarono sempre maggior potere. L’alta borghesia condivise l’ideologia delle società consumistiche e cercò di dare impulso allo sviluppo etero dipendente delle aree metropolitane. Le metropoli avevano infatti provocato un profondissimo mutamento sociale, mettendo in moto oltre ai settori alto borghesi e, più in generale, alle classi socialmente integrate, anche vaste moltitudini di emarginati che sovrapposero all’immagine della grande città moderna quella dei baraccati che la circondano. Questa imprevista forma di sviluppo autonomo mise in evidenza la polifunzionalità del centro urbano e la complessità dei suoi rapporti con il territorio circostante, inaugurando una nuova fase di intensi mutamenti della struttura economica, sociale e culturale delle comunità urbane. Non dovette passare molto tempo prima che questi cambiamenti arrivassero alla politica.
L’indagine che ha condotto ai risultati che vengono esposti in questo libro è stata minuziosa e ha riguardato la formazione e la trasformazione delle comunità e delle culture urbane che, nel corso di una storia tormentata, hanno assunto varie forme, differenziandosi, anche all’interno, in base al tempo, allo spazio e alla stratificazione sociale. In fondo si vuole anche definire il rapporto tra lo sviluppo eteronomo delle città e il loro sviluppo autonomo, dando per scontato che in questo contrappunto si elaborano non soltanto le culture e le sottoculture del mondo urbano, ma anche le relazioni tra questo e il mondo rurale, dove le Ideologie acquistano maggior forza, entrando in rapporto, in modo diretto e dialettico, con le strutture della realtà.
1.
L’America latina nel quadro dell’espansione europea
Verso la fine del secolo XV le popolazioni aborigene dell’America avevano sviluppato una propria cultura e costituivano un mondo autonomo. Tuttavia, a partire dall’arrivo degli europei il mondo indigeno si trovò ad essere dominato in tutte le sue forme e per l’America si aprì una nuova era, la cui prima manifestazione fu il formarsi di nuove comunità costituite da invasori e dominati, da europei e nativi.
Il processo di formazione di queste nuove società partecipò contemporaneamente dello sviluppo storico delle civiltà aborigene e di quelle europee, anche se furono queste ultime a prendere l’iniziativa, a svolgere la funzione propulsiva e a governare a proprio vantaggio l’evoluzione dell’intero processo. L’avventura americana coinvolse entrambe le culture, ma il processo fu avviato dall’Europa a seguito di una profonda e secolare trasformazione interna le cui conseguenze investirono vaste regioni fino a quel momento estranee al mondo europeo. In questo particolare caso tale sorte toccò all’America.
Anche quando il processo di formazione delle nuove società aveva ormai cominciato ad essere un problema americano continuava però a sussistere, da un altro punto di vista, come problema europeo. Fu infatti la società europea a dare la propria Impronta alla colonizzazione, a imprimere ai protagonisti le proprie caratteristiche, a stabilire gli obiettivi dell’impresa e a riversare sul nuovo mondo i suoi vecchi problemi. Il mondo americano e le società indigene videro giungere gli invasori senza fondersi conto di ciò che stava accadendo, dato che tanto l’arrivo quanto il comportamento dei nuovi venuti erano estranei alla logica della realtà americana: si trattava di una forza che, venendo da fuori, agiva in base alle proprie norme. L’invasione di un mondo alieno era invece perfettamente compatibile con la logica evolutiva delle società europee.
Questo duplice inquadramento prospettico moltiplicò la complessità del processo che, da un certo momento in poi, incominciò a manifestarsi in modo specificamente americano, radicalizzandosi e imponendo ai suoi protagonisti l’osservanza di una legge interna, imposta dalla nuova situazione. Prima di allora tutto ciò aveva fatto parte, per molto tempo, della storia delle società europee che, spinte da un impulso incoercibile, si erano avventurate oltre i propri confini per dare inizio ad una fase di espansione, nel corso della quale prese l’avvio il processo che avrebbe portato alla formazione dell’America latina. Poiché l’espansione europea fu il risultato di una lunga serie di trasformazioni, è a queste che bisogna guardare per trovare la chiave dei comportamenti che caratterizzarono la formazione del mondo latinoamericano.
La genesi dell’espansione europea verso la periferia
A rigor di termini, l’espansione oceanica del XV secolo non è altro che la copia ingrandita di un’altra ondata imperialistica che aveva avuto inizio circa quattro secoli prima. Questa fase che si protrae dalla fine del secolo XI al principio del secolo XIV è alla base del processo di trasformazione, e perciò, rivela in modo non equivocabile la peculiarità del movimento di espansione.
L’antico nucleo dell’Europa romana aveva subito nel corso dei secoli numerose crisi successive che ne avevano modificato la fisionomia. La mancanza di coesione interna avviò la distruzione della vasta unità in cui si collocava l’economia mediterranea; le invasioni germaniche e il dominio dei musulmani su quello che era stato il mare dei Romani conclusero l’opera. Il sistema commerciale si deteriorò, le città e la vita urbana entrarono in una fase di piena decadenza e, nel volgere di poco tempo, tutta l’area acquisì una fisionomia spiccatamente rurale. È proprio qui, nel cuore dell’Europa romana e nel periodo successivo al collasso commerciale del Mediterraneo che nel corso del secolo VIII si costituì, poco a poco, la società cristiano-feudale, che, divisa nelle due classi dei miles e dei rustici, riordinò la situazione che si era venuta creando in conseguenza di tanti e tanto profondi sconvolgimenti. Il feudo economicamente autosufficiente fu la forma assunta dalla struttura economica di questo sistema, mentre la monarchia feudale, esercitata da un re che era primus inter pares, ne fu la manifestazione politica. Nel secolo XI questa società si era ormai consolidata.
L’Europa feudale, tecnicamente rozza, isolata, debole e divisa, proiettata verso la trascendenza e sprezzante della realtà, si sentiva circondata da una periferia minacciosa. I musulmani, i vichinghi, gli slavi, i magiari sconfinavano ripetutamente, depredando e talvolta colonizzando le aree marginali, da cui poi penetravano, con le loro incursioni, nel cuore dell’Europa. Questa situazione incominciò a modificarsi attorno al secolo XI. Gli invasori periferici si fecero meno aggressivi e, al contempo, il formarsi di popolosi agglomerati determinò una ripresa delle attività commerciali all’interno dell’Europa feudale.
La trasformazione più profonda si produsse forse nel Mediterraneo. Divisi e logorati, i musulmani incominciarono a perdere terreno e in varie regioni dell’occidente cristiano si formarono gruppi decisi a debellarli completamente. Le crociate accelerarono e portarono a termine questo processo, riaprendo le vie commerciali che attraverso il Mediterraneo collegavano il Levante all’Occidente; nel volgere di poco tempo le conseguenze di questa nuova situazione divennero evidenti.
L’apertura delle rotte mediterranee ai commerci dei regni cristiani non solo determinò un’intensa attività lungo le sue coste, creando un remunerativo traffico di beni suntuari, ma promosse anche frenetici scambi con le zone interne, sia lungo le principali strade – perlopiù fluviali – che lungo le loro diramazioni, che raggiungevano ogni angolo del continente. Non circolarono soltanto i prodotti del Levante, ma lungo le stesse arterie che servivano al grande commercio cominciarono a muoversi anche i protagonisti di un piccolo traffico interregionale che si occupava dello scambio di prodotti come il sale, il vino, l’olio, i tessuti di lana, le pelli, il legname, la cera, i generi alimentari e i prodotti dell’artigianato regionale.
Qualcuno doveva pur occuparsi di tutto ciò. Per questo in alcune regioni, alla fine del secolo X e ancor più nel corso di quello successivo, cominciò a svilupparsi una nuova classe, modesta e quasi insignificante al principio, ma sempre più ricca mano a mano che si riorganizzavano i vari mercati e che gli affari assumevano un corso regolare: la borghesia. Non essendo né milites, né rustici, i borghesi costituirono davvero un nuovo tipo umano; la nuova morale, la nuova idea della vita, il nuovo atteggiamento di fronte alla realtà li avrebbe qualificati molto presto come gruppo sociale dalle caratteristiche rivoluzionarie. Le città, ambiente naturale di questa classe, vennero da essa vivificate o addirittura create, dato che rappresentavano il naturale scenario della sua vita e del suo lavoro.
Si verificò una vera e propria esplosione dell’urbanesimo. Innumerevoli agglomerati, piccoli ma in espansione, cominciarono a sorgere nei campi, lungo le rive dei fiumi o lungo le coste, a margine e ai crocevia delle strade, accanto alle fortificazioni di un’abbazia o di un castello. Anche molti antichi centri, ormai in declino, ripresero vita, ripopolandosi e adattandosi alle nuove forme di attività. Poste all’interno dei feudi, le nuove comunità urbane mostravano un’inequivocabile tendenza all’eterodossia, anche se in un primo tempo non esploderanno quei contrasti che caratterizzeranno la fase successiva. L’attività stessa rappresentava in questo senso un pericolo: aveva avuto inizio la trasformazione dei meccanismi economici e sociali di dipendenza e per le giovani generazioni avevano cominciato ad aprirsi nuove possibilità, legate alla rinascita dell’economia monetaria.
D’altro canto la città oltre a soddisfare le aspirazioni dei nuovi gruppi alla sicurezza e alla libertà creò anche le condizioni necessarie alla nascita di un mercato e di un’economia di mercato, cioè uno spazio libero e protetto dove venditori e compratori avrebbero potuto incontrarsi godendo delle garanzie offerte dal potere. La città, oltre ad essere la forma di vita adottata dalle nuove comunità che andavano formandosi, si dimostrò anche il più efficace strumento disponibile per modificare il sistema delle relazioni economiche e sociali; e non è tutto: il mercato, concentrando in un unico luogo compratori e venditori, divenne un foro nel quale i membri della nuova società incominciarono a dialogare, scambiando opinioni, assumendo atteggiamenti comuni e criticando insieme i comportamenti altrui, dando forma a leggi, idee e progetti, uno dei quali avrebbe potuto essere, e fu, quello di varcare i limiti del mercato urbano per aumentare i profitti.
Un meccanismo analogo era, del resto, implicito nel nuovo modello economico. Il mercato, mostrando il libero gioco della domanda e dell’offerta, era molto sensibile a tutte le possibilità che apparivano alla sua portata. Per moltiplicare i guadagni sarebbe bastato poter essere presenti su altri mercati.
Se massimizzare i profitti era un obiettivo economico tipico delle classi borghesi, conquistare nuovi mercati sembrava però essere un’impresa fuori dalla loro portata e soprattutto estranea alla loro esperienza. Si trattava infatti di una vera e propria guerra di conquista. Molto presto, alla fine del secolo XI, si creò, così, sia pure confusamente, una possibile area di convergenza tra gli interessi dei borghesi e quelli dei signori feudali che si fecero carico di garantire l’espansione del gruppo borghese europeo.
Lungo le medesime direttrici che gli invasori avevano utilizzato per la loro penetrazione i principi feudali diedero inizio al cammino della riconquista. Le più importanti tra queste linee di espansione furono forse quelle del Mediterraneo che collegavano regioni di cui era ben nota l’interdipendenza economica. Con la crociata divenne chiaro che le rotte orientali potevano ritornare ad essere utilizzate, dato che lungo le coste del Vicino Oriente vi erano di nuovo mercati e porti disponibili ai traffici degli europei. I signori feudali imponevano i loro domini, sovrani o ducali che fossero, uno sfruttamento agricolo del suolo, ma con e per mezzo loro giungevano anche i mercanti, che davano vita ad un’intensa attività commerciale. I Pisani, i Genovesi, i Normanni, gli Inglesi e i Veneziani costruirono le loro fortune grazie alle nuove basi mercantili di Jaffa, S. Giovanni d’Acri, Biblo e della stessa Costantinopoli, non appena i Franchi e i Veneziani conclusero, aiutandosi reciprocamente, la straordinaria avventura della crociata.
In questo modo il Mediterraneo tornò a rivestire quel ruolo di centralità economica che già aveva avuto per molti secoli. Le antiche città si scossero dal loro torpore feudale e ricominciarono a movimentare le proprie risorse; con la loro rinascita si sviluppavano nuove società borghesi di incontrollabile vitalità. Quest’energia era evidente sia negli audaci progetti con cui quelle società si rivolgevano al mondo esterno, sia nelle forme interne di organizzazione della vita. Era un po’ come se Roma fosse risorta grazie, però, anche all’aiuto del mondo arabo africano che ne completava e ne moltiplicava le prospettive.
La rinascita del Mediterraneo non si limitò, tuttavia, alle sole sue coste. Da esse partivano infatti le rotte che rendevano possibile il trasporto dei prodotti che partivano e arrivavano da e per i suoi porti. Da questi traffici numerose città, grandi e piccole, incominciarono a trarre quei benefici che consentirono loro di dar vita a circuiti commerciali autonomi di minore ampiezza. In ogni caso l’area mediterranea non esauriva più gli orizzonti di quel mondo che si era formato dopo le invasioni germaniche e che si estendeva ormai fino all’Atlantico ed all’Europa centro settentrionale.
Lungo le rotte dell’invasione vichinga erano infatti sorti innumerevoli centri commerciali tra loro collegati all’interno di un’area che comprendeva il Mar del Nord e le coste dell’Atlantico. Questa zona, sviluppatasi durante e dopo l’epoca carolingia, era del tutto priva di tradizione classica. La produzione, la circolazione e il consumo dei beni si svilupparono, al suo interno, sulla base di interessi legati alla nuova situazione e, nel volgere di poco tempo, raggiunsero un volume considerevole in vaste aree che comprendevano, oltre all’alta Germania, anche zone poste molto più a nord, sulle rotte del Baltico e lungo le strade che, partendo dalle sue sponde, si spingevano verso l’interno per raggiungere la Russia e la Polonia. Come era avvenuto nel Mediterraneo, questo processo di espansione fu in parte sistematico e in parte spontaneo, specie per la parte di esso promossa dai gruppi mercantili. I signori feudali furono compagni di strada di questa trasformazione economica e, mentre la Lega Anseatica metteva a punto in Germania un sistema capace di regolare il traffico internazionale, Dani, Inglesi e Vichinghi fecero quanto era necessario per fornire stabilità politica alla regione, creando una struttura di potere all’interno della quale la nuova corrente economica avrebbe potuto muoversi liberamente. Forse a causa del maggiore dinamismo organizzativo, la rete commerciale creata dalla Lega Anseatica fu indubbiamente più vasta della zona che i signori feudali riuscirono a controllare politicamente, come del resto era già accaduto nel Mediterraneo, dove, addirittura, non fu neppure possibile costituire un potere politico in condizioni di regolare il vivace sistema economico di grandi città come Genova, Barcellona e Valenza.
I signori feudali e i mercanti della Germania incominciarono ad espandersi oltre l’Elba in direzione del Levante. Per garantire la difesa delle terre che avevano occupato lungo i confini dei loro domini, i feudatari ne favorirono il popolamento fondando, con l’appoggio della chiesa e dei coloni provenienti dalla Germania, città come Stettino, Lubecca, Rostock e Riga. Gran parte degli immigrati erano mercanti e quando si trasferirono in queste regioni o in altre, come la Boemia e l’Ungheria, preferirono stabilirsi nelle nuove città e in quelle già esistenti, dedicandosi, in gruppo, alle attività del commercio e dell’artigianato, senza per questo rinunciare ad occupare la terra, dove e quando ciò era possibile. Tra i territori di cui stavano determinando la fortuna economica e le antiche città tedesche da cui provenivano nasceva così un intenso traffico che allargava ulteriormente la già enorme rete commerciale della nuova Europa.
Contemporaneamente, sul fronte opposto, i regni cristiani della penisola iberica costringevano i musulmani alla ritirata. Lungo la costa del Mediterraneo l’espansione liberò, cominciando dalla Catalogna, buona parte del litorale orientale; lungo la costa atlantica, invece, veniva riconquistato il Portogallo, mentre, partendo dal piccolo regno delle Asturie, fu possibile occupare e ripopolare le vallate del Duero e del Tago, finché Ferdinando III, penetrando in Andalusia, non ridusse i domini musulmani al solo regno di Granada. Questa frontiera fu l’ultima a rimanere aperta tra cristiani e musulmani, all’interno di un’Europa nella quale il traffico delle merci aveva ormai raggiunto un considerevole dinamismo.
Il ruolo propulsivo delle città nell’espansione verso la periferia
In questo processo di espansione verso la periferia le città svolsero un ruolo di singolare importanza, dando forma ad un’esperienza destinata ad avere conseguenze molteplici e profonde.
L’ondata di espansione avvenne contemporaneamente all’esplosione dello sviluppo urbano, tanto da poter affermare che i due fenomeni furono in realtà uno solo. Alla crescita demografica delle città e alla loro rinascita economica si accompagnò la tendenza a valicare i limiti del mercato urbano. Fu necessario ricorrere all’aiuto dei signori feudali, ai quali fu delegato il comando militare dell’impresa, anche se risultò chiaro per tutti che senza la spinta fornita dalle città che la borghesia aveva reso operose l’impresa non sarebbe stata possibile e non avrebbe avuto senso. Soltanto la nuova economia rendeva infatti possibile mettere in moto l’apparato necessario al raggiungimento di obiettivi tanto lontani e difficili, giustificando imprese che, grazie ai suoi meccanismi, sarebbero risultate anche estremamente vantaggiose. L’espansione periferica fu il progetto che le borghesie urbane sottoposero implicitamente alle classi feudali, delineando un’intesa tra due gruppi le cui vocazioni erano, a rigori, diverse. Nonostante ciò da questo momento in avanti faranno in modo di trovare un accordo, dando così vita ad una società feudo-borghese.
La città non fu soltanto lo strumento che rese possibile l’espansione verso la periferia, ma anche lo strumento che si decise di usare per consolidare l’avvenuta espansione e garantirne la redditività. Il signore feudale e le sue truppe erano l’avanguardia di una più varia congerie di colonizzatori, tra i quali figuravano avventurieri, mercanti ed ecclesiastici. Il primo drappello, una volta raggiunto il teatro delle operazioni, portava a termine la prima parte dell’impresa agli ordini di Baldovino, di Boemondo e di Adolfo di Hollstein come a quelli di Enrico il Leóne, Alfonso VI e Jaime I. Una volta conquistato il dominio territoriale aveva inizio un’operazione mercantile di ampio respiro. Se la regione conquistata era disabitata, la città vi sorgeva dal nulla con un formale atto di fondazione, come avvenne per Riga e per Lubecca, se invece vi erano nella regione antichi centri abbandonati, si provvedeva al ripopolamento, come avvenne per Zamora e Astorga; in questo modo era possibile creare contemporaneamente una linea di difesa militare e una direttrice di espansione economica. Le fortificazioni e il mercato erano i simboli di questa doppia funzione che la città incominciava a svolgere. Se l’uomo d’armi garantiva un modello di relazioni basato sul controllo politico militare della città sulla regione, il mercante assicurava, in un altro campo, che l’economia dell’intero territorio gravitasse attorno al mercato urbano. La città, ricca e ben protetta, garantiva, inoltre, l’unità e la sicurezza del gruppo conquistatore. Quando la regione conquistata era già popolata, come nel caso della Palestina, dell’Asia minore e dell’Andalusia, uomini d’armi, di fede e di denaro entravano insieme nelle città espugnate; i primi occupavano bastioni e fortezze, i secondi prendevano possesso dei templi e gli ultimi incominciavano semplicemente a prendere in mano le redini delle attività di compra-vendita, traendo, come gli altri, vantaggio dalla struttura preesistente di cui si servivano, piegandola ai propri fini, per neutralizzare l’influenza dei precedenti dominatori ed incrementare la propria nell’interesse della coesione, della sicurezza e della prosperità di una classe dirigente sempre più compatta. I crociati si comportarono in questo modo in Palestina, delegando a Pisani, Genovesi e Veneziani la gestione degli scambi che avvenivano sia all’interno della città sia tra questa e gli altri centri urbani dell’Occidente. I conquistatori iberici fecero lo stesso quando entrarono a Toledo, a Lisbona, a Siviglia e a Cordova.
L’esperienza di quanti, avendo dimenticato le tecniche di combattimento dell’età classica, conoscevano soltanto la guerra feudale portò alla riscoperta e alla conferma di una verità che era già ben nota ai popoli antichi e che assegnava alla città un ruolo di punta nell’avanzata della colonizzazione. La città rappresentò per i cavalieri feudali una variante del castello: muraglie, torri, fossati e porte ne facevano infatti uno spazio difeso e di difesa. Oltre a questo essa fu però, per i mercanti e per gli stessi signori, una zona protetta, entro i confini e lungo le strade della quale si teneva un mercato e si svolgevano attività commerciali, artigianali e talvolta finanziarie, dato che i prestatori si avventuravano sempre più spesso in imprese tanto rischiose (quanto lucrose. Per gli ecclesiastici la città non era soltanto una fortezza e un mercato, ma anche un luogo di catechismo per gli infedeli e di controllo per la vacillante fede di coloro che, essendosi trasferiti da poco, non erano più sottoposti alla vigilanza spirituale della comunità d’origine e tendevano, per questo, a tralignare. La città sembrava insomma essere un perfetto strumento di dominio nelle mani, ovviamente, di chi vi deteneva il potere. I gruppi che governarono le città fondate, rifondate od occupate nel primo periodo dell’espansione del nucleo europeo verso la periferia, cioè nei secoli XI-XIII, aumentarono la propria capacità di direzione, politico-militare, spirituale ed economica, mantenendosi uniti e concentrando, di conseguenza, tutte le loro energie. Per questo la prima ondata di espansione ebbe caratteri di grande stabilità e, con poche modifiche, l’area che venne così sottomessa venne definitivamente assimilata. Era una lezione di cui ci si sarebbe ricordati.
Convenzioni feudali e convenzioni borghesi (N. del E.: “Actitudes”)
Il meccanismo della collaborazione tra nobili e borghesi, che cominciò a funzionare in modo efficiente in vista della prima espansione verso la periferia, andò perfezionandosi con l’andare del tempo. Questo equilibrio venne raggiunto nella pratica piuttosto che nella teoria e fu il risultato delle limitazioni che ciascuna classe percepiva sulla base della propria capacità. Tutto avvenne insomma con quella chiarezza che è privilegio delle fasi iniziali di qualsiasi processo, quando è ancora possibile isolare i fatti senza essere disturbati dalle interpretazioni ideologiche. Per dare slancio all’espansione europea, primo gradino dello sviluppo del capitalismo, le due classi cercarono un’intesa su ciò che avevano di complementare, lasciando da parte ciò che l’una e l’altra rappresentavano e sforzandosi, piuttosto, di far convergere in uno spazio comune le proprie diverse e, talvolta, opposte vocazioni.
Sia la vecchia che la nuova classe avevano, è ovvio, una peculiare e ben definita visione del mondo, benché la mentalità borghese non fosse ancora in quest’epoca altrettanto rigidamente formata di quella signorile. Nei fini ultimi si trattava di due modelli antitetici; come tutte le opposizioni fondamentali, anche questa si trasformava in incompatibilità solo a condizione di portare l’analisi alle sue estreme conseguenze ed opzioni. Fin che ciò non fosse avvenuto la dimensione programmatica avrebbe consentito ampie convergenze; per questo, uno dei tratti peculiari della società e, in conseguenza, della cultura feudo-borghese fu proprio quello di cercare fin dove fosse possibile, di seguire i fatti per eludere lo scontro sul terreno delle questioni ultime.
Il mondo feudale aveva una concezione metafisica dell’esistenza e credeva che l’intero sistema delle relazioni terrene poggiasse su una base soprannaturale. Non fu, ovviamente, una teoria originaria, ma fu comunque quella prevalente nel periodo compreso tra il crollo dell’impero carolingio e il secolo XI. La classe dirigente feudale monopolizzava, oltre al potere, anche il possesso della terra, il cui significato non si esauriva nella centralità produttiva di questo fattore, ma andava ben al di là delle funzioni economiche che l’agricoltura svolgeva nella società del tempo. Nell’ottica di questa nobiltà la ricchezza fondiaria discendeva logicamente dalla potenza, per diritto di conquista: dalla forza politico-militare era nata quella economica, e ciò era stato possibile perché quella società riconosceva come fondamento ultimo della proprietà terriera il diritto di conquista.
Al contrario la borghesia aveva una concezione secolarizzata, materialistica e profana della vita. Fortemente agnostica, tale classe non si preoccupò di formalizzare i propri orientamenti e lo fece soltanto in modo sporadico, servendosi della propria coscienza intellettuale ed artistica. Nonostante ciò, il comportamento pratico dei suoi membri finiva comunque per rilevarne i valori, anche se, con una sapiente ipocrisia, costoro cercavano di tenere nascosti i propri obiettivi. La borghesia a differenza della nobiltà guerriera non era nata ponendosi al centro di una grande e gloriosa avventura di potere e di conquista, ma si era sviluppata lentamente, all’interno della struttura feudale che altri avevano creato, e si era affermata approfittando di un momento di crisi per sottrarsi al totale dominio della classe egemone e dar vita ad un sottosistema che, pur essendo inizialmente dipendente, manifestò ben presto una forte tendenza all’emancipazione. La leva utilizzata per scardinare la sottomissione fu il denaro e il sottosistema che rese possibile utilizzarlo come risorsa strategica fu quello dell’economia monetaria. In questo modo si formò la ricchezza. Caratteristica di questa visione del mondo fu la convinzione che la potenza potesse derivare dalla ricchezza e che questa e non quella costituisse il vero centro del sistema, anello se era innegabile che, come dimostrava l’esperienza dell’aristocrazia feudale, una posizione di dominio potesse essere raggiunta anche per altre vie. La borghesia ritenne che, almeno per quanto la riguardava, la ricchezza venisse prima del potere, poiché questo era ciò che la sua esperienza le suggeriva sulla base di quanto era accaduto con la formazione dei nuovi patriziati.
Nel corso delle lotte che accompagnarono la prima espansione europea, risultò chiaro che, nell’ambito dell’alleanza feudo-borghese, lo due concezioni potessero coesistere senza eccessivi attriti. I feudali imposero i propri fini ultimi: la missione religiosa in primis e, a seguire, la gloria militare. Dietro a questi, cominciarono però ad esserci, specie in una seconda fase, altri e più concreti fini, come, per esempio, l’incremento del potere e la nascita di nuovi domini, divenuta ormai impossibili all’interno del nucleo europeo. Con la parola potenza la classe feudale indicava, infatti, un insieme che comprendeva sia il potere che la ricchezza. Per questo prese possesso della terra e cercò di ottenere per sé tutti quei benefici che derivavano, appunto, dal controllo feudale della gleba. In quest’impresa, però, non furono soli. I borghesi, infatti, erano disposti a sottoscrivere le finalità metafisiche dell’intera operazione ed erano disposti a collaborare affinché fosse possibile realizzarle. Erano certamente consapevoli che quando la nobiltà diceva potenza intendeva dire ricchezza e potere, e per questo si affrettarono a delimitarne l’influenza, appoggiando la formazione dei feudi e accettando qualsiasi sistema organizzativo i nobili volessero adottare per le terre occupate, ma intervenendo con decisione nella genesi e nello sviluppo di tutte quelle altre forme di ricchezza che, per ragioni ideologiche, non venivano considerate fonti di potere. I borghesi lasciarono ai loro potenti alleati tutto ciò che era indispensabile perché essi continuassero a considerarsi beneficiari dell’impresa, ma sfruttarono a fondo le possibilità offerte dai mezzi finanziari di cui disponevano, dato che avevano il controllo del sottosistema economico-monetario, divenuto internazionale grazie alla vasta rete dei mercati cittadini.
Il capitalismo nacque, di fatto, con la prima espansione europea verso la periferia e con il compromesso tra gli obiettivi e le convenzioni della classe feudale e di quella borghese. Questo modello si andrà facendo, di volta in volta, più articolato e complesso, ma non subirà variazioni di rilievo nella sua struttura di fondo. Le società feudo-borghesi lo perfezioneranno durante la fase di stanca dei secoli XIV e XV, nel corso dei quali esse stesse andranno progressivamente consolidandosi. Quando, con l’espansione oceanica del XV secolo, riprenderà il processo imperialistico europeo, questo schema riprenderà a funzionare come già aveva fatto quattro secoli prima, mantenendo inalterate le proprie caratteristiche fondamentali, nonostante la maggiore articolazione e complessità.
Il consolidamento del mondo feudo-borghese
La prima fase del ciclo di espansione dell’economia urbana va dal secolo XI alla fine del secolo XIV. È questo un periodo di grandi mutamenti economici e sociali. La borghesia vi realizza infatti una serie di esperimenti: esplora mercati, seleziona i prodotti, specializza i settori di scambio, crea vari tipi di organizzazione commerciale e finanziaria, alternando successi e fallimenti, riesce alla fine a raggiungere un equilibrio economico sufficientemente stabile. Nel corso di questi esperimenti i gruppi borghesi delle diverse città ebbero molti alti e bassi. Le fortune che si formavano, grandi ed effimere, erano incalzate dall’ascesa di nuclei sempre nuovi e perennemente in cerca di affermazione. Benché in questa fase di sperimentazione i vincitori di oggi si trasformassero piuttosto spesso nei vinti di domani, la classe borghese ne risultò complessivamente rafforzata. Si formarono così i patriziati urbani, cioè i gruppi che, avendo rapidamente accumulato ricchezze e potere, si misero alla testa della lotta che la nuova società era ormai pronta a condurre contro l’antico ordine politico e giuridico, per ottenere quel sistema di garanzie e di franchigie che era necessario per esercitare le nuove attività commerciali. Municipi, giurisdizioni, statuti e erogazioni furono gli obiettivi a cui si cercò di giungere, talvolta per mezzo di vere proprie rivoluzioni che, comunque andassero le cose, generavano una profonda crisi della gerarchia tradizionale, dato che dimostravano la forza e la lucidità dei richiedenti e, al contempo, la debolezza dei titolari del potere. In genere il patriziato riuscì ad ottenere quanto desiderava, e, offrendo lauti rimborsi in cambio delle desiderate prerogative, seppe farsi concedere, da signori prodighi quanto venali, tutto ciò che non fu possibile strappare loro con la forza. Mano a mano che concentrava nelle proprie mani la ricchezza e il potere, il patriziato riuscì a conquistare anche un adeguato status giuridico e ne fece uso per riorganizzare il nuovo mondo cittadino in modo da garantire in esso la propria posizione di preminenza.
A partire dagli inizi del secolo XIV cominciò a manifestarsi una fase di stagnazione che si accentuò a seguito della peste nera del 1348. Tutto si fece difficile, a cominciare dal reclutamento della manodopera artigiana. Vi furono carestie, epidemie e crisi economiche in tutta l’Europa e nel bacino del Mediterraneo. Incominciò allora a manifestarsi in ogni aspetto della vita una fase di riassestamento del nuovo modello sociale ed economico.
Persino il potere sovrano attraversò una profonda crisi. Perseguendo una centralizzazione del potere i monarchi avevano sfidato l’aristocrazia, facendo leva sul sostegno delle classi borghesi; la cosa si rivelò meno facile del previsto dato che gli interessi in campo provocarono interminabili conflitti, oscillando di continuo tra gli antichi e i nuovi valori; si scatenarono così contese dinastiche, guerre civili e congiure di palazzo. In tutto questo vi fu però un segno comune: la monarchia, cercando di adattarsi alla nuova società, ottenne il monopolio degli strumenti propri del potere. Sullo sfondo si agitava irrisolto un conflitto non evitabile tra borghesia e feudalità; tale opposizione si manifestò in modi diversi nelle varie fasi dello scontro. Vi furono sfide a viso aperto, che, come quella di Etienne Marcel e degli Stati Generali di Parigi del 1356, prefigurarono un modello di stato parlamentare moderno. Nonostante ciò, borghesia e feudalità cercarono, negli intervalli tra i vari momenti critici, di trovare un’intesa, soprattutto allo scopo di arginare la crescente mobilità sociale; alla fine del secolo XV questo processo si era praticamente concluso in quasi tutta l’Europa, nonostante vi fossero, da una parte e dall’altra, gruppi che non accettavano di sottostare ai patti. Nacque così la società feudo-borghese, destinata ad essere protagonista della fase di espansione transoceanica della civiltà europea del secolo XV e a restare motore del mondo moderno fino al secolo XVIII.
Il patriziato continuò ad ottenere l’appoggio dei signori feudali tutte le volte che le grandi imprese economiche implicavano un problema di ordine politico-territoriale. D’altro canto i signori cercarono di avvicinarsi ai nuclei borghesi, dato che questi sapevano riconoscere gli affari, intravvedere le opportunità, scegliere gli strumenti e mobilitare i capitali di cui disponevano. Gli affari concreti – a partire dalla ripartizione delle commende – facevano sfumare le differenze tra il ricco ed il nobile. A margine di questo processo si andavano realizzando le alleanze matrimoniali, mediante le quali alcuni borghesi entrarono nel mondo signorile e alcuni nobili in quello borghese. I lussi che i patrizi arricchiti si concedevano finirono per avvicinarli ancor più al tenore di vita dei signori di sangue, così come la perdita di prestigio economico dei nobili impoveriti finì per assimilare questi ultimi ai borghesi meno danarosi. Quanto ai gradini intermedi di questa scala articolata e complessa, essi finirono per dare origine ad una gamma piena di sfumature all’interno di una indifferenziata classe superiore, dalla quale rimanevano esclusi, per ragioni di prestigio, soltanto i grandi nobili delle corti.
Ai livelli inferiori della gerarchia sociale si formarono vasti e multiformi ceti medi e popolari, di città e di campagna, destinati a subire tutti i contraccolpi di quel compromesso che determinò il riassestamento degli equilibri sociali. Furono questi strati, decimati da pestilenze e carestie, a pagare le spese suntuarie ed a sopportare le conseguenze del rischio d’impresa; sostanzialmente esclusi dalla partecipazione politica, essi persero ogni diritto anche nei rari casi in cui riuscirono, per breve tempo, ad averne qualcuno. Questi gruppi si ribellavano, a volte, in modo violento, dando origine a grandi rivolte contadine o a vere e proprie sommosse urbane. Nonostante questo, la loro sconfitta era segnata e, nel migliore dei casi, esse furono strumento di ascesa per qualche fortunato avventuriero. L’importanza delle classi medie e popolari, caratteristica dell’Europa dei secoli XIV e XV, andò estendendosi anche agli strati medio-inferiori dello stesso nucleo feudo-borghese.
Parallelamente andarono stabilizzandosi anche i rapporti economici.
I primi passi del capitalismo sfociarono in un’organica politica mercantilista, il cui patto fu, ancora una volta, promosso e concepito dalla borghesia che riteneva impossibile combattere la struttura senza modificarla dall’interno. In altre parole, l’allargamento degli orizzonti economici e il conseguente incremento dei profitti comportava rischi e problemi che non potevano essere affrontati senza la collaborazione del potere politico. Quando i ceti borghesi delle città vollero estendere la propria influenza costituendo un mercato regionale, si resero conto che per farlo avevano bisogno dell’appoggio di un signore feudale che lusso disposto, se necessario, ad affrontare una guerra. Anche quando cominciarono a pensare alla possibilità di creare mercati ancor più vasti, trovarono sulla strada la benevola cooperazione di un monarca o di un granduca che era felice di fornire protezione ad un’attività così vantaggiosa. Le borghesie municipali erano ormai fuori gioco; per avere accesso al mercato nazionale era infatti necessario godere del favore del re, essere, cioè, borghesi di corte.
Si trattava in sostanza di uno scambio di favori, dato che i Bardi nel XIV secolo, come i Fugger nel XVI, erano anche i principali finanziatori del potere reale.
La seconda fase dell’espansione Europea verso la periferia
Mano a mano che si completava l’assestamento della società feudo-borghese si cercò di sfruttare completamente tutte le possibilità offerte dall’universo economico costituitosi dopo il completamento della prima fase di espansione verso la periferia. Tuttavia queste possibilità non erano né infinite, né inesauribili. Dopo l’esplosione demografica del secolo XI, la popolazione smise di aumentare e, in seguito, a partire dalla metà del secolo incominciò addirittura a decrescere rapidamente. Le società si cristallizzarono e i mercati ne risultarono maggiormente delimitati. La maggior parte delle crisi politiche e sociali assunsero una spaventosa intensità e gli itinerari che i mercanti percorrevano in ritirata tornarono a farsi insicuri e non praticabili. Ogni circuito locale incrementò la propria attività, ma le grandi arterie del traffico patirono le conseguenze della contrapposizione tra le zone di influenza che si andavano laboriosamente determinando nel corso di violenti conflitti. Riuscirà finalmente ad organizzarsi lo stato borgognone? Riuscirà il regno di Francia a dominare la costa atlantica? Riuscirà l’Inghilterra a conservare la propria influenza nelle Fiandre? Arriveranno ad unificarsi le nazioni del Baltico? Ce la farà l’impero a ristabilire la propria unità interna? Arricchiranno i regni d’Ungheria, di Boemia e di Polonia? Riuscirà Barcellona a diventare un principato indipendente? La Castiglia e l’Aragona uniranno le proprie forze in vista di mete comuni? L’intera mappa politica dell’Europa era coperta di punti interrogativi, riguardanti, tra l’altro, i grandi circuiti economici, la possibilità di raggiungere nuove aree di influenza e la necessità di controllare determinate rotte. L’economia europea entrò in una fase di sclerotizzazione.
Le prospettive più promettenti erano quelle della rete commerciale che gestiva il traffico dei prodotti orientali. Già prima della prima crociata, i veneziani avevano scoperto che era possibile trovare spazio all’interno del sistema commerciale dell’Oriente e avevano, di fatto, aperto la via per la prima crociata. Dopo che i crociati ebbero ottenuto il dominio su alcuni territori e il controllo su alcuni porti, questo commercio si sviluppò rapidamente, movimentando i prodotti naturali, che gli occidentali consideravano esotici, e coinvolgendo nel traffico anche i lavorati di un sofisticato artigianato.
Pian piano vennero formandosi due immagini distinte. L’Oriente era soprattutto sinonimo di lusso, in conformità con una lunga tradizione che risaliva all’epoca romana; ciononostante ci si rese conto che dall’Oriente non provenivano soltanto manufatti di una cultura diversa e raffinata, ma anche alcuni prodotti naturali sconosciuti e non coltivabili in Europa, come lo zucchero e le spezie: dall’indifferenziata e suggestiva immagine del inondo orientale incominciò ad emergere quella del mondo tropicale.
Nel corso del XIII secolo questo genere di commercio aveva talmente prosperato che gli effetti della sua crescita erano ormai avvertibili in tutta l’Europa. Si trattava in realtà della più importante forma di commercio internazionale e bisognava quindi favorirne lo sviluppo. I Veneziani, come faranno in seguito i Castigliani, cercarono di stabilire un contatto con lo sconosciuto mondo dei Mongoli e utilizzarono a tal fine tutte le notizie che erano giunte in Occidente sui mercati dell’hinterland musulmano, nella speranza di trovare tra i signori di quelle terre, dove si producevano beni molto richiesti, come per esempio la seta, nuovi possibili alleati per la cristianità occidentale. Marco Polo e i suoi fratelli portarono a termine questa impresa inoltrandosi nel cuore dell’Asia. I risultati non riuscirono però a soddisfare le aspettative. Gli squilibri provocati dalla rottura di queste barriere all’interno dell’Asia determinarono la crisi del mondo dei Selgiucidi e portarono alla ribalta della storia il crescente potere degli Ottomani, che nella prima metà del secolo XIV avevano assunto stabilmente il controllo dell’Anatolia ed erano ormai riusciti a mettere piede a Gallipoli, sulla costa europea dello stretto del Dardanelli.
Questo nuovo potere sconvolse l’intero sistema commerciale del Mediterraneo. Gli Ottomani sconfissero nel 1360 l’impero bizantino ad Adrianopoli e vi stabilirono la capitale del loro regno in attesa che cadesse Costantinopoli. Con la vittoria di Kòssovo essi si assicurarono nel 1389 il controllo di quasi tutta l’area balcanica e nel 1396 sconfissero a Nicopoli i crociati del re Sigismondo di Ungheria, appoggiati dal meglio della cavalleria francese. Solo la minaccia di Tamerlano, che premeva alle loro spalle e li sconfisse nel 1402 ad Ankara, riuscì a costringerli a rallentare la loro avanzata verso l’Occidente. Proprio in quel periodo il Portogallo, dal lembo più occidentale dell’Europa, ebbe l’idea di cercare un proprio mondo tropicale ed un proprio Oriente esplorando le isole dell’Atlantico e le coste dell’Africa.
A dire il vero tutto ebbe inizio dalle profonde trasformazioni sociali che attraversarono il Portogallo dopo il 1380, anno in cui giunse al potere la dinastia Avis, fautrice della modernizzazione e appoggiata da un movimento borghese. Un paese che quando la flotta castigliana aveva assediato Lisbona, nel 1372, non aveva potuto far fronte alla situazione per mancanza di mezzi navali, si trasformò in poco tempo in una grande potenza marittima, soprattutto grazie ai sagaci progetti di uno dei figli del fondatore della dinastia, il principe don Enrico, passato alla storia come il Navigatore; egli seppe indirizzare una delle principali tendenze di quella nuova società che si era rafforzata con il cambiamento della dinastia. Nel suo castello di Sagres in Algarvia, il principe raccolse ed organizzò la scarsa informazione esistente riguardo alla navigazione occidentale e dopo aver fatto il punto sulla cartografia incominciò ad istruire gli equipaggi, a sistematizzare le cognizioni nautiche ed a migliorare l’industria navale. Una fortunata campagna contro Ceuta lo spinse nel 1415 a dedicarsi a questa impresa, dato che, oltre ad aver liberato dalla minaccia dei pirati musulmani la rotta commerciale che collegava il Mediterraneo all’Atlantico, egli era anche venuto a conoscenza delle terre tropicali della Guinea.
Qualunque fosse il luogo dove si trovavano, le terre dei tropici sembravano offrire incalcolabili vantaggi. Impadronitisi, intorno al 1420, delle isole dell’arcipelago di Madera, i Portoghesi, già a metà secolo, disponevano di quattro insediamenti e avevano installato il primo impianto per la raffinazione della canna. Forti investimenti di capitale straniero, in prevalenza ebreo, fiammingo e forse genovese, accelerarono lo sviluppo delle piantagioni e degli zuccherifici. Nel 1456 lo zucchero dell’arcipelago di Madera fece la sua comparsa sul mercato di Bristol e non molto tempo dopo cominciò ad essere scambiato anche a Costantinopoli, a Venezia, a Genova e, soprattutto, ad Anversa, che sarebbe diventata il principale emporio della nuova ricchezza portoghese. Le piantagioni di canna e l’industria della raffinazione si estesero in seguito alle isole Azzorre (che il governo portoghese diede in appalto a grandi capitalisti fiamminghi), a quelle del Capo Verde e, più tardi, al Brasile. Nel frattempo un intenso commercio negriero aveva incominciato a svilupparsi lungo le coste dell’Africa a partire dal 1441 e, tre anni dopo, nella città di Lagos si era già stabilita, sotto il patrocinio del principe don Enrico, una compagnia commerciale specializzata in questo commercio. Non molto dopo veniva fondata a Lisbona e posta sotto la giurisdizione del re la Casa dos Escravos (compagnia monopolistica del commercio negriero); in quegli stessi anni la Castiglia avviava lo stesso genere di traffico nei suoi possedimenti delle isole Canarie.
Portoghesi continuarono ad avanzare lungo la costa africana. Nel 1434 raggiunsero il Capo Bojador e nel 1441 si spinsero fino a Capo Bianco, a sud del quale costruirono, nel 1448, la loro prima fortezza nella Baia di Arguim. In questa zona ebbe inizio la tratta degli schiavi che tanta importanza avrebbe avuto nello sviluppo dell’economia di piantagione. Nel frattempo, cioè nel 1445, i Portoghesi avevano raggiunto Capo Verde, da dove sarebbero partiti per la colonizzazione delle isole omonime. La morte del principe don Enrico determinò un’interruzione delle esplorazioni che, però, ripresero poco tempo dopo estendendosi in direzione della zona equatoriale e spingendosi, nel 1488, con Bartolomeo Diaz, fino all’estremità meridionale dell’Africa. Una vivida immagine del mondo tropicale, quella stessa che Camões avrebbe successivamente reso immortale nei versi di Os Lusiadas, incominciò ad ossessionare la mente dei Portoghesi che, ben presto, finirono per associare il tropicalismo, più di quanto fino ad allora non avessero fatto, con la tratta negriera. Si formarono in questo modo grandi e nuove fortune, l’agricoltura portoghese ricevette nuovo impulso e parve possibile, grazie alla manodopera servile, intraprendere la colonizzazione su vasta scala di alcune regioni.
Castigliani avevano in Atlantico una discreta tradizione di marineria, dato che la loro flotta, tutt’altro che disprezzabile nel panorama politico e militare dell’Europa, operava in una vasta zona, muovendo, generalmente, dai porti della Galizia e delle Asturie. Nel periodo delle grandi scoperte portoghesi, gli Spagnoli erano riusciti a raggiungere le Canarie, la cui conquista culminò nel 1490 con l’occupazione di Palma e nel 1492 con quella di Tenerife, anche se erano già molti anni che la Spagna aveva rinunciato a competere con il Portogallo nell’area africana, in base agli accordi sottoscritti in Alcaçovas nel 1479. Per questo la Spagna cominciò ad orientarsi verso altri progetti e finì per appoggiare quello colombiano, che culminò nel 1492 con la scoperta del continente americano.
Nei dieci anni che seguirono, gli Spagnoli continuarono freneticamente ad esplorare le coste caraibiche. Contemporaneamente i Portoghesi riuscirono a doppiare il Capo di Buona Speranza e ad approdare a Calicut, in India, nel 1498. Poco tempo dopo un’altra flotta portoghese, comandata da Pedro Alvarez Cabrai, partito sulle orme di Vasco de Gama, toccò, nell’aprile del 1500, le coste del Brasile. Le linee generali erano tracciate. Un enorme sforzo economico e militare avrebbe consentito di costruire, nel giro di pochi decenni, i due grandi imperi coloniali della Spagna e del Portogallo.
Le società che crearono gli imperi
E più importante avere una visione corretta del genere di società che si era formato in precedenza in ciascuno dei paesi colonizzatori che non analizzare le congiunture politiche ed economiche nelle quali furono creati gli imperi. Sia il Portogallo che i regni di Castiglia e di Aragona avevano infatti attraversato profonde crisi in coincidenza con le prime avvisaglie dell’impresa transoceanica il cui impeto fu, per molti aspetti, una diretta conseguenza di quelle difficoltà.
Nella seconda metà del secolo XIV queste crisi divennero esplosive e misero in moto processi che trovarono il loro sbocco naturale in un atteggiamento espansionistico che non poteva accontentarsi di percorrere strade già battute e doveva quindi avventurarsi lungo le incognite direttrici che si offrivano loro nell’oltremare. Nel corso di questo periodo i gruppi sociali, le strutture economiche e i sistemi politici ed ideologici incominciarono ad acquistare quei tratti che una volta maturi sarebbero diventati peculiari del processo espansionistico.
La dinastia borgognona del Portogallo venne travolta dalle violente agitazioni sociali del triennio 1383-1385. Questa tipica rivoluzione borghese approfittò della crisi della società tradizionale per aprire una fase nuova sia nella vita dei gruppi più antichi, sia in quella dei ceti emergenti. Da questo scossone nacque, con Giovanni I, la dinastia Avis, la cui politica non si sarebbe più staccata dal disegno originario che aveva portato la famiglia al potere in quanto interprete della volontà di trasformazione. Si trattò dunque di una dinastia che favorì la modernizzazione e che, pur essendo disposta a soddisfare le aspirazioni della nobiltà tradizionale riuscì però a canalizzare tutte le sue energie entro i limiti dello schema feudoborghese elaborato dalle nuove classi.
In Portogallo non mancarono, nonostante il paese fosse circondato a nord ed a est dalla Castiglia, coloro i quali proposero di tentare un espansione in questa direzione, facendo leva sui risentimenti di una contesa dinastica ormai endemica. Dopo faticosi ed infruttuosi tentativi, il trattato di Alcaçovas ratificò, nel 1479, l’impossibilità di questo progetto. Altri settori della società lusitana, maggiormente legati alla nuova mentalità rivoluzionaria del 1383 e alla dinastia Avis, preferirono invece sfruttare le possibilità offerte dalla navigazione oceanica. La stretta alleanza con l’Inghilterra, ratificata a partire dal 1373, trovò il suo sviluppo nel rafforzamento delle relazioni tra i porti lusitani e le città delle Fiandre. Questa dinamica commerciale poteva però soddisfare soltanto la parte meno ambiziosa dei settori mercantili. L’Atlantico offriva ben altre prospettive e soprattutto, le offriva, oltre che ai settori mercantili, anche ad una parte della nobiltà che, pur essendo ormai impoverita o sul punto di impoverirsi, continuava a nutrire ambizioni legate, specialmente per la piccola nobiltà degli hidalgos, alla politica modernizzatrice della dinastia Avis. Queste classi costituirono l’ossatura dell’alleanza feudo-borghese che decise le esplorazioni dell’Atlantico, delle isole occidentali e, soprattutto, del continente africano.
Don Duarte, secondo sovrano della casa di Avis, si rese conto che esisteva una nuova società. Il monarca portoghese oppose alla tradizionale tripartizione della società che dominava la trattatistica spagnola di quell’epoca e divideva la popolazione in uomini di preghiera, uomini d’arme e uomini di fatica, una assai più articolata immagine della società, come risulta dalla sua opera El Leal Consejero, nella quale si parla, sì, di uomini di preghiera, uomini d’arme e coltivatori, ma anche di uomini di mare e di funzionari e impiegati della pubblica amministrazione. La cosa più importante consiste tuttavia nel fatto che ciascuna di queste classi aveva assunto una nuova ed originale fisionomia. Alla vecchia nobiltà impoverita e quasi estinta ne era subentrata una nuova, avida di terre, onori e ricchezze e capace di mettere in difficoltà la corona, costringendola a concedere donazioni e licenze di conquista. Tipico esponente di questa nuova mentalità fu il connestabile di Giovanni I, Nuno Alvares Pereira. A margine di questo gruppo c’era una gran massa di fidalgos mancebos (cadetti della piccola nobiltà) che il maggiorasco privava di ogni diritto di proprietà. Costoro per non compromettere la propria condizione di nobili erano costretti a sdegnare alcuni generi di attività e di conseguenza premevano sulla corona perché questa desse loro la possibilità di conquistare nuove terre.
D’altro canto il Portogallo stava attraversando una profonda crisi rurale. Un consistente esodo contadino lasciava incolte le terre e determinava un forte incremento demografico delle aree urbane, dove, oltre ad una prospera borghesia, si formavano anche vaste fasce di ceti medio-bassi che vivevano in condizioni pressocché miserabili. Nella prima metà del XV secolo vennero delineandosi due progetti politici, sostenuti rispettivamente da due dei figli di Giovanni I; il primo orientamento fu quello del principe Enrico il Navigatore, che appoggiò l’espansione del Portogallo verso l’oltremare, dissanguando in questo modo il paese, almeno così dicevano i suoi avversari. Il secondo progetto fu patrocinato dal principe don Pedro che, divenuto reggente per il nipote Alfonso V, propugnò un incremento dell’agricoltura, della pesca, del commercio marittimo, della tratta negriera e del mercato dei metalli preziosi e delle spezie. Il primo orientamento piacque ai nobili, il secondo fu preferito dalla borghesia, ma, in pratica, le due politiche risultarono coincidenti, mano a mano che gli strati inferiori della nobiltà vennero attratti dalle compagnie mercantili nazionali ed internazionali che finanziavano la conquista e la colonizzazione delle isole e delle coste dell’Africa. Le imprese di Ceuta e del Marocco (conquistato da Alfonso V) non riuscirono a far coincidere gli interessi paralleli delle due classi, ma la sintesi che era fino ad allora mancata divenne possibile nelle isole dell’Atlantico dove si formarono le piantagioni e i primi zuccherifici; in Africa prosperò invece il commercio degli schiavi e nel vasto impero orientale fondato da Vasco de Gama, Almeida e Albuquerque furono avviati traffici tanto profittevoli quanto effimeri; infatti fu soprattutto dopo il 1530 che, con lo sfruttamento sistematico del Brasile, venne a formarsi un’immensa ricchezza concentrata nelle mani dei senhores dos engenhos (latifondisti industriali della canna da zucchero), che erano, in gran parte, nobili trasformatisi in impresari grazie ai finanziamenti dei banchi fiamminghi ed ebrei, attraverso i quali il prodotto veniva commercializzato.
Ben diverso fu il caso della Castiglia, stato proiettato sull’Atlantico fino alla metà del secolo XIII e, a partire da allora, convertitosi in potenza anche mediterranea. Una borghesia relativamente forte aveva cominciato a svilupparsi a partire dal secolo XI in numerose città che, a loro volta, avevano goduto, direttamente o indirettamente, dei benefici connessi con la rinascita commerciale, grazie alla quale cominciò a svilupparsi un intenso traffico marittimo e interregionale. Le antiche aristocrazie erano però assai più forti di quanto non fossero in Portogallo, dato che il loro prestigio non aumentava soltanto quando la corona ne aveva bisogno per difendere le frontiere dagli assalti musulmani, ma anche quando le crisi interne, i conflitti tra le minoranze e le guerre civili facevano sì che la casta militare fosse per lunghi periodi padrona della situazione. Le borghesie non poterono scalzarne le posizioni neppure quando riuscirono a raggiungere un’intesa con la monarchia; nonostante si rafforzassero di continuo, i ceti borghesi furono danneggiati nella loro struttura interna sia dal potere regio, che ne temeva l’ascesa, sia dalle tensioni interne, dato che molti borghesi preferirono investire in terreni e godere degli onori della nobiltà rustica e della hidalguía piuttosto che continuare a rischiare i propri capitali nelle avventurose imprese mercantili.
Nonostante ciò l’intesa raggiunta con la monarchia finì per stabilizzare il potere della nuova classe, anche se non fu questo a decidere le sorti dello scontro con le antiche aristocrazie. Più grave fu il fatto che, pur disponendo di potere, le borghesie non riuscirono ad elaborare un progetto capace di coinvolgere l’aristocrazia né sul fronte del Cantabrico, né su quello del Mediterraneo. In entrambe le zone la borghesia castigliana era arrivata tardi e si era limitata a svolgere operazioni di secondo piano, molto diverse da quelle che la borghesia catalana seppe offrire alla nobiltà aragonese quando, nella prima metà del secolo XII si giunse all’unificazione dei due stati e alla creazione di quella società feudo-borghese che ancora doveva formarsi in Castiglia.
In ogni caso, uno sviluppo in tale direzione continuava ad essere possibile fintanto che si fosse mantenuto un certo equilibrio tra l’aristocrazia e il fronte formato dalla corona e dalla borghesia. Tale progetto venne definitivamente compromesso quando, poco prima che in Portogallo giungesse al trono la dinastia Avis, in Castiglia si produsse un cambiamento nella direzione opposta: Pietro I venne ucciso nel 1368 da Enrico Trastamara, alleato dei Francesi e fratello naturale del sovrano. Pietro I aveva portato alle estreme conseguenze la politica antinobiliare dei suoi predecessori, facendo leva su tutti quei settori che avevano i suoi stessi nemici. La dinastia Trastamara favorì invece, gli interessi dell’aristocrazia e avviò una vera e propria restaurazione feudale, indebolendo la hacienda real (patrimonio regio) a tutto vantaggio dei signori territoriali, ai quali vennero concesse nuove ed importanti donazioni, trasferendo loro anche numerosi centri cittadini che appartenevano al demanio reale.
Fu una svolta grave, poiché da allora risultò ancor più profonda la lacerazione economica di un paese (la Castiglia) costretto a vivere contemporaneamente la crisi di due diversi sistemi di produzione. I Trastamara mancarono di intuito economico e blandirono gli anacronismi e le miopie di una classe nobiliare che si rifiutava di accettare il mondo mercantilista e che non era disposta a concedere spazio a chi meglio di lei avrebbe saputo interpretare le esigenze dei nuovi tempi, cioè a quella borghesia che, come aveva dimostrato in occasione delle Cortes di Madrigal del 1438, aveva idee ben altrimenti chiare sulla situazione e sui meccanismi che incominciavano a prevalere. Cedere il passo avrebbe significato rinunciare ad una parte del potere, cosa che l’aristocrazia del periodo Trastamara non era assolutamente disposta a fare. I conflitti interni alla nobiltà, i problemi dinastici e le guerre, civili e non, che nascevano da questa situazione si sovrapposero alla latente ossessione determinata dalla presenza moresca a Granada e impedirono, di fatto, qualsiasi apertura, con la sola modesta eccezione della conquista delle isole Canarie.
I regni del levante si erano nel frattempo spinti assai oltre, specie dopo l’unificazione territoriale tra la Catalogna e l’Aragona, realizzata, sotto Ramón Berenguer IV, nel 1137. La comunione di interessi caratteristica del blocco feudo-borghese rese agevole la penetrazione della borghesia catalana nei mercati del Mediterraneo e portò alla realizzazione di importanti imprese territoriali e mercantili come la conquista delle Baleari, realizzata tra il 1229 e il 1235, quella di Valenza, 1238, e l’occupazione di Elche e di Alicante, 1266; in tutte queste regioni divennero disponibili nuovi domini feudali che restarono anche inclusi nell’area, sempre più ampia, degli interessi commerciali di Barcellona. Questa politica non conobbe soste. Alla fine del secolo XIII Pietro III prese il potere nel regno di Sicilia e poco tempo dopo incominciarono nel Mediterraneo orientale le scorrerie degli almogávares (truppe irregolari catalano-aragonesi impegnate in azioni di disturbo durante la Reconquista) che portarono in breve alla costituzione di alcuni stati che Pietro IV d’Aragona si affrettò a riconoscere. Mentre ancora si discuteva sul problema dell’occupazione della Corsica e della Sardegna da parte del sovrano, Alfonso V conquistò, nel 1432, il regno di Napoli. Una rete mercantile sempre più fitta si sviluppò nel Mediterraneo occidentale. Fu questa l’epoca d’oro della borghesia barcellonese, dato che proprio la città catalana era la principale beneficiaria dell’incremento dei traffici e dei commerci che le gravitavano attorno. La borghesia della città catalana, godendo di un crescente potere economico e di un sempre maggiore prestigio sui mercati nazionali ed internazionali, cercò di aumentare l’autonomia di cui già godeva all’interno del sistema politico della Corona d’Aragona e, quando Alfonso V morì, nel 1458, cominciò a pensare all’indipendenza del principato di Catalogna. A rigori, non si trattava che di sciogliere l’alleanza stabilita tre secoli prima da Ramón Berenguer IV tra le città della costa e lo stato continentale che gravitava su di esse; si trattava in altri termini di distruggere il patto feudo-borghese che costituiva la base sociale dell’influenza politico-economica della corona aragonese. Tutta la Catalogna ed in particolare Barcellona guidò la rivoluzione separatista del 1462, ma la società feudo-borghese, mercantile e territoriale insieme, era ormai troppo legata alla struttura complessiva del regno e, perciò, si oppose alla secessione. Dopo la definitiva sconfitta dell’insurrezione, nel 1472, si ricostituì l’alleanza o meglio fu chiaro che, almeno nel regno di Aragona, il patto feudo-borghese non poteva essere spezzato; con la campagna per la riunificazione del regno di Napoli, intrapresa da Ferdinando il Cattolico, questo sistema politico ed economico si ritrovò nuovamente consolidato sul finire del secolo XV.
L’unificazione tra Castiglia ed Aragona, ratificata nel 1469 dal matrimonio tra Isabella e Ferdinando, sembrò inaugurare una nuova fase. Isabella e Ferdinando, memori delle recenti guerre civili che avevano insanguinato entrambi i regni, cercarono e riuscirono a contenere le tendenze particolaristiche dell’aristocrazia ed a riordinare giuridicamente la posizione dei ceti borghesi, ai quali veniva concessa, inoltre, la protezione necessaria per una nuova fase di sviluppo. Con un ultimo e decisivo sforzo venne intrapresa la riconquista di Granada che si concluse con la caduta dell’ultimo regno musulmano della penisola e con la conseguente incorporazione del suo territorio in quello castigliano. Proprio nel campo militare di Santa Fé, da dove era stata diretta la fortunata guerra, vennero firmate le capitolazioni in base alle quali Cristoforo Colombo veniva autorizzato ad iniziare la sua traversata dell’Atlantico. Poco tempo dopo, per espresso desiderio della regina Isabella, il Cardinal Cisneros avviò con l’occupazione di Orano le operazioni militari per la conquista del Marocco.
L’aristocrazia che era stata ricondotta brutalmente all’ordine in Castiglia e che, sconfitta, si era presentata a corte per impetrare i favori dei sovrani non era più quella che aveva in precedenza sostenuto la politica feudale dei Trastamara, resistendo, prima, al tentativo centralizzatore di Alvaro de Luna e, poi, nel , primo periodo del loro regno, a quello dei re cattolici. Si trattava, a ben guardare, di un’aristocrazia politicamente sconfitta che, però, conservava buona parte dell’antico potere sociale ed economico. Le restava soprattutto il prestigio che le derivava dall’essere lo strato sociale più alto; tale prestigio non era infatti stato scalzato dall’ascesa delle classi mercantili e non aveva subito in alcun modo lo scacco determinato dall’attrazione delle nuove forme di ricchezza. Politicamente battuta, l’aristocrazia mantenne, nonostante ciò, la propria posizione di dominio, rafforzandola quando la monarchia incominciò a ricompattare le forze che la sostenevano reprimendo le aspirazioni borghesi, tra l’altro fortemente danneggiate dall’espulsione degli Ebrei e dalla distruzione dell’intero sistema che li collegava alla rete mercantile e finanziaria dell’Europa.
Oltre a ciò la borghesia castigliana dovette anche accettare la concorrenza dei rivali tedeschi e fiamminghi, protetti dai re Cattolici in virtù dei loro legami con la casa d’Asburgo. Era ormai certo che questa classe non era in grado di sollevare la testa ed intaccare le posizioni dell’aristocrazia. L’onnipresenza di quest’ultima aveva infatti spinto verso le campagne ampi settori della società che, in tempi diversi da quelli della Reconquista, si sarebbero forse impegnati nel rafforzamento delle attività mercantili e industriali; si trattava soprattutto di quei nobili che nelle città e nelle campagne si erano fatti carico, da gran tempo, del governo municipale. Oltre a questo, l’aristocrazia riversava il proprio prestigio fino ai più infimi livelli della società di sangue, coinvolgendo in primo luogo gli hidalgos e, in secondo luogo tutti coloro che volevano diventarlo e, talvolta, facevano finta di esserlo. Furono proprio costoro a giudicare senza uscita la situazione economica e sociale della Spagna. Dopo la conquista di Granada, preda appetita dalle famiglie della grande nobiltà, che la corona blandiva alimentando con enormi ricchezze la loro insaziabile voracità, non vi furono quote di bottino abbastanza ricche da soddisfare le aspirazioni della piccola nobiltà di Castiglia, León, Andalusia ed Estremadura. Non è improbabile che la regina Isabella avesse in mente proprio questi hidalgos quando avviò il programma di espansione della Spagna in direzione del Marocco, dando istruzioni in tal senso al Cardinal Cisneros; forse, però, pensò anche alle classi popolari che, in campagna come in città, si dibattevano vanamente entro una struttura economica rigida e priva di orizzonti.
In questa stessa logica si inserisce la copertura finanziaria accordata al progetto di espansione transoceanica. I successi economici e sociali ottenuti in questa direzione dal Portogallo davano da pensare alla nuova monarchia spagnola che però doveva anche preoccuparsi dei problemi socio-economici che restavano aperti, soprattutto in Castiglia, dopo il completamento della riconquista. In un momento di generale difficoltà del sistema economico, sia Sull’Atlantico che sul Mediterraneo, le classi non privilegiate e quelle che erano tali solo di nome non avevano alcuna possibilità di entrare in possesso della terra, monopolizzata dalle grandi famiglie. L’industria e il commercio non promettevano molto ai ceti borghesi della Spagna, costretti a scegliere tra un mondo mediterraneo sempre più chiuso ed una scommessa atlantica le cui regole ferree erano ormai fissate da diversi secoli e definivano un equilibrio ogni giorno più dinamico ma sempre meno favorevole all’accesso di nuovi competitori. Ancora una volta l’espansione in direzione della periferia sembrava essere l’unica soluzione e la Spagna si mosse, come avrebbe fatto anche il Portogallo in questa direzione obbligata in un momento decisivo del suo sviluppo.
2.
Il ciclo delle fondazioni
Una volta che gli Spagnoli e, dopo di loro, i Portoghesi ebbero raggiunto le coste americane e ne ebbero esplorato il litorale, potè aver inizio il processo di occupazione del territorio. Questo processo si compie attraverso la fondazione di numerose città nel corso del secolo XVI ed ha inizio nel 1493 con l’insediamento denominato Isabela nell’isola di Hispaniola; le fondazioni furono dunque atti politici che vennero immediatamente formalizzati; esse furono caratterizzate da un comune schema istituzionale e trovarono le proprie basi giuridiche in una stessa legislazione che faceva riferimento ad usanze molto antiche e a delibere empiriche relative a situazioni simili se non addirittura identiche. In principio, forse, tutte le fenomenologie urbane si assomigliano tra loro almeno quanto i testi degli atti legali di fondazione e le prime decisioni istituzionali relative alla suddivisione dei terreni ed alla creazione dei capitoli (non solo ecclesiastici). Uno dei più importanti aspetti dello sviluppo urbano dell’America latina è costituito dalla progressiva differenziazione di città e agglomerati urbani concepiti ed iniziati nello stesso identico modo. Questa iniziale somiglianza è un fatto fondamentale per capire i conflitti che si svilupparono tra le condizioni imposte nella prima fase e le necessità e le possibilità che fecero la loro comparsa solo in seguito, caratterizzando in modo specifico ogni luogo e ogni circostanza.
Non vi è dubbio che il territorio e gli indigeni imposero all’occupazione e, successivamente, alla colonizzazione alcuni tratti peculiari. Le distanze, gli ostacoli geografici, la stupefacente novità della fauna e della flora, le particolarità del clima e soprattutto gli inattesi caratteri delle culture aborigene sorpresero i conquistadores e li costrinsero ad una condotta di un certo tipo: i due mondi implicati nel processo contribuirono, insomma, a delinearne l’originale fisionomia.
Senza dubbio, la maggiore sorpresa fu, per i conquistadores, la scoperta del mondo tropicale. Come già l’Asia e l’Africa, anche l’America non aveva questa caratteristica in tutte le zone. I conquistadores erano, però ossessionati dalla natura dei tropici che costituivano un mondo economico complementare a quello dell’Europa temperata e producevano frutti che per lungo tempo erano giunti fino al Mediterraneo; per questo quando vennero a contatto con le zone tropicali dell’Africa, dell’America e dell’Asia, identificarono il mondo coloniale con il tropicalismo. In questo modo l’antica immagine dell’Oriente si trasformò in quella di un mondo totalmente tropicalizzato di cui gli europei incominciarono a conoscere una natura sorprendente e umida, imparando contemporaneamente a rapportarsi con un mondo la cui scala dimensionale era completamente diversa. L’enormità degli ostacoli geografici, dei fiumi, delle montagne, del laghi e delle selve, nonché la necessità di affrontare distanze smisurate per raggiungere i propri obiettivi costrinsero l’europeo a modificare il proprio punto di vista ed i propri meccanismi di reazione, ed è forse per questo che l’europeo si trasformò in coloniale, diventando un uomo nuovo che portava alle estreme conseguenze una parte di quegli atteggiamenti che avevano cominciato ad apparire, ai tempi delle crociate, in coloro che le combatterono. Il mondo europeo cominciò a sembrare piccolo e monotono a molti di loro.
Il processo fu però caratterizzato anche da altri aspetti. Coloro che accettarono la missione di occupare il territorio e di costituire su di esso una rete di città che potesse servire da base logistica non ebbero, per molto tempo, una chiara percezione degli obiettivi che stavano perseguendo. La possibilità di appropriarsi di cose che si venivano a trovare a portata di mano, come il legno brasiliano e l’oro, fu all’origine di un atteggiamento molto diverso da quello che i colonizzatori furono costretti ad adottare quando si resero conto che la vera ricchezza richiedeva lavoro e organizzazione ed era legata alle piantagioni e alle raffinerie della canna da zucchero, all’allevamento del bestiame e allo sfruttamento minerario. Per molto tempo quel primo rapace atteggiamento parve il più adeguato a far fronte alle esigenze dell’avventuriero, che arrivava in America per diventare ricco e tornare. Costò fatica convertire questa visione del mondo in quella dell’imprenditore che, se voleva tornare ricco in Europa, doveva produrre ricchezza in America. Questo sforzo venne però prontamente compiuto, anche se i due atteggiamenti rimasero a lungo inestricabilmente sovrapposti nella coscienza dei colonialisti che cominciavano ormai a non sapere se dovevano considerarsi europei oppure americani.
L’elemento che più contribuì a rafforzare i legami di questo nuovo tipo umano con la sua vecchia identità di europeo fu, molto probabilmente, la presenza degli indigeni e delle loro culture, del tutto estranee alla visione del mondo dei nuovi venuti. Il dominio instaurato sulle popolazioni aborigene aveva molte sfumature ed era quindi necessario scegliere una linea di condotta: da un lato era possibile sottomettere quelle popolazioni e utilizzarle come manodopera servile nella produzione di ricchezza, dall’altro si sentiva il dovere di proteggerle ed evangelizzarle. Molto spesso si finì per cercare di fare entrambe le cose, combinandole tra loro e giustificandole con argomenti che finirono per essere considerati validi, anche perché, in definitiva, nessun europeo mise mai in dubbio la propria posizione di conquistatore e di conseguenza non rinunciò a tutti quei diritti che gli derivavano dalla vittoria militare che, in questo caso, era anche una vittoria sugli infedeli ed era perciò simile a quelle ottenute in precedenza contro i musulmani. La città fu uno spazio europeo posto nel cuore di un mondo popolato da altre genti e da culture diverse.
Per questo si formò nei conquistatori la convinzione che la lotta sarebbe stata senza quartiere. Il gruppo che si stabiliva in un territorio con l’intenzione di prenderne possesso aveva raggiunto la zona di insediamento attraversando terre sconosciute e rompendo ogni contatto con la retroguardia. Era uso comune bruciare le navi. A queste condizioni l’unica strategia possibile diventava quella di lottare disperatamente fino alla fine. Questo spiega il genere di potere che si formò, con la vittoria, insieme alla struttura urbana corrispondente: la città fortificata.
La presa di possesso del territorio fu totale e giustificata da un’infinità di argomenti giuridici e teologici, ma il conquistador si fece una propria idea della legittimità del suo potere e lo considerò indiscutibile perché fondato su un atto di volontà concepito, in fondo, come sacro. Egli aveva assunto il controllo del territorio concreto sul quale era riuscito a mettere piede ed a creare il primo nucleo di insediamento; oltre a questo, però, aveva anche instaurato un dominio intellettuale su tutta quella parte di territorio che ancora non si conosceva, ma che si era già incominciato a suddividere ancor prima di conoscerlo, senza tener conto degli errori e delle approssimazioni di centinaia di leghe che potevano essersi determinati nelle assegnazioni. In base a questo meccanismo vi furono giurisdizioni fissate di diritto ancor prima di essere possibili di fatto. L’atto di fondazione fu sempre, contemporaneamente, formale e reale, anche se i confini della fondazione ideale erano di gran lunga eccedenti rispetto alla portata del dominio reale.
Questa concezione fece della città il nucleo propulsore dell’intero processo; dalla città, formata o in formazione, avrebbe infatti dovuto avere inizio la conversione in realtà del progetto complessivo.
Le città e il loro ruoli prestabiliti
A partire dalla fortezza della Navidad (Natale) e dall’insediamento della Isabela, tutte le numerose città fondate dai conquistadores spagnoli e portoghesi diedero origine a nuclei destinati a concentrare tutte le proprie risorse, da un lato, nella lotta per il potere e, dall’altro, in quella etnica e culturale che derivava dal confronto con le popolazioni indigene sia nell’ambito dei territori già conquistati, che in quello delle terre che ancora dovevano essere occupate. Le città rappresentarono giuridicamente e fisicamente una forma elaborata in Europa e trapiantata in terra americana, cioè in un contesto praticamente ignoto. Pietro Martire chiama «colonie» questi insediamenti, dato che essi sembravano essere semplici avamposti della Spagna; fin dal primo momento, era stata loro assegnata una funzione e, anzi, era stato proprio in vista del compimento di questa che erano stati fondati. Essi cominciarono a svolgere il ruolo prestabilito senza però rinunciare alla differenziazione che sarebbe derivata loro dal successivo sviluppo.
La città latino-americana, nella maggior parte dei casi, nacque come fortezza. Non avrebbe potuto, del resto, accadere diversamente, dato che i colonizzatori dovevano affrontare sia gli immensi ed imprevisti ostacoli della natura, sia l’ostilità degli indigeni e quella che nasceva, tra gli stessi Spagnoli, per il possesso di alcune zone contese. Concludendo la Quarta Decade Pietro Martire ebbe a scrivere questa terribile frase: «Ne parlerò brevemente, poiché si tratta di una cosa orribile ed estremamente sgradevole. Dopo la conclusione di queste mie Decadi non si è fatto altro che uccidere e morire, assassinare ed essere assassinati ».
Le prime fondazioni furono dunque fortini militari. Hernán Cortés, nella sua lettera all’imperatore del 1520, scrive: «Ho lasciato nell’insediamento di Veracruz 150 uomini, due dei quali a cavallo e ho fatto costruire una fortezza che è ormai quasi terminata». Ulrico Schmidl e Ruy Diaz de Guzmán usano più o meno gli stessi termini per descrivere la prima fondazione di Buenos Aires, avvenuta nel 1536, e il primo nucleo di Asunción, impiantato nel 1537; la testimonianza più significativa è però quella di Pedro de Valdivia che, in una lettera all’imperatore scritta nel 1545, dice: «Decisi di costruire una fortificazione alta un estado e mezzo [poco meno di tre metri] per delimitare un’area di milleseicento piedi [castigliani] quadrati [circa cinquecento metri quadri]; furono necessari per questo duecentomila blocchi d’argilla della lunghezza di una vara [poco più di 83,5 centimetri] e dell’altezza di un palmo [approssimativamente 21 centimetri]; materiali e costruzioni furono realizzati e posti in opera a forza di braccia dai sudditi della Maestà Vostra, che, me compreso, lavorarono per tutto il tempo necessario ad ultimare il fortino, senza concedersi un’ora di riposo e senza mai poter deporre le armi, dato che, ogni volta che gli indios levavano le loro grida [di guerra], i braccianti e i portatori dovevano rifugiarsi dentro il recinto, dove tenevamo sotto sorveglianza tutte le nostre provviste, mentre i fanti si disponevano alla difesa e noi cavalieri uscivamo in campo aperto per combattere gli indigeni e difendere le nostre seminagioni». Martin Alfonso de Sousa venne a trovarsi in situazioni analoghe sia a San Vicente che a Rio de Janeiro nel corso del 1532; a Recife, dove i Francesi avevuno già costruito una prima fortificazione, i Portoghesi ne edificarono un’altra e la stessa cosa capitò ad Olinda, a Salvador de Bahía e, successivamente, a Montevideo.
La città fortificata fu, dunque, la prima esperienza urbana dell’America latina. Entro le mura si raccoglieva un gruppo di persone in armi che aveva bisogno di fare la guerra per prendere possesso del territorio e raggiungere quella ricchezza che si credeva vi fosse nascosta. Era necessario servirsi dell’intermediazione degli indigeni sia per ottenere cibo da un mondo sconosciuto, sia per scoprire le segrete ricchezze del continente: le perle della costa venezuelana e, soprattutto, l’oro e l’argento che, prima di essere trovati in grande quantità, fecero la loro promettente comparsa e alimentarono la cupidigia dei conquistadores. Il colonizzatore aveva perciò bisogno di trovarsi di fronte ad indigeni sottomessi e, al tempo stesso, ben disposti. Da questa duplice necessità si sviluppò una politica di meticciato e di acculturazione, di cui la città costituì il primo strumento. In questo modo le città cominciarono ad assumere una denominazione, come già era accaduto nel caso della fortezza della Navidad. Sorsero poi le città di frontiera concepite come baluardi contro gli indigeni: Valdivia, Concepción e La Serena, in Cile, Santa Cruz e Tarija, in Bolivia. Vennero poi gli avanposti della penetrazione nell’interno, legati alla fondazione di città come Nuova Cadice e Coro, in Venezuela, Baracoa e Bayamo, nell’isola di Cuba. Sono numerosissime le città latino-americane che hanno le proprie radici in un fortino.
In altri casi l’inizio dell’insediamento urbano fu legato ad un porto di collegamento che in alcuni casi fungeva sia da roccaforte mercantile che da mercato, convertendosi, quindi in una città-emporio.
Punto di arrivo e di partenza della flotte che collegavano il mondo coloniale alla madrepatria, la città si sviluppò attorno ad un porto naturale, talvolta senza neppure prendere in considerazione la natura del territorio e la sua idoneità all’insediamento permanente. Santo Domingo, Portobello, L’Avana, Panama, Veracruz, Cartagena, Salvador de Bahía e Recife nacquero e si svilupparono con questa funzione. La politica economica della Corona ratificò la posizione di preminenza di alcuni porti, assegnando loro un ruolo di particolare importanza nel traffico marittimo con la madrepatria. E questo il caso in cui vennero a trovarsi Portobello e Veracruz quando si arrivò a regolarizzare il sistema delle flotte e dei gaLeóni. Qualcosa di simile avvenne anche nel caso di Acapulco che monopolizzò il commercio con le
Filippine. Analoga fu la situazione di Panama e di El Callao che divennero i capolinea delle operazioni di trasbordo dell’argento che arrivava dal Pacifico e veniva successivamente caricato sulle navi che dovevano attraversare l’Atlantico. Salvador de Bahía e Recife legarono, invece, le proprie sorti all’imbarco dello zucchero. Questa concentrazione delle attività commerciali in alcuni porti aveva la funzione di garantire il rispetto del monopolio, favorendo il controllo fiscale; per questo le amministrazioni centrali favorirono lo sviluppo di queste città, concentrando in esse anche i dispositivi militari di difesa, i cantieri per le riparazioni navali, le sedi delle compagnie commerciali e gli uffici governativi, mentre lo sviluppo demografico era garantito dalla naturale attrazione che sempre viene esercitata da questo tipo di insediamenti.
La città portuale, brulicante di vita per la varietà delle sue attività e per le molteplici opportunità che offriva, incomincia ben presto a prosperare, grazie alla concentrazione della ricchezza che vi si realizzava e, quindi, ad attrarre l’avida attenzione di pirati e corsari. Furono numerose le città che ne subirono gli attacchi: San Juan de Portorico, Panama, Santiago di Cuba, L’Avana; alcuni centri vennero addirittura distrutti da tali incursioni. Per far fronte a questo pericolo si provvide alla fortificazione, dotando i porti, in alcuni casi, di un castello denominato «morro». Cartagena de Indias conserva ancora la poderosa muraglia e tutte le sue fortificazioni; a L’Avana e a San Juan di Portorico sono ancora in piedi le piazzeforti per l’artiglieria dei morros. Sulle isole deserte in vista dei porti caraibici si svilupparono i covi della pirateria, che faceva la posta ai convogli in partenza. Questa scomoda presenza rendeva intensa l’attività militare delle città portuali che, in caso di minaccia, provvedevano, non di rado, mobilitando per la difesa l’intera popolazione.
Alcune città portuali acquistarono, però, ben altre caratteristiche. Il monopolio commerciale favorì infatti un parallelo sviluppo del contrabbando. Buenos Aires, rifondata nel 1580, soffrì una forte discriminazione economica rispetto ai porti autorizzati a sbarcare merci provenienti dall’Europa e fu costretta a dipendere, per questo tipo di rifornimenti, da Lima e da Portobello. Si organizzò di conseguenza una sistematica ed intensa attività, con base nelle vicine colonie portoghesi. Grazie a questi traffici Buenos Aires riuscì a sopravvivere e a prosperare. A ben guardare, essa era un prodotto dello sviluppo delle regioni mediterranee del cono sud che cercavano, naturalmente, uno sbocco al mare che fosse autonomo e diventasse « una porta spalancata sulla terra», mettendo la regione in comunicazione diretta con la Spagna attraverso l’Atlantico e sottraendola alla dipendenza che legava ai porti del Pacifico l’intero sistema del Rio de la Piata. Come porto, Buenos Aires finì per svolgere una funzione analoga a quella dei centri legali di commercio, stabiliti, per volere della madrepatria, nei Caraibi e sul Pacifico.
In alcune occasioni la città latino-americana fu fin dall’inizio un semplice centro di smistamento, un luogo cioè dove venivano concentrate le persone e le cose necessarie per consentire il raggiungimento di regioni più lontane e il proseguimento della marcia in direzioni altrimenti non praticabili.
Un caso tipico fu in questo senso quello di Puebla de los Ángeles, fondata in Messico nel 1531. La seconda Audiencia [sorta di governatorato amministrativo] decise di farla nascere come tappa sicura lungo il cammino che univa il porto di Veracruz a Città del Messico; lungo la stessa strada vi erano già due città indigene che svolgevano la stessa funzione, Tlaxcala e Cholula. Ancor più tipico fu il caso di Asunción, fondata nel 1537 da Juan de Salazar, in un sito che, in base a quanto racconta Ruy Diaz de Guzmán, fu scelto «perché il porto naturale sembrava fornire uno scalo favorevole alla navigazione fluviale». Arrivarono lì, risalendo il Rio de la Piata, tutti coloro che volevano avventurarsi nella regione dove si credeva fossero le miniere; vi giunsero anche i sopravvissuti della spedizione di Álvar Núñez Cabeza de Vaca, a conclusione dell’incredibile avventura che, attraverso tutto il Brasile, li aveva portati fin lì dalle coste del golfo di Santa Catalina. Da Asunción partirono, ai tempi di Alvar Núñez e di Irala, anche tutte le spedizioni che, come quella di Juan de Ayolas, si prefiggevano di aprire una via che portasse in Perù. Dopo il fallimento di questi tentativi Asunción si trasformò e, nel 1541, per iniziativa dei residenti smise di essere una piazzaforte e un punto di passaggio per diventare una vera e propria città, il cui futuro fu garantito dalla progressiva occupazione delle terre circostanti e dagli stretti legami che si stabilirono tra i colonizzatori e gli indios guarani.
Più o meno dello stesso tipo furono anche le fondazioni realizzate nell’attuale territorio argentino lungo le vallate che si diramano longitudinalmente dalla catena andina: Jujuy, Salta, Londres (successivamente ribattezzata Catamarca), La Rioja, San Juan y Mendoza. Sempre sullo stesso modello numerosi centri incominciarono a punteggiare la pista che portava dall’alto Perù al Rio de la Plata; nacquero così Salta e Tucumán, Santiago del Estero e Cordova.
Le enormi distanze e l’ostilità delle popolazioni indigene rendevano necessarie tutte queste fondazioni. Cieza de León scrive, a proposito dell’insediamento equadoriano di Loja: «Il luogo in cui sorge la città è il migliore e il più adatto possibile tenendo conto che doveva trovarsi entro i confini della provincia; siccome gli Spagnoli che seguivano la strada regia diretti a Quito o altrove correvano il rischio di essere aggrediti dagli indios di Carrochamba e di Chaparra venne fondata, nel modo che si è detto, questa città». La qualità del luogo era frutto di diverse circostanze. Talvolta, specie nelle regioni montagnose poteva essere scelta una posizione alta e facilmente difendibile, come per esempio quella dove già in precedenza c’era un pucará [posto di avvistamento] indigeno. Il sito poteva però essere scelto anche sulla base di altre qualità. Un guado o un ponte erano considerati luoghi favorevoli al pari di un’abbeverata, di una conca lacustre o di un crocevia. In questi luoghi ritenuti favorevoli o in altri, là dove non c’era possibilità di scelta, veniva costruita una cappella oppure una stazione di posta e attorno a questo nucleo si sviluppava poi la città, costituita prima da poche case e poi da un villaggio.
In altri casi la città latino-americana prese il posto di un precedente insediamento indigeno che, dove vi fu, raggiunse talvolta una certa grandezza, come nei due casi di Città del Messico e del Cuzco, che destarono viva impressione nei primi colonizzatori. Cortés ebbe a scrivere a proposito di Tenochtitlán: «È una città grande quanto Siviglia e Cordova»; poco più avanti la sua relazione dice: «Vi è un’altra piazza la cui grandezza è due volte quella della città di Salamanca e vi sono portici tutto intorno nei quali ogni giorno comprano e vendono più di sessantamila persone»; la descrizione continua alternando ammirazione e stupore. Nonostante questo la città venne distrutta e al suo posto ne venne costruita un’altra di stile europeo. La planimetria della nuova Messico fu tracciata da un quadrilatero; più o meno nello stesso luogo in cui sorgeva il santuario indigeno venne consacrata la terra per la costruzione del nuovo tempio cristiano e vennero poste le fondamenta della fortezza; fatto questo si provvide alla ripartizione dei suoli e, poco a poco, cominciarono ad elevarsi nuovi edifici, utilizzando per la costruzione le pietre degli antichi complessi monumentali indigeni. L’opera ebbe inizio, per volontà di Cortés, nel 1523.
In Perù, in base a quanto dice Cieza de León: «Non si trovò nessun insediamento mirabile per ornamento, fatta eccezione per il Cuzco, che era la capitale dell’impero inca e il luogo dove risiedeva il sovrano». La ricca città indigena stupì i conquistadores a tal punto da far dire a Cieza de León: «Dev’essere stata fondata da gente di gran valore»; lo stesso cronista la descrive poi in questi termini: «C’erano strade grandi ma anguste e le case di pietra erano antiche e costruite con pietre molto grandi, tagliate e collocate con straordinaria cura. Tutti i restanti edifici erano di legno, di paglia e di argilla, dato che non si è trovata traccia di tegole, mattoni e calce. In molte parti della città vi erano le residenze dei sovrani inca e chi ereditava il potere le usava per i festeggiamenti. In città era anche il tempio del sole di Coricancha, magnifico e solenne e ricco d’oro e d’argento come pochi al mondo». La città soffrì tutti gli orrori della guerra e, come dice ancora Cieza: «Fu rifondata e ricostruita dal adelantado don Francisco Pizarro, governatore e capitano generale di questi regni, in rappresentanza dell’imperatore Carlo, nell’ottobre del 1534».
Diversamente da quanto accadde per Tenochtitlán, il Cuzco spagnolo conservò, almeno in parte, la planimetria della città incaica e, come era avvenuto anche a Messico mantenne inalterata la valenza simbolica di alcuni siti. Sopra le rovine del tempio di Viracocha e con i suoi materiali venne costruita la cattedrale mentre nel luogo in cui sorgeva il palazzo di Guaina Capac venne costruita la chiesa della Compagnia di Gesù. Entrambi i templi si affacciano ancor oggi sulla piazza Maggiore che non è altro che l’antico «Andén del llanto» (Cammino del pianto), cioè la piazza dell’antica città indigena. Oltre a Messico e al Cuzco anche altre città latino-americane si installarono nei luoghi dove già in precedenza sorgevano piccoli villaggi indigeni collocati nelle posizioni più vantaggiose o molto vicino ad esse; tra i molti casi ricordo: Cholula, Bogotá, Quito, Huamanga, Chuquisaca, Mendoza e, entro certi limiti, la stessa San Paolo del Brasile. In tutti questi casi non restò praticamente nulla dell’antico insediamento e, pian piano, la pianta regolare e lo stile delle costruzioni europee finirono per sovrastare completamente l’elemento originale, senza per altro riuscire a sradicarlo del tutto, almeno nei sobborghi indigeni, come ad esempio nel caso di Piura in Perù. Talvolta rimase in piedi il mercato e, comunque, il luogo in cui esso sorgeva continuò ad esercitare una certa attrativa, a causa della quale si determinò una relativa interdipendenza sociale che avrebbe contribuito a trasformare la fisionomia della città, rendendola, ad un tempo, spagnola, meticcia ed indigena.
La forte attrazione esercitata dalle zone minerarie fece sorgere in America latina un tipo di città dalle caratteristiche molto peculiari. Per far fronte alle esigenze delle attività estrattive nacquero Taxco e Guanajuato in Messico e Villa Rica in Brasile, anche se l’insediamento più caratteristico fu, in questo senso, Potosí.
Fondata nel 1545, poco dopo la scoperta del Cerro Rico, Potosí aveva, dopo soli ottant’anni, «quattromila case abitate da altrettanti nuclei di residenti spagnoli e una popolazione oscillante tra i quattro e i cinquemila uomini». Così infatti la descriveva l’autore della Descripción del Perú, attribuita ad un ebreo portoghese e scritta agli inizi del secolo XVII. Parlando degli abitanti l’autore scriveva: «Parte di costoro si dedicano allo sfruttamento delle miniere, altri sono mercanti che trafficano in tutto il regno coi loro prodotti, commerciando alimentari e candele di cera che le miniere consumano ogni giorno in enorme quantità, mentre altri ancora vivono da avventurieri, dedicandosi al gioco d’azzardo e facendo i duri». La descrizione aggiunge che: «Nei dintorni della città vivono, in capanne di paglia, più di quarantamila indios, che lavorano nelle miniere e, ogni mese, tornano ai loro ayllus che sono una sorta di province; essi sono mandati dai loro corregidores [amministratori spagnoli] e vengono portati al lavoro dagli alcaldes de indios [caporali] che controllano l’adempimento dei loro obblighi di mita [corveé] in base a quanto stabilito nei repartimientos [sistema in base al quale veniva stabilito e calcolato, tra le altre cose, anche il numero di giornate lavorative che costituivano parte della prestazione fiscale di ogni ayllu]; così essi vengono fin qui per lavorare e alcuni giungono a piedi da villaggi che distano da qui più di centocinquanta leghe».
Cieza de León menziona come importante il mercato di Potosi già pochi anni dopo la fondazione e segnala che in esso « la contrattazione fu così vivace che, soltanto tra indios e senza nessun intervento di cristiani, nei periodi di prosperità delle miniere, venivano scambiati ogni giorno dai venticinque ai trentamila pesos d’oro e, in alcuni casi, anche più di quarantamila; la cosa è strana e credo che in nessuna fiera del mondo si riesca ad eguagliare il volume di traffico di questo mercato».
Tipico fu anche il caso della città di Villa Rica di Albuquerque, l’attuale Ouro Preto, fondata nel 1711 «per sfruttare le presunte ricchezze delle miniere, nelle quali si lavora ormai da molto tempo in questa zona tormentata da colli e canaloni, e per fornire un punto di riferimento ai traffici e alle attività che nascono per la maggior parte degli abitanti dall’indotto dell’attività estrattiva». Tre anni dopo la fondazione, il municipio creato dal governatore Antonio de Albuquerque era già in condizioni di provvedere al rifornimento idrico, alla pavimentazione delle strade ed alla costruzione dei ponti e degli edifici di pubblico interesse. Villa Rica pagava già al tesoro reale una tassa di sei arrobas in oro.
Lo sviluppo delle città minerarie fu parallelo all’andamento delle attività estrattive, dato che, in genere, la localizzazione dell’insediamento non aveva altra ragion d’essere che quella che gli derivava dalla vicinanza delle miniere. Nei periodi di prosperità si creò però una congiuntura talmente favorevole da lasciare nella struttura architettonica di questi centri unindelebile ricordo di ricchezza e di grandezza, nonché, in alcuni casi, una reale convergenza di interessi, difficile da sradicare.
In quanto centro politico e militare la città ebbe in America latina un suo spessore istituzionale e, spesso, fu addirittura l’espressione fisica di una situazione legale e politica. Il conquistador che, stipulando una capitolazione o avendo ricevuto una donazione, era divenuto beneficiario di alcuni diritti di signoraggio era tenuto, per esercitarli, a prender possesso di un territorio che, spesso, era ancora sconosciuto, dato che la sua descrizione e talvolta persino la sua estensione erano ricavate da ipotetiche supposizioni. Una volta giunto sul posto, il colonizzatore aveva appunto il compito di trasformare in realtà queste supposizioni e, per far questo, aveva bisogno di produrre qualcosa che potesse dimostrare il suo dominio sul territorio che lo circondava: tale atto simbolico fu, molto spesso, rappresentato da una serie di fondazioni urbane.
Da un certo punto di vista, la maggioranza delle città latinoamericane del secolo XVI, a cominciare da Santo Domingo, fondata nel 1496, costituirono una risposta a precise sollecitazioni circostanziali. Le città fondate a Cuba e nella Hispaniola nei primi decenni del secolo XVI e gli insediamenti dei Portoghesi lungo la costa brasiliana, a partire da quello di San Vicente, che ebbe luogo nel 1532, non furono altro che ripetizioni di uno stesso modello.
Questa esigenza divenne palese nelle regioni in cui vi furono conflitti di giurisdizione. Il caso più tipico è forse, quello di Santa Fé de Bogotá, fondata nel 1538 da Jiménez de Quesada e rifondata l’anno successivo alla presenza di tre conquistadores che si erano incontrati, per caso, sull’altipiano: Quesada, Benalcázar e Federman. Diverse città dell’interno, situate oggi in territorio argentino, furono fondate più o meno nello stesso modo. La regione nord orientale fu contesa tra coloro che obbedivano direttamente al governo di Lima e coloro che erano invece fedeli al governatore del Cile Pedro de Valdivia. I primi fondarono nella regione la città del Barco mentre i secondi decisero di abbandonarla e di fondare entro i confini della medesima giurisdizione quella di Santiago del Estero, che nacque nel 1553. Ancor più curioso è il caso della città di Mendoza di cui il viceré omonimo ordinò la fondazione nel 1561 per il governatore del Cile García Hurtado de Mendoza. nell’intento di perpetuare il proprio nome prima di essere rimpiazzato da un rivale. L’anno successivo Francisco de Villagra, che gli subentrò nella carica, ordinò a Juan Jufré di rifondare la città; l’atto della seconda fondazione così la giustifica: «Poiché la detta fondazione non era avvenuta in un luogo idoneo, per il bene, la conservazione e l’incremento dei residenti e degli abitanti che devono vivere e restare in essa si è convenuto [di rifondarla], dato che [lasciandola dov’era] non era possibile garantire la prosperità di coloro che ora ci vivono e che ci vivranno in futuro». La seconda città, fondata quando praticamente doveva ancora essere incominciata la costruzione della prima, avrebbe dovuto chiamarsi «città della Resurrezione e con questo nome essa deve comparire in ogni atto e scritto pubblico, nei testamenti e in tutti quegli atti privati che si è soliti datare con giorno mese ed anno, per cui si ordina che in tutti i detti atti il nome compaia così come sopra lo si è scritto e mai diversamente sotto pena di quella pena nella quale incorrono e ricadono tutti coloro che usano in atti di pubblico interesse nomi di città che non sono popolate nel nome di Sua Maestà e che per tanto non sono soggette al Suo dominio». Con questo atto veniva ratificata la giurisdizione del governatore del Cile sulla regione transcordiglierana, allora nota con il nome di Cuyo.
In alcune regioni dell’America latina gli insediamenti indigeni ebbero un’importanza paragonabile a quella delle città di tipo europeo. Parte degli antichi centri autoctoni vennero, per alcuni aspetti inclusi e ricollocati all’interno del nuovo sistema coloniale. Indipendentemente da ciò sorsero però nuovi villaggi indigeni, già concepiti in considerazione della logica del nuovo sistema. Tale risultato fu principalmente una conseguenza dell’attività dei diversi ordini religiosi che organizzarono missioni e riduzioni in tutto il continente.
In Messico il vescovo Vasco de Quiroga sviluppò un piano specificamente volto alla protezione degli indigeni. Per evitare che fossero sfruttati e sterminati egli fondò a Michoacán un insieme di comunità la cui organizzazione si ispirava da un lato alle idee di Erasmo e di Tommaso Moro e, dall’altro, alle osservazioni dello stesso Quiroga circa le tendenze socioculturali degli indigeni. Agli inizi sorgevano nel luogo dell’insediamento ospizi e case di beneficenza ma nel volgere di poco tempo vennero costruiti anche villaggi e tra questi venne fondata per volontà del viceré Mendoza, la città di Valladolid oggi Morelia. Pur mantenendo la propria tradizionale organizzazione e dedicandosi alle loro caratteristiche attività gli indigeni riuscirono, in questo modo, a dar vita a centri urbani capaci di integrarsi alla visione dei colonizzatori. Le tecniche lavorative continuavano a rimanere inalterate, ma le relazioni di dipendenza e il catechismo religioso agivano lentamente sulla visione indigena del mondo portando gli indios verso una progressiva integrazione con gli Spagnoli o meglio verso una rassegnata accettazione della loro dipendenza.
Analoga fu la funzione delle missioni domenicane e cappuccine, ma soprattutto, di quelle francescane e gesuitiche, che furono le più numerose e le meglio organizzate, dato che poterono contare su un organico sistema ideologico che operava sia sul piano politico e socio-economico che su quello spirituale. Vi furono esperienze significative in numerosi paesi: Messico, Colombia, Venezuela, Perù e Brasile, ma particolarmente furono le comunità che si stabilirono a Moxos, a Chiquitos e in Paraguay, dove vennero fondati trenta villaggi dalla planimetria identica, sviluppata a scacchiera attorno ad una piazza centrale, dove si disponevano ordinatamente la chiesa, il convento, il cimitero, le officine, il carcere e il capitolo (palazzo municipale). Gli abitanti, che nel momento di apogeo furono tremila, erano dediti all’agricoltura e svolgevano all’interno dei villaggi una vita estremamente metodica, in una situazione di totale isolamento. Le riduzioni degli indios servirono, talvolta, come base di nuovi insediamenti, come, per esempio, nel caso della riduzione di los Quilmes, a sud di Buenos Aires, fondata da un gruppo di indigeni trapiantatovi nel 1669 da un’altra regione, in seguito ad una sanguinosa ribellione. Radici analoghe hanno le comunità di Itatí, Jesús María, Río Cuarto e Baradero, ancor oggi esistenti in Argentina.
In Brasile si è avuto il più celebre caso di trasformazione in grande città di un’antica missione: San Paolo. I gesuiti vi si stabilirono nel 1554 per volontà di padre Manuel de Nóbrega, provinciale del Brasile, con sede a San Vicente. La comunità fu fondata da tredici religiosi tra i quali si sarebbe ben presto distinto padre José de Anchieta; essi si stabilirono nel villaggio indigeno di Piratiminga nel quale confluirono ben presto tutti gli indios che seguivano i cacicchi guayanazes Tebiriçà e Caiubí, «seguendo l’esempio di due capi tanto famosi, gli indios che scesero dall’altopiano furono così numerosi che ben presto il villaggio non fu più capace di contenerli ».
Il nucleo centrale della nuova fondazione fu rappresentato dalla chiesa e dal collegio dei gesuiti, attorno ai quali vennero costruite le capanne indigene. Due anni dopo la fondazione, il collegio e la chiesa erano già stati rimpiazzati da nuove costruzioni in mattoni d’argilla e, ben presto, cominciarono a fare la loro comparsa alcuni altri edifici costruiti col medesimo materiale, mentre si provvedeva anche ad erigere muraglie e palizzate per difendere la nuova città. Non dovette passare molto tempo prima che giungessero a San Paolo alcuni gruppi di diversa origine che ne variarono la composizione originale; i bandeirantes (contrabbandieri di schiavi) trasformarono la città in una base logistica del reclutamento forzato di indios, che venivano successivamente venduti come schiavi; in questo modo San Paolo divenne uno dei più importanti mercati dei cosiddetti «schiavi rossi»; spregiudicati uomini d’affari come Jorge Moreira e la famiglia Sardinha accumularono enormi ricchezze dedicandosi ad ogni genere di traffici. Erano loro i veri padroni della Camera, un organo di governo municipale che cominciò a funzionare a San Paolo intorno al 1560.
I gruppi urbani originari
Lo stanziamento concreto delle città fu un fatto decisivo nel processo di occupazione del territorio americano da parte dei conquistatori europei, non solo per ciò che riguarda le zone di influenza di ciascuna città, ma anche da un punto di vista più complessivo, dato che le città costituirono nel loro insieme, una rete urbana pensata e voluta dalle autorità centrali della madrepatria. Il sistema delle comunicazioni tra le varie città disegnò la prima mappa unitaria di un continente le cui varie parti erano state fino ad allora, completamente isolate le une dalle altre. Si può, anzi, dire che l’occupazione effettiva del territorio derivò proprio dalla fondazione delle città; così venne a porsi un nuovo problema, dato che sul territorio occupato si installava una società nuova, portatrice di un progetto economico nuovo.
Lo stanziamento della città latino-americana pose, nel continente, in concreto, un nuovo problema di ordine socio-economico, che era, al contempo, una conseguenza della situazione di partenza dei conquistadores e delle prospettive che si offrivano loro nel nuovo scenario in cui il primo nucleo urbano incominciava ad agire. È questo il centro propulsore della trasformazione. Se la città fu la protagonista della fase di occupazione del territorio, il nucleo urbano originario fu il protagonista della vita della città e il promotore della sua azione sull’ambiente circostante. Composto dai collaboratori del fondatore, il gruppo non era sempre omogeneo o, meglio, non lo era necessariamente dal punto di vista del paese di origine: furono le circostanze a compattarlo mettendo tutti i suoi membri di fronte ad una medesima situazione. Il gruppo finiva così per comportarsi come se fosse omogeneo, anche quando continuava a pesare su ciascuno dei membri una particolare tradizione, composta principalmente dalle vestigia del modello di inserimento che ciascuno aveva avuto nella società di provenienza.
Su questo problema esistono alcuni significativi testi. Alla fine del secolo XVI Juan López de Velazco, cosmografo e cronista delle Indie, nella sua opera Geografia y descripción de las Indias, usava queste parole per descrivere gli Spagnoli che si trasferivano oltre l’Atlantico: «Gli Spagnoli sarebbero in quelle province molti di più di quanti non siano se si concedesse la licenza di trasferimento a tutti coloro che la vorrebbero, tuttavia, poiché di norma hanno manifestato particolare propensione a trasferirsi laggiù da questi regni i fannulloni, i sediziosi e tutti quelli che erano più desiderosi di arricchirsi rapidamente che non di radicarsi in quelle terre, accade ora che costoro non si accontentino di avere assicurato il cibo e il vestiario – che non possono mancare a chi si rechi nelle colonie con buone intenzioni – e che di conseguenza, siano essi contadini, soldati o altro, si dimentichino di ciò che sono e, ribellandosi all’autorità, se ne vadano in giro senza far nulla, con la pretesa di ottenere cariche e benefici; perciò questa gente rappresenta un problema per la pace e la tranquillità di quelle terre ed è per questa ragione che il visto d’espatrio non viene loro concesso o, perlomeno, si cerca di ridurre il più possibile il loro numero, specialmente per ciò che riguarda il Perù, che è la zona dove costoro hanno creato i maggiori problemi, come hanno dimostrato le ribellioni e i disordini che ci sono stati in quella regione, di modo che la licenza di trasferimento per il Perù viene ora concessa soltanto ai funzionari diretti laggiù, ai loro servitori e accompagnatori, ai soldati, agli esploratori, ai commercianti, agli uomini d’affari e ai loro rappresentanti, che vengono però accreditati a tempo determinato e per un periodo non superiore ai due o tre anni, mentre possono ottenere la licenza non temporanea anche i funzionari di Siviglia, a condizione che imbarchino un certo quantitativo di beni di loro proprietà. Il trasferimento nelle Indie è invece negato agli stranieri, mentre i Portoghesi non possono né risiedervi né commerciarvi; tra i nativi di questi regni l’emigrazione è interdetta ai Mori, ai Giudei, ai condannati dalla Santa Inquisizione, a coloro che hanno fatto parte di un ordine religioso, a tutti quelli che, pur essendo sposati, vogliono partire senza le loro donne – fatta eccezione per i mercanti e per coloro che hanno licenza temporanea -, agli schiavi berberi e ai levantini – eccetto quelli della Guinea e del’Africa nera -, anche perché, nonostante il divieto e gli accurati controlli per impedire il trasferimento a coloro che erano senza licenza, gli schiavi riescono a passare ovunque con la garanzia dei mercanti e dei capitani di mare».
Molto tempo più tardi, stilando un bilancio sul reale andamento dei fatti, Antonio de Ulloa e Jorge Juan riassumevano così, nelle Noticias Secretas, pubblicate nel 1735, le loro osservazioni sui primi nuclei di popolamento: «Gli europei e i chapetones (individui trasferitisi da poco) che arrivano nelle colonie sono in generale persone di umile condizione in Spagna, o, comunque, di famiglia poco nota, privi di educazione e di qualsiasi altro merito che li distingua […] Dato che le famiglie legittimamente bianche sono rare in quelle regioni e dato che, generalmente, solo quelle più in vista godono di questo privilegio, l’accidentale appartenenza alla razza bianca assume in queste zone un significato equivalente a quello che dovrebbe corrispondere ad una posizione di privilegio giustificata da una superiore qualità e, per questo, coloro che sono europei, pur non avendo nessun altro merito, ritengono di meritare lo stesso ossequio e lo stesso rispetto che viene tributato ad altri che, pur essendo bianchi al pari di loro, si recano però nelle colonie con quelle attività in onore delle quali li si dovrebbe legittimamente distinguere dalla massa comune dei più».
Questi testi confermano l’immagine che le cronache ci forniscono degli originari gruppi urbani. Era prevalente in essi la gente che, nonostante l’umile condizione, aveva spirito di avventura, avidità e desiderio di arricchirsi. L’America rappresentò infatti una grande opportunità per coloro che aspiravano ad un miglioramento economico e sociale. Uomini privi di terra e di nobiltà cercavano nel nuovo mondo entrambe le cose. Questo atteggiamento era contrario al definitivo radicamento ed al lavoro continuo e metodico. Il successo in terra americana consisteva per il nuovo venuto nel raggiungere una posizione sociale analoga a quella dei nobili spagnoli; tale posizione avrebbe dovuto avere le sue basi sulla ricchezza che si pensava di poter acquisire facilmente e sulla sottomissione di un gran numero di indigeni. Mano a mano che la colonizzazione avanzava, la Spagna e il Portogallo cercarono di scoraggiare il trasferimento nelle Indie di questi avventurieri, stimolando piuttosto il trasferimento di mercanti ed artigiani; questa politica tuttavia non ebbe successo e anche queste professioni finirono per essere esercitate da persone che avevano motivi sociali od individuali per allontanarsi definitivamente dal proprio paese di origine. Furono pochi i nobili che si trasferirono in America e ciò contribuì a caratterizzare l’atteggiamento dei gruppi urbani originari.
Tali gruppi furono, comunque, costituiti da un numero limitato di effettivi che, durante l’avanzata del processo di occupazione della terra, decisero di stabilirsi in un luogo, vi si fermarono e cominciarono a procurarsi in concreto tutti quei vantaggi promessi che ciascuno di loro aveva sperato di conseguire con la conquista. Il fondatore li aveva scelti perché si stabilissero nella città ma solo una parte di essi finì effettivamente per fermarvisi. Con l’atto di fondazione venivano loro assegnati dei terreni entro il perimetro della città appena tracciata e su questi terreni essi avrebbero dovuto erigere le proprie case da cui avrebbero poi provveduto all’amministrazione delle proprie terre coltivate o delle proprie miniere, utilizzando come lavoratori gli indios che erano stati loro affidati in encomienda. Coloro che non avevano ricevuto terre e commende erano costretti a svolgere una funzione pubblica o in alternativa, ad esercitare un’attività commerciale o un mestiere che, in genere, veniva svolto materialmente da manodopera indigena.
Queste erano, in linea generale, le possibilità che si offrivano ai nuovi colonizzatori. L’importante era che essi godevano di un privilegio ratificato. Questo gruppo costituì l’insieme dei nuclei familiari che erano dunque formati dai colonizzatori per eccellenza, cioè da coloro che erano titolari di diritti. Tuttavia sia i diritti che i privilegi erano collegati ad alcune prospettive, cioè alle effettive possibilità di ricavare da essi un profitto economico.
Minatori, allevatori, piantatori, industriali dello zucchero, commercianti di schiavi e grandi mercanti legati all’esportazione dei prodotti locali diedero forma in breve tempo alla prima aristocrazia urbana. Insieme a loro ne facevano parte, ovviamente, i vertici della gerarchia ecclesiastica e amministrativa, di cui facevano parte, in alcuni casi anche hidalgos e nobili provenienti dalla Spagna. Attorno a costoro si formò fin dall’inizio un nucleo di popolamento più vario, composto da coloro che svolgevano le altre funzioni. Le città importanti, come Messico o Lima, incominciarono a richiedere un crescente numero di addetti o, come dice López de Velazco, a proposito di quelli di Messico, di «ufficiali meccanici». Incominciarono anche a fare la loro comparsa i mediatori, i piccoli commercianti e i funzionari di livello medio e inferiore della gerarchia. Ben presto giunsero alla città anche numerosi indios, chiamativi per svolgere i servizi domestici e le più umili funzioni della vita urbana o trasferitivisi di loro volontà.
L’atto fondativo
Strumento di occupazione del territorio e di costruzione di una nuova società in quei territori, le città latino-americane ebbero, nel primo periodo, un atto formale di fondazione. Solo in seguito vi saranno agglomerati di formazione spontanea e prodotti da una dinamica interna. La prima ondata delle fondazioni è invece il frutto di un processo esterno che ha le sue origini nel progetto dei conquistadores. La fondazione fu, perciò, un atto politico. I fatti si ripeterono molte volte uguali a se stessi. Un piccolo esercito di Spagnoli o di Portoghesi, comandato da qualcuno che disponeva di un’autorità formalmente indiscutibile, accompagnato generalmente da un certo numero di indigeni, arrivava in un certo luogo e, dopo aver provveduto ad una scelta più o meno accurata della collocazione, vi si installava manifestando l’intenzione che una parte del gruppo vi si fermasse definitivamente. Era un atto politico che corrispondeva al progetto di un’occupazione militare della terra legittimata dal diritto di conquista. Per questo l’atto politico veniva completato da un gesto simbolico: il conquistador strappava alcune manciate d’erba, dava con la spada tre colpi sulla terra nuda e, per finire, sfidava a duello chiunque si opponesse all’atto di fondazione, che, talvolta, poteva anche avere un altro scopo: affermare il predominio di un conquistador su un altro, nei casi in cui le capitolazioni e le donazioni non erano chiare. Ciononostante l’acquisizione del dominio sul territorio e l’assoggettamento della popolazione indigena costituirono sempre l’obiettivo principale.
L’atto politico poteva essere completato in diversi modi. La celebrazione di una messa consacrò, per esempio, la fondazione di Bogotá e di San Paolo, mentre in altri casi la fondazione venne sacralizzata dalla collocazione di un’immagine devota, come quella di San Sebastiano a Rio de Janeiro. Nel frattempo veniva redatto un atto di fondazione cioè un documento accuratamente stilato con tutte le clausole e le formalità notarili «in presenza di un funzionario scrivano e di testimoni». In questo documento venivano solitamente già stabilite le norme dell’amministrazione municipale «dato che, a norma di legge, nelle tali città oltre ai governatori e ai giudici di livello superiore devono anche esserci sindaci ordinari che disbrighino l’amministrazione e la giustizia e reggitori che si occupino del governo e tutti gli altri funzionari necessari». Al momento di realizzare materialmente la planimetria della città, che veniva di norma precedentemente disegnata, veniva eretta, nel centro di quella che sarebbe diventata la piazza Maggiore, una colonna o pelourinho, simbolo della giustizia.
Il criterio in base al quale veniva scelto il luogo di insediamento non era lo stesso in Brasile e nell’Ispanoamerica. In Brasile si preferirono i luoghi sopraelevati e ben difendibili, mentre nell’Ispanoamerica si privilegiarono in generale zone pianeggianti. Questo determinò, ovviamente, una differenziazione nelle planimetrie; anche se non mancò in Brasile una certa tendenza alla geometrizzazione o, perlomeno, alla regolarità geometrica, la topografia dei luoghi sopraelevati finì per imporre le proprie regole. Dopo il 1580, con l’unione del Portogallo alla corona spagnola, verranno tenute in maggior conto le norme di regolarità che la Spagna imponeva alle proprie colonie, nelle quali la regola fu costituita dal tracciato a scacchiera, con isolati di forma quadrata ed una grande piazza posta approssimativamente al centro dell’insediamento. Questa piazza, denominata maggiore, doveva costituire il nucleo della città; attorno ad essa si sarebbero dovuti costruire la chiesa, il fortino, il palazzo governativo e il capitolo municipale. Alle chiese ed ai conventi dei vari ordini religiosi erano riservati alcuni terreni; il resto veniva ripartito tra i colonizzatori dopo essere stato suddiviso in lotti di forma regolare.
L’attribuzione di un terreno interno allo spazio urbano comportava per l’assegnatario l’obbligo di costruire una casa che, se al principio poteva essere modesta, come lo furono i bohíos (capanne senza finestre) costruiti a Bogotá dai membri della spedizione di Jiménez de Quesada, doveva poi migliorare di volta in volta, diventando col tempo una costruzione permanente in pietra o in mattone. Il colonizzatore aveva inoltre il diritto di conservare, poco lontano, una certa estensione di terreno agricolo, detta chacra (rustico), mentre più lontano vi erano le haciendas o estancias (grandi fattorie). Queste ultime erano, cioè, situate al di fuori della cerchia urbana, che era separata dalla circostante zona rurale da una certa estensione di spazio che veniva mantenuta vuota in previsione di una possibile espansione della città e che veniva momentaneamente adibita ad uso comune; tale zona era detta rossio o ejido; oltre a questa vi era poi la vera e propria proprietà municipale, detta termo in Brasile e propios nell’America spagnola. Una volta fondata la città, occorreva trasformarla in una realtà fisica; diversamente dalla prima, questa seconda fase non ebbe ovunque la medesima durata.
Nel frattempo, i fatti intervenienti poterono modificare il progetto originario. Sia gli ordini religiosi che i privati poterono scambiare con altri i terreni loro assegnati, mentre gli spazi di proprietà inutilizzati e di proprietà collettiva potevano essere variamente impiegati. Ciononostante la trasformazione più radicale fu quella che determinò, in molti casi, il trasferimento dell’intera città.
Di fatto, la fondazione avvenne quasi sempre senza preparazione e venne realizzata sulla base di una rapida stima di alcuni immediati vantaggi offerti dalla posizione geografica: lungo la costa, su di un’altura, lungo il corso di un fiume; ancor più decisive erano alcune caratteristiche della collocazione fisica: la presenza di acqua, di pascoli, di legna, il favore dei venti. La città si installò dunque in genere su un territorio poco conosciuto, senza che vi fosse stata in precedenza un’esperienza sufficiente per consentire di prevedere le varie e meno evidenti difficoltà che si sarebbero presentate con l’andare del tempo. E probabile che nella mente dei fondatori fosse sempre presente l’idea che la fondazione poteva anche non essere definitiva. E comunque sicuro che nel caso di molte città l’esperienza consigliò un mutamento di collocazione che fu, a volte, talmente radicale da determinare un vero e proprio trasferimento geografico. Questo processo di spostamento fu un fenomeno curioso, dato che dal punto di vista giuridico la città era la stessa, e conservava il proprio nome e continuava ad esistere nell’ambito della stessa giurisdizione; solo il tempo però avrebbe potuto dire se la città sarebbe o non sarebbe rimasta la stessa che era nata con la fondazione originaria, se avrebbe, cioè, svolto le medesime funzioni di quella; è probabile però che non abbia senso formulare questa domanda.
In alcuni casi, come, per esempio, in quello di Veracruz, la città venne trasferita due volte. In altri casi, il periodo di incertezza fu ancora più lungo. Il caso limite è rappresentato senza dubbio dall’insediamento degli Spagnoli nella valle argentina di Catamarca; la città che venne chiamata Londres e che fu fondata per la prima volta nel 1558, quattro anni dopo il matrimonio di Filippo II con Maria Tudor, subì nel corso della sua storia numerosi spostamenti. Essa cambiò così spesso la propria collocazione da spingere il cronista Pedro Lozano a parlarne, agli inizi del XVIII secolo, definendola la quasi «portatile città di Londres che non vuol saperne di metter radici in nessun luogo». La stessa frase era già stata usata da padre Lozano a proposito della città di Concepción del Bermejo, fondata nel 1585 da Alonso de Vera; a proposito di questo insediamento, il fondatore aveva ricevuto, dalle stesse autorità che aveva da poco creato, l’incarico di «trasferire questa città in posizione più comoda». La stessa procedura venne seguita anche nel caso della città venezuelana di Trujillo.
Molte altre città modificarono la loro collocazione. Mem de Sa spostò Rio de Janeiro dalla sua posizione originaria in direzione di quello che venne definito el Castillo, per ragioni di sicurezza. Santo Domingo, fondata da Bartolomeo Colombo, nel 1496, fu distrutta da un uragano e venne ricostruita da Nicolas de Ovando, nel 1502, sulla sponda opposta del fiume Ozama. Santiago del Guatemala, fondata nel 1524 da Pedro de Alvarado, fu distrutta da un’inondazione nel 1541 e venne ricostruita a circa una lega dalla sua precedente collocazione; la città, che oggi è chiamata Antigua, venne nuovamente distrutta da un’eruzione vulcanica nel 1717 e venne praticamente abbandonata a metà della ricostruzione, quando sorse il nuovo insediamento, nel luogo dove ancor oggi è collocata città del Guatemala. Panama fu fondata sulla costa pacifica da Pedrarias Dávila, nel 1519, e, a ben guardare può essere considerata come il risultato di una traslazione del precedente insediamento di Santa María la Antigua, fondata da Enciso e da Balboa attorno al 1510, e abbandonata, dopo che, nonostante la protezione accordatale dal nuovo governatore, gli uffici governatavi vennero trasferiti a Panama. Cieza de León faceva presente, circa trent’anni dopo, che la città era in salvo e che, per questo, sarebbe stato opportuno modificarne la collocazione; egli osservava che: «siccome le cose hanno gran prezzo, poiché farle costa molto, nonostante si veda il palese danno che tutti ricevono dal vivere in un luogo così sfavorevole, la collocazione dell’insediamento non è stata mutata». Ciononostante, dopo che il pirata Morgan distrusse la città, nel 1671, essa venne trasferita nella sua posizione attuale.
La città di Nombre de Dios fu abbandonata, per cercare un luogo migliore, nel 1596, e per rimpiazzarla nacque, a poca distanza, Portobello. Mutarono collocazione anche Quito e San Juan di Portorico; per ragioni diverse si spostarono anche: La Victoria, Mariquita, Huamanga (oggi Ayacucho), Arequipa, Santiago del Estero, Tucumán, Mendoza e Buenos Aires, per non citare che le più famose.
A guardar bene, il mutamento di posizione equivale ad una nuova fondazione, dato che spesso il trasferimento era accompagnato da una sostanziale modifica del gruppo urbano originario. Questo fu, per esempio, completamente nuovo nel caso di Buenos Aires, dato che, tra la prima e la seconda fondazione, trascorsero quarantaquattro anni; parzialmente rinnovato fu anche il nucleo umano di Santiago del Guatemala dato che non tutti i residenti di Antigua accettarono di abbandonarla, nel 1717. Con la nuova fondazione si può dire che cominciasse una nuova vita.
La mentalità dei fondatori
Posti di fronte al luogo prescelto, con la mano stretta sull’impugnatura della spada, lo sguardo fisso alla croce ed i pensieri rivolti alla ricchezze che l’impresa avrebbe loro procurato, gli uomini che componevano il gruppo fondatore di una città che, pur avendo già un nome, ancora non esisteva concretamente, dovettero provare la strana sensazione di chi attende il prodigio di una creazione dal nulla. Erano europei posti su di un continente sconosciuto e la creazione era ben presente nelle menti di tutti loro, dato che la loro avventura non era in verità, altro che un ulteriore passo dell’ambiziosa ed ardita espansione europea che aveva avuto inizio quattro secoli prima. La terra di cui ora stavano prendendo possesso – una terra vera, con fiumi e pianure, laghi e vulcani – doveva essere il prolungamento della terra che avevano lasciato quando si erano imbarcati, sull’altra sponda dell’Atlantico.
A rigore questo atteggiamento presupponeva l’indiscusso vigore di una concezione che aveva guidato l’Europa cristiana fin dall’inizio della sua espansione: l’Europa cristiana era l’unico mondo valido, in mezzo a mondi inferiori e privi di luce. Questa concezione etnocentrica non era né unica, né originale: l’avevano, di sicuro, i musulmani che, scatenarono, per questo, la loro guerra santa; l’Europa cristiana radicò il suo senso di superiorità nei legami con il mondo romano e irrobustì con la propria fede questa concezione, assimilando dall’esempio musulmano la convinzione di avere il diritto di imporla a tutti gli altri mondi considerati inferiori ed oscuri. A partire dalle crociate non è avventato ipotizzare che la catechesi non fu più concepita, alla maniera lullista, come divulgazione di un messaggio spirituale, ma si trasformò in guerra contro l’infedele, legata all’immagine sempre presente dell’apostolo Stefano, uccisore di mori prima e di indios poi. Era una guerra che non conosceva tregua perché era la guerra per eccellenza, quella del bene contro il male; coloro che vi partecipavano erano, naturalmente, sicuri di rappresentare il bene: il devotissimo Motolinía chiamava «templi del demonio» gli edifici sacri che i conquistadores distrussero a Città del Messico.
La mentalità dei fondatori fu dunque quella dell’espansionismo europeo, sempre dominato dall’assoluta e indiscutibile certezza di possedere la verità. La verità cristiana non era soltanto una fede religiosa, era la radicale espressione di un mondo culturale. Quando il conquistador agiva in nome di questa cultura affermava non soltanto la validità dei suoi fini, ma anche l’intrinseco valore dell’insieme dei mezzi strumentali e delle tecniche che la nuova cultura borghese aveva integrato all’antica tradizione cristiano feudale. Grazie a queste tecniche il bene aveva la possibilità di trionfare sul male, utilizzando il cavallo reso docile dalla briglia, la balestra, l’acciaio delle spade e delle corazze e le robuste navi che potevano navigare in altura. I gruppi dei fondatori erano, cioè, espressione della sintesi feudo-borghese che, nella madrepatria, stava modificando il complesso delle relazioni tra le classi e il rapporto tra mezzi e fini.
Grazie a questa certezza la mentalità espansionistica europea aveva concepito il disegno di strumentalizzare il mondo non cristiano in vista della realizzazione dei propri fini e gli europei si radicarono sempre più in questa convinzione mano a mano che i mezzi tecnici andavano incrementando la loro possibilità: l’aumento della superiorità tecnologica diede ai gruppi colonizzatori una maggiore sicurezza circa la validità dei propri fini. La comparsa di nuovi infedeli nella zona centro orientale dell’Europa avrebbe forse potuto mettere in crisi le sicurezze relative al destino di dominio riservato alla cristianità, ma la battuta d’arresto subita su quel fronte non determinò che una breve eclissi del progetto fondamentale. I Portoghesi avevano già dimostrato di poter domare le popolazioni africane ed asiatiche e, ogni volta che si installavano da dominatori in nuove regioni, strappando ad esse prodotti che venivano inseriti e circuitati nella rete commerciale della madrepatria, intensificavano il commercio negriero e l’utilizzazione della mano d’opera schiava sia nell’economia nazionale che in quella coloniale. Gli Spagnoli avevano per parte loro eliminato dal proprio territorio il potere musulmano e si consideravano ormai in condizioni di espandersi oltre le frontiere; tale progetto mirava in origine all’Africa musulmana, ma finì poi per essere indirizzato verso l’America non appena ci si rese conto delle enormi prospettive che si sarebbero potute aprire nei nuovi territori. Una felice esperienza consentì di intraprendere la nuova avventura con la sicurezza del successo.
La mentalità dei fondatori acquisì, tuttavia, in America una peculiare coloritura. Dal 1492 fino alla scoperta delle culture del Messico, avvenuta circa trent’anni dopo, gli Spagnoli e i Portoghesi non vennero a contatto che con popolazioni poco numerose e poco evolute, disperse sulle vaste estensioni dei territori che si andavano esplorando. Nacque così, radicandosi in questa prima esperienza, un’immagine delle nuove terre che avrebbe avuto in seguito una decisiva importanza. L’America apparve come continente vuoto, privo di popoli e di cultura. Il vuoto non era totale per quanto riguarda il popolamento, ma dal punto di vista dei conquistadores lo scarso numero e la poco evoluta civilizzazione di quei gruppi umani non poteva costituire un valore apprezzabile; per quanto riguarda la cultura, la sensazione predominante fu dunque decisamente negativa. Questa immagine del continente vuoto si sovrappose a quella del tropicalismo e originò insieme ad essa uno stereotipo che non venne rimesso in discussione neppure dopo la scoperta delle più evolute culture degli altopiani e delle zone temperate e fredde del continente.
Lo stereotipo si sviluppò dunque a partire da una prima esperienza concreta e venne poi sostenuto dall’inerzia e alimentato dai progetti dei conquistadores. L’America continuò ad essere considerata un continente tropicale, poiché erano tropicali i prodotti desiderati dalla mente dei colonizzatori, nella quale erano presenti anche enormi ed immaginarie quantità d’oro e d’argento che, solo per caso, si trasformarono in realtà. L’America continuò inoltre ad essere un continente vuoto perché tutto ciò che vi si incontrava venne sistematicamente svalutato sulla base dell’idea che faceva della cristianità europea l’unico mondo autenticamente valido. Quando la realtà insorse sotto gli occhi dei conquistadores essi la negarono e la distrussero. Tenochtitlán fu, da questo punto di vista, un simbolo. Frastornato dalla sua presenza, Cortés la distrusse implacabilmente e, quando incominciò a diffondersi la grande impressione destata dalle civiltà americane, Carlo V ordinò che non si facessero ricerche in proposito e non si cercasse di approfondirne la conoscenza. Il continente era nato vuoto e doveva rimanere completamente tale.
Prese forma così questa peculiare caratteristica della mentalità dei fondatori. Essi erano convinti di fondare sul nulla, su una natura sconosciuta, su una società distrutta, su una civiltà che si riteneva inesistente. La città era un ridotto europeo asserragliato dal nulla. Al suo interno dovevano essere gelosamente conservate le forme tipiche della vita sociale dei paesi d’origine, la cultura e la religione cristiana e, soprattutto, l’integrità dei progetti che spingevano gli Europei ad attraversare il mare. Questo atteggiamento si compendiò in un’idea: fondare sul nulla una nuova Europa.
Nuova Lusitania, Nuova Spagna, Nuova Toledo, Nuova Galizia, Nuova Granada, Nuova Castiglia furono nomi di regioni ispirati a questa tendenza, mentre la stessa logica è riscontrabile nei toponimi di città che si chiamarono Valladolid, Cordova, León, Medellín, La Rioja, Valenza, Cartagena, Trujillo, Cuenca; in altri casi si sovrappose il nome di un santo cristiano al nome originario di un villaggio indigeno: Santiago, San Sebastiano, San Paolo, Sant’Antonio, San Marcos, San Juan, San Felipe. Il conquistador contemplava melanconico il paesaggio ed era tutto contento quando, guardandosi attorno, riusciva a trovare un panorama dolce e tenue che gli ricordasse la sua terra natale, come si dice accadesse a Gonzalo Suárez Rendón ogni volta che si affacciava alla finestra della sua casa coloniale a Tunja. Il colonizzatore non cercava dunque soltanto di raggiungere quel prestigio che avrebbe desiderato in patria, ma anche di circondarsi di tutto ciò di cui conservava memoria: mobili, utensili, abiti, pitture ed immagini sacre. Questo atteggiamento corrispondeva a livello personale al più generale orientamento ufficiale. Il fondatore non imitava soltanto per suo gusto ciò che aveva lasciato nella terra d’origine. Era istruito, infatti, perché trapiantasse nelle nuove terre il sistema politico e amministrativo dell’Europa, le procedure burocratiche, lo stile architettonico, le forme della vita religiosa e le cerimonie civili, di modo che la nuova città potesse cominciare quanto prima a funzionare come se fosse una città europea, senza sapere nulla di ciò che la circondava e manifestando indifferenza per l’oscuro e subordinato mondo al quale si era sovrapposta.
Senza dubbio il trapianto della città europea su quei territori sconosciuti venne favorito dalla convinzione che su di essi, tanto dal punto di vista culturale, quanto dal punto di vista sociale, non vi fosse nulla, o, meglio, nulla di valido; partendo da questa convinzione il fondatore dedusse che tutto ciò che lui stabiliva e regolava era destinato a permanere nel tempo così come la sua volontà lo aveva concepito; egli non ammetteva né sospettava che il mondo circostante, cioè l’ambiente naturale e la società e la cultura indigene, potesse rivoltarsi alle sue creazioni o, comunque, avviare in esse un lento e nascosto processo di penetrazione di elementi sottomessi e ignorati dal mondo dei conquistatori.
È certo che la città non ebbe nel Brasile dei primi tempi tutta quell’importanza che fin dall’inizio le venne attribuita nell’America spagnola. Nella colonia portoghese la società agraria impose la propria visione della realtà e rimase dominante fino al rafforzamento delle borghesie e all’epoca delle intermediazioni finanziarie, vale a dire fino al XVIII secolo. Nell’America spagnola, come nel Brasile del XVIII secolo, fu la città ad elaborare, fin dal momento della sua fondazione, l’immagine che la realtà circostante avrebbe dovuto assumere e il modello operativo che avrebbe dovuto ispirare l’azione del gruppo fondatore. Da un certo punto di vista la città ottenne, sia in Brasile che in Ispanoamerica, un primo trionfo quando abbozzò la creazione di ciò che, in origine, era necessario creare: le aree di influenza delle varie città, le relazioni grazie alle quali si vennero costruendo le reti di collegamento tra le varie zone urbane e, in definitiva, la mappa del nuovo mondo, delle sue comunicazioni terrestri e marittime e di tutto ciò che non era mai esistito prima della conquista.
Il ciclo delle fondazioni coincide perfettamente con il disegno della nuova mappa del nuovo mondo, urbano e interconnesso come mai prima di allora. Ad esso si sovrappone anche il ciclo della prima ideologia formatasi in questo mondo urbano: quella che negava la realtà evidente di un mondo socio-culturale inequivocabilmente esistente, per dimostrare che era necessaria la creazione di un altro e nuovo universo, basato sul modello delle varie madrepatrie. Se però questa ideologia potè perdurare ed acquistare significato, ciò avvenne grazie alla sua capacità di introdurre nel modello varianti adeguate all’evolversi delle situazioni. Negli interstizi dell’impero cristiano andò formandosi lo schema di una società divisa in due, basata sull’opposizione tra conquistati e conquistatori e sulla mobilità di questi ultimi rispetto alle carriere economiche e sociali. La mentalità dei fondatori, adattandosi ad una nuova situazione, elaborò un sistema ideologico che, soltanto in apparenza, era confuso e contradditorio, poiché, di fatto, corrispondeva perfettamente alla nuova società feudo-borghese che si era costituita in quel mondo coloniale che, pur volendo creare una nuova Europa, era in realtà l’estrema e periferica frontiera di un’Europa vecchia.
3.
Le città nobiliari delle Indie
Attraverso l’atto di fondazione la città incominciava a vivere, mescolando i problemi quotidiani ai grandi progetti ideali. Era suo compito portare a termine una missione, ma, per farlo, era necessario che sopravvivesse ai nemici, alle epidemie e alle carestie. Come in ogni situazione critica, venne messo a dura prova il difficile nesso tra ideologia e realtà. Il gruppo fondatore talvolta aumentò i propri effettivi e talaltra li diminuì; lo spazio fisico cominciò ad essere occupato da una rudimentale edificazione che dava alla città una prima aria di concretezza; le necessità elementari incominciarono a trovare una sommaria metodica soddisfazione; il governo cominciò a funzionare; le aggressioni degli indigeni cominciarono ad essere controllate. Nel frattempo era necessario decidere che cosa fare della città, a quale scopo votarla.
Era facile riportare una planimetria dalla carta al terreno, ma non era altrettanto agevole convertire in politica un’ideologia. Ogni città era nata ispirandosi ad una teoria generale e ponendosi in relazione con alcune circostanze concrete. Il puro e semplice insediamento creava, però un mondo di nuovi problemi, sia pratici che ideologici; tali problemi venivano risolti, talvolta con piena coscienza e, talaltra, in modo intuitivo e spontaneo. Le decisioni erano condizionate da una molteplicità di fattori: le vaghe reminiscenze dell’obiettivo originario, le peculiarità della società urbana che, generazione dopo generazione andava costiuendosi e differenziandosi, moltiplicando di conseguenza le possibilità che erano state previste per il suo sviluppo; ciò che ebbe importanza decisiva fu, però, proprio il progressivo rivelarsi delle nuove e concrete potenzialità che la città e la regione offrivano; alcune di queste opportunità erano assai promettenti, ma, per essere colte, richiedevano una revisione dei programmi. In poco tempo le società urbane scoprirono di trovarsi di fronte ad un bivio tra il sistema delle rispettive metropoli, alquanto marginali e periferiche, e il più vasto sistema dell’Europa mercantilista che offriva l’ampio spettro delle sue tentazioni attraverso lo spioncino apertosi, nella ferrea concezione peninsulare di ciò che doveva essere un impero coloniale, grazie ai corsari, ai pirati ed ai contrabbandieri.
La loro apparizione, aggiungendosi al continuo pericolo delle insurrezioni indigene, contribuì a perpetuare l’originario carattere militare di alcune fondazioni. Nelle sue linee generali, la conquista era ormai assicurata, ma, su scala locale, il pericolo di una sollevazione indigena rimase latente in molte città e obbligò la loro popolazione a mantenersi sempre sul piede di guerra, anche quando la vittoria finale era ormai fuori discussione. Più grave si rivelò il problema dei corsari e dei pirati che, a volte, si dedicavano alla guerra da corsa sui mari, mentre, in altre occasioni, stavano in attesa di una buona opportunità che consentisse loro di abbordare e depredare i galeoni o di conquistare e saccheggiare le città. La città fortezza perfezionò così la propria organizzazione militare, insediò guarnigioni addestrate e permanenti e consolidò le proprie difese con importanti opere di ingegneria militare, che raggiunsero il loro massimo splendore nel corso del secolo XVIII, quando i morros e i castelli fortificati vennero collegati da poderose muraglie sorte a protezione della città civile. Neppure la città fortezza ebbe però questa esclusiva funzione; la vita urbana scopriva e creava nuove possibilità e persino gli ufficiali di carriera che avevano eroicamente militato sul fronte italiano o su quello delle Fiandre si lasciavano segretamente sedurre dalle lusinghe del commercio legale o, addirittura, del contrabbando, che praticavano celandosi tra la fitta rete di servitù e di clientele che la posizione di potere garantiva loro. Questo proliferare di attività finì per trasformare la città fortezza in una città qualsiasi.
Perlopiù capitò che la ben intrecciata organizzazione politica, ecclesiastica e amministrativa delle città sviluppasse per la vita urbana piani diversi da quelli originariamente concepiti. Il governo coloniale non poteva che essere lento, gravato com’era dalla lontananza delle metropoli e dal peso della forte concentrazione burocratica che le dominava, senza contare poi la complessità dei problemi che ogni angolo del mondo coloniale poneva ogni giorno al governo centrale. I funzionari esercitavano così una singolare forma di potere, dato che ogni loro azione era costantemente sorvegliata da altri funzionari, nessuno dei quali sapeva a chi realmente toccassero i favori della corona. Un’enorme quantità di scartoffie passava di mano in mano tra mille intrighi di corridoio, mentre altrettanti loschi figuri di ogni condizione gravitavano nell’orbita dei viceré, dei capitani generali, degli oidores (giudici membri dei consigli amministrativi, la Audiencia), dei vescovi e dei reggitori municipali. Questi giochi di potere finirono per differenziare le grandi capitali come Messico, Lima e Bahía, da tutte le altre città che rimasero più piccole e molto simili a villaggi: Bogotá, L’Avana, Santiago, San Paolo, Buenos Aires; queste, poi, erano, in quanto centri di potere, ancora diverse da tutte le altre che non si preoccupavano che dei propri problemi municipali e di quelli dei ricchi possidenti della regione. Le prime erano non soltanto centri di potere, ma fungevano anche da centri culturali, o, più precisamente, erano i centri in cui venivano elaborate idee che talvolta erano generiche ma in altri casi erano collegate agli sviluppi della cittadina. In queste città risiedevano i vescovi e gli arcivescovi, che si occupavano della catechesi; lì aveva la sua sede il tribunale dell’inquisizione, che vegliava sul mantenimento dell’ortodossia; lì c’erano i frati predicatori, che, amministrando i sacramenti, vigilavano sulla morale pubblica; lì c’erano i religiosi che reclamavano misericordia per gli indios e per gli schiavi di colore; lì c’erano i sapienti teologi e gli eruditi professori delle università e dei collegi dove venivano educati, rispettivamente i figli dei nobili spagnoli e quelli dei cacicchi. Tutte queste attività, svolte sommariamente nel corso del primo periodo, si erano sviluppate sia nelle piccole che nelle grandi capitali e mano a mano che il tempo passava, incominciarono, parzialmente, ad estendersi anche alle città di provincia.
Ciò che era cresciuto maggiormente era, però, il complesso delle attività economiche. Anche la città emporio, sede di porto e di mercato, diversificò le proprie attività e divenne, a seconda delle esigenze, piazzaforte militare, sede amministrativa e centro culturale. Diversamente però da quanto era accaduto nel caso della città fortezza, dove la funzione originaria era stata progressivamente marginalizzata dalle altre attività, la città emporio, con la parziale eccezione di pochi casi di declino, come quello di Santo Domingo, divenne, con l’andare del tempo, sempre più un emporio. Questa intensificazione della funzione commerciale determinò, nei primi secoli della colonia, la nascita di nuove città emporio, dato che divennero emporio molte città che in origine non lo erano. L’intero sistema di produzione, sia agro-pastorale che minerario, si organizzò e si sviluppò attorno alla città. Soprattutto si fecero più intense le attività di intermediazione, dato che dalla città finiva per passare, in un modo o nell’altro l’intera produzione del territorio. Aumentarono il volume e la concentrazione dei prodotti destinati all’esportazione e, parallelamente, prosperarono anche le attività portuali e le reti commerciali a cui questi processi davano origine, combinandosi con l’importazione di prodotti spagnoli e di contrabbando, che venivano poi distribuiti per mezzo di lunghi canali di smistamento. Anche il mercato interno ebbe un incremento, simboleggiato dalla crescita di un mercato permanente in ogni città: a Messico come a Cuzco a Recife come a Santiago; alcuni di questi mercati raccoglievano l’eredità degli antichi tianguis indigeni, ma, nonostante questo, non erano poi così diversi da quello che si vedeva nella piazza toledana di Zocodover. Sulla piazza del mercato, dove convergeva una vasta concentrazione di prodotti di consumo destinati alla città e al suo circondario, si incontravano, all’aria aperta e in un ambiente pittoresco, i produttori rurali e gli artigiani, cioè, i venditori e i compratori. Ciò che non veniva commerciato sulla piazza del mercato poteva essere acquistato nelle bancarelle che si ammucchiavano al centro della piazza stessa, tra la forca e la fontana, come accadeva a Lima con i cosiddetti «cajones de ribera» della piazza Maggiore, o, a Messico, con i «cajones de San José» e i banchetti del Pariàn; un po’ meno miserabili erano i negozi situati lungo la via dei mercanti e la via San Francisco.
Solide reti urbane assicuravano una distribuzione dei prodotti più o meno efficiente, a seconda del livello dei consumatori e delle reciproche necessità delle zone di scambio. Un’ulteriore differenziazione delle attività consentì lo sviluppo di una rete finanziaria controllata da prestatori ed usurai che agivano in parallelo alle grandi compagnie commerciali che, a causa del loro grande potere economico, erano portate a praticare il commercio all’ingrosso, ma che, tuttavia, non disdegnavano di intervenire sul mercato dei capitali ogni volta che ciò era consentito dalle loro operazioni di giro. Nacquero così, dal moltiplicarsi delle attività, i gruppi economici dai quali cominciava ormai a dipendere il destino della città.
Con il progressivo sviluppo dei vari settori le città incominciarono a perdere la fisionomia originaria e smisero di essere i monotoni villaggi dei primi tempi. Oltre a ciò, tuttavia, vennero adattate alle condizioni reali quelle funzioni che erano state fissate a priori al tempo delle fondazioni. Alcune restarono fedeli a quei fini, mentre altre li abbandonarono o li combinarono con altri, che, a volte, vanificarono i primi. Questo lungo processo di trasformazione si sviluppò in modo confuso e tortuoso tra l’epoca delle fondazioni e la seconda metà del secolo XVIII. Dato il mondo in cui si stabilirono, le città americane non potevano che essere borghesi e mercantili e col tempo finirono, appunto, per diventare tali. Anche se la forza del progetto originario le costrinse a restare per molto tempo escluse dal mondo dei commerci. Esse diventarono così, loro malgrado, città nobiliari, dato che i gruppi dominanti che vi si formarono vollero considerarsi nobili e tali, di fatto, si considerarono finché fu loro possibile, cercando in ogni modo di nascondere la propria disponibilità alle seduzioni della borghesia.
La formazione di una società barocca
Quelle che si costituirono nelle città delle Indie nel corso dei due secoli successivi alle fondazioni, furono società nuove, sostanzialmente diverse da quelle che popolavano le metropoli e caratterizzate dalla presenza di tratti peculiari, anche se non del tutto estranei agli schemi che dominavano la vita delle madrepatrie. A rigore, furono le uniche società vive, dato che quelle che si organizzarono nelle zone di produzione, rurali o minerarie, erano talmente rigide da avere scarse possibilità di adattamento all’interno del sistema, ragion per cui finirono, a poco a poco, per cercare il proprio equilibrio al di fuori di esso, cercando di far breccia in una situazione nella quale non trovava spazio che la dipendenza che i signori strumentalizzavano essendone al contempo strumenti.
I signori erano legati al mondo della città e della corte, anche se manifestavano una certa inclinazione a vivere nelle zone di produzione dove avevano fattorie e miniere. Era infatti la città, che essi concepivano come corte, a garantire la compattezza del gruppo, la continuità dei consumi e quell’esercizio della vita nobiliare che costituiva il marchio d’origine della loro memoria di emigranti, partiti da quel particolare mondo che era stato la penisola iberica del secolo XVI. Nelle città essi costruirono il più riccamente possibile i propri palazzi. Alcuni vi risiedevano per tutto l’anno, mentre altri vi trascorrevano i mesi lasciati liberi dalle esigenze dei propri possedimenti; tutti cercavano però, nei limiti dei propri mezzi, di circondarsi del massimo sfarzo possibile.
Nelle città i signori costituirono una società a parte, di fronte alla quale venivano a trovarsi tutti gli altri settori, nei quali predominavano gli appartenenti ai gruppi sottomessi, anche se ad essi finiva per mescolarsi qualche europeo o qualche creolo, emarginati dalla cattiva condotta o dalla poca fortuna. Verso la fine del XVI secolo il poeta andaluso Mateo Rosas de Oquendo così descriveva la società di Lima:
Un viceré con trenta alabardieri;
a peso misurati i letterati;
chierici ordinanti ed ordinati;
giramondo e cavalieri squattrinati.
Folle di giocatori e di strozzini;
mercanti con la puzza sotto il naso;
guardie esperte e ladri consumati;
cento osterie in tutti gli isolati.
Mille poeti senza ispirazione;
dame d’onore di facili costumi;
più d’un milione d’uccelli ed uccellini.
Rozzi coltivatori di cavoli e radici;
sole velato e razza mescolata;
così è Lima, ad una prima occhiata.
L’insieme fu probabilmente quello di una società barocca divisa tra privilegiati e non, tra gente che aveva un nobile stile di vita e gente che non ne aveva nessuno; una società insomma nella quale gli ultimi si trascinavano nell’inferiorità e nella miseria, mentre i primi ostentavano con arroganza la propria opulenta condizione. Tagliata fuori dal mondo la nobiltà coloniale poteva esibire senza ombre la propria superiorità. Cervantes de Salazar descrivendo, nel 1554, la grande sala della Real Audiencia di Città del Messico, scrive: «Poco più in là c’è uno steccato di legno che divide la sala, in modo che la gente umile e volgare non vada a sedersi insieme agli altri». Lo steccato era probabilmente inutile, dato che la voragine che separava i due gruppi dal punto di vista sociale non era facilmente superabile; tuttavia, per scongiurare questa eventualità, dopo la sommossa indigena del 1692, venne confermato a Città del Messico il progetto che intendeva mantenere separati i quartieri spagnoli da quelli abitati dagli indigeni. Si può davvero dire che, a differenza di quanto accadeva nelle città borghesi del mondo mercantile europeo, si formavano nelle Indie delle società radicalmente duali e prive di classe media; il processo sociale più intenso tra quelli che avrebbero travagliato nel profondo queste società fu, dunque, proprio l’inavvertito formarsi dei settori medi e borghesi, la cui presenza avrebbe determinato nel secolo XVIII una grande frattura. In questo periodo molti membri della nobiltà coloniale incominciarono a rinunciare alla propria concezione sociale tipica e, in molti casi, si trasformarono in borghesi, pur conservando qualcosa dell’antico orgoglio e delle vecchie convinzioni. Nei due secoli successivi alle fondazioni la nobiltà coloniale aveva però difeso con veemenza la propria condizione di privilegio e il proprio stile di vita. Tale atteggiamento fu una finzione, dato che la condizione nobiliare faceva parte di quella stessa ideologia del gruppo fondatore che le classi dirigenti della colonia avevano, di fatto, tradito cedendo alle esigenze imposte dal loro obiettivo primario che era la ricchezza e che rappresentava l’unica praticabile forma di carriera sociale. Questa finzione finì per dare alle società urbane un aspetto cortigiano che non aveva nulla a che vedere con la dura realtà di un mondo ormai borghese. Sarebbe bastato dare uno sguardo diretto e spregiudicato alla reale situazione per rendersi conto che la bella immagine che Cervantes de Salazar voleva dare di Città del Messico faticava a nascondere le contraddizioni di una società espiosiva, tenuta sotto controllo con la forza dalla struttura di potere formatasi con la conquista.
In questa società urbana spaccata in due la nobiltà coloniale riuscì a costruire una potente oligarchia al cui vertice sedevano, solitamente, come diceva José Agustín de Oviedo y Baños, parlando di Caracas nel 1723: «Alcuni titolati castigliani che servono per dare lustro e, insieme a loro, molti altri cavalieri di lignaggio, che servono a nobilitare l’insieme». Questa non riuscì però, nonostante gli sforzi, a rimanere una classe chiusa. La spericolata carriera con cui tutti attraversavano i domini della fortuna e del potere impedí il consolidamento dei gruppi fondatori, dato che molti dei loro membri, una volta ricevute le proprie spettanze, le investivano in altre e più promettenti avventure, abbandonando così il luogo del loro primo insediamento. Tuttavia, in molte città gli eredi e, soprattutto, le eredi di queste famiglie originarono lignaggi che ottennero una ratifica araldica per la propria prosapia. Erano molto pochi coloro che poterono vantare una illustre ascendenza in Spagna e in Portogallo e, nel caso, si trattava sempre di una nobiltà cadetta e legata a casati generalmente poveri; tutti i fondatori divennero però nobili delle colonie, e furono più orgogliosi dei loro modesti blasoni che delle loro ricchissime imprese. Da questi tronchi principali si svilupparono poi nuove diramazioni di nobili creoli che dovettero sopportare il disprezzo di chi, venendo dalla madrepatria, era portato a condividere le idee del cronista Pedro Marino de Lovera che credeva che la pestilenza che nel 1590 aveva spopolato il Cile fosse stata più clemente con coloro che erano nati in Spagna poiché, in base ad un pregiudizio, che a partire da allora fu molto diffuso, la razza aveva sperimentato in America un degrado delle proprie qualità. All’opinione di costoro si aggiungeva quella di tutti i nuovi arrivati che, con l’andare del tempo, erano sempre meno avventurieri e sempre più mercanti, forse perché a partire del secolo XVI la maggior parte dei coloni cominciò a provenire dalle città. Tutti costoro finirono in ogni caso per formare la nobiltà coloniale, vuoi ereditandola, vuoi ottenendola per decreto reale e utilizzandola, in genere, per consolidare la propria posizione, a fronte di un mondo enorme ed ignoto che, nonostante i ripetuti appelli alla carità cristiana, non aveva altra funzione che quella di obbedire e lavorare a vantaggio della élite. Tuttavia, quella che Filippo II concedeva «alle persone ed ai figli e discendenti legittimi di coloro che, impegnandosi a fondare un nucleo di popolamento, lo abbiano veramente fatto, portandone a termine la costruzione» non era che «hidalguia de Indias», riconosciuta e rispettata «in quella città e in qualsiasi altro luogo delle Indie», ma derisa e rabbiosamente oltraggiata in Spagna, dove Lope de Vega ritraeva «l’uomo delle Indie» con i caratteri del don Bela de La Dorotea.
A parte questo, i nobili delle Indie non erano neppure del tutto uguali tra loro, eccetto quando dovevano rivendicare la loro comune condizione; essi si dividevano, in realtà, nelle due classi dei ricchi e dei poveri. Ricchi erano tutti quelli che, avendo ottenuto una concessione mineraria, facevano parte delle aristocrazie di Guanajuato e Zacatecas, di Taxco e Potosí, di Popayán e Cali; i loro discendenti costruirono ricchi palazzi sia in queste città che a Messico e a Lima, dove molti decisero di stabilirsi. Altrettanto ricchi furono poi i signori dello zucchero di Pernambuco e di Bahía e, in generale, gli encomenderos che seppero razionalizzare lo sfruttamento delle piantagioni e gli allevatori che seppero far prosperare le proprie mandrie, stabilendosi poi a Caracas o a Bogotá. Ricchi diventarono anche coloro che si resero conto delle enormi prospettive del commercio, legale e illegale, grazie al quale era possibile moltiplicare i profitti con minore fatica che nel settore produttivo. Tutti costoro acquistarono la superbia tipica della loro condizione di plutocrati e la travestirono da superbia nobiliare. Di questo si avvide «l’ebreo portoghese» che fu autore di una testimonianza di inestimabile valore sulla società coloniale degli inizi del XVIII secolo, tanto barocca e spagnoleggiante da ricordare il mondo e le descrizioni di un romanzo picaresco. Dice il cronista: «Essi sono così superbi e baldanzosi che, a vederli, sembra che discendano da famiglie della grande nobiltà e che siano signori di stirpe. La loro follia è tale che colui che in Spagna non era che un povero ufficiale militare, passando dal polo artico all’antartico, incomincia a nutrire pretese e crede di poter aspirare, per la propria discendenza, ad una parentela con i più grandi signori del mondo».
A detta del medesimo cronista anche le donne erano presuntuose, dato che se appena «sono belle e godono di accettabile reputazione credono di essere più nobili di Cleopatra regina d’Egitto». Giunte dalla Spagna o discendenti dirette dei conquistadores, esse acquisirono tutta l’autorità che la loro condizione comportava in seno alla nuova società. Talvolta gestirono persino i patrimoni fondiari e la Quintrala fornì in Cile un’ottima prova della ferrea volontà con cui queste donne erano capaci di tutelare i loro diritti e le loro proprietà. Nelle città esse riuscirono a creare l’ambiente distinto che era caratteristico delle corti e dei centri urbani della Spagna, pullulanti di schiavi e di servi. Alcune di loro si lasciarono trasportare dall’incanto e dalle seduzioni amorose, quanto basta per fare della «dama velata» di Lima un archetipo della civetteria di corte; altre si lasciarono coinvolgere in tormentate vicende passionali, come quelle ricordate da Rodríguez Freyle ne El Carnero, dove si parla della vita sociale di Bogotá agli inizi del secolo XVI; famose furono anche le vicende passionali che ebbero come protagoniste, a Santiago del Cile, le donne della casa Lisperguer. Non mancarono casi in cui queste donne si dimostrarono decise a farsi carico di gravose responsabilità politiche, come fece la vedova del governatore di Bahía Jorge de Albuquerque o quella del governatore del Guatemala Pedro de Alvarado. Ciononostante la donna esercitò il suo specifico potere nell’ambito del palazzo nobiliare e il suo compito fondamentale fu quello di consolidare e perpetuare la nuova nobiltà della famiglia costituitasi nelle Indie. Si potrebbe forse dire che a fianco dell’avventuriero di sesso maschile, sempre pronto ad approfittare delle nuove possibilità per migliorare sempre più il proprio patrimonio e la propria condizione sociale, ci fu sempre una donna che rese stabili i nuclei familiari delle città e si dedicò a creare per essi una tradizione che, nel volgere di poco tempo, trasformò alcune linee di discendenza in lignaggi aristocratici. Una casa che potesse vantare alle proprie spalle tre generazioni note era considerata, in qualsiasi città latino-americana, un antico nucleo di cui non era lecito mettere in discussione la nobiltà.
I gruppi intellettuali che si formarono con maggiore o minor splendore in molte città fecero parte di questa nobiltà. Molte delle persone colte furono membri del clero. Appassionati di lettere e dediti allo studio, chierici e laici rivendicavano per sé la miglior tradizione dell’aristocrazia intellettuale. Era possibile vederli nei caffè e nei grandi ricevimenti dove la loro stella di poeti cortigiani poteva maggiormente brillare, eccetto che per coloro che fecero dello scrivere un’attività oscura. In ogni caso, il puro e semplice possesso di una solida cultura, palesato nelle opere, nelle conversazioni e nell’insegnamento costituiva una testimonianza di superiorità che confermava l’appartenenza alla casta nobile.
Tra i nobili di Lima «l’ebreo portoghese» identificò i «poveri spocchiosi», hidalgos se si interpretava alla lettera la cedola reale, ma, in realtà, miserabili e pieni di rancore per non essere riusciti a far fortuna o per averla dilapidata. Il nostro autore dice: «Ci sono anche dei poveri pieni di boria che non potendo mordere abbaiano e, sempre, camminano a testa bassa in cerca di bottino e non vogliono accettare la propria condizione e non c’è modo di far loro intender ragione. Tutti costoro vengon chiamati soldati, non già perché facciano parte di un esercito, ma perché, come i soldati se ne vanno tutto il tempo in giro con le carte in mano e non perdono occasione per fare una partita con tutti quelli che incontrano e se riescono a trovare qualche pollo o qualche chapeton che non sia in condizioni di competere con loro in astuzia con la carte truccate, lo pelano fino all’ultimo soldo e gli mangiano tutto il patrimonio e lo lasciano lì col sedere per terra, perché lo spogliano anche del cavallo. Questo tipo di gente è molto diffuso in Perù ed è quasi tutta gente che non ha simpatia per i ricchi e che non aspetta altro che sollevazioni, rivolgimenti e sommosse all’interno del regno per rubare e mettere le mani su tutti quei beni a cui non potrebbe mai arrivare se non per mezzo della guerra e delle discordie. E insomma gente che non vuol saperne di servire. Vanno sempre in giro ben vestiti, dato che hanno sempre una negra o un’indigena o persino una ricca spagnola che compra loro i vestiti e li mantiene, dato che costoro le proteggono di giorno e fanno loro compagnia di notte. I vecchi che, per via dell’età non hanno più la forza ed il brio necessari, accettano di servire da scudieri e accompagnano le signore in visita e alla messa. In Perù ci sono più vagabondi che mezzi e modi per dar loro da lavorare, e sono pochi i signori disposti a prenderli a servizio nelle loro case, siccome ogni giorno se ne sentono di nuove a proposito di costoro. Per questa ragione tutti si servono di negri e gli spagnoli sono costretti ad andare a spasso ed a campare la vita come gli riesce meglio ».
Miseria e nobiltà sovrapponendosi all’interno di un mondo effervescente in cui l’essere poveri era, di norma, patrimonio esclusivo delle classi inferiori, davano origine ad una forma particolarmente drammatica di picardia, che non poteva certamente risolversi con l’umile e disonorevole attitudine di chi andava in giro con le pezze sul sedere. Ambiziosi e violenti, i nobili senza fortune costituirono un permanente scandalo per le città che aspiravano a raggiungere un ordine civile. Per allontanare questi indesiderabili si cercò di spingerli a nuove imprese, come avvenne ad Asunción con i cosiddetti «mancebos de la tierra»; con questa denominazione venivano infatti indicati quei gruppi di creoli disperati che partirono verso il sud e parteciparono alla fondazione di Santa Fé e di Buenos Aires, mentre anche a Lima «ogni anno si recluta gente per il regno del Cile e molti vengono arruolati sotto quella bandiera per le guerre contro gli Araucani. Coloro che si arruolano ricevono, prima di lasciare Lima, duecento pesos per il proprio abbigliamento».
Sotto la massa degli hidalgos, ricchi o poveri, veri o finti che fossero, c’era un altro mondo, del quale facevano parte sia quei bianchi di origine europea che si dedicavano alle speculazioni finanziarie e al commercio al dettaglio, sia gli ebrei che erano un importante settore della popolazione di numerose città, come: Olinda, Salvador de Bahía, Recife, Lima, Asunción e Buenos Aires. Bianchi erano, di solito, anche alcuni artigiani, ma sia nel commercio che nell’artigianato incominciarono ben presto a fare la loro comparsa i meticci che facevano carriera grazie all’appoggio che la famiglia paterna garantiva loro, oltre che in virtù delle proprie capacità professionali e affaristiche. Sull’ultimo gradino, sotto a tutti, c’erano i gruppi dominati, gli indios, i negri e la maggior parte dei meticci e dei mulatti; costoro svolgevano nelle città ogni genere di attività incluse le lavorazioni artigianali a cui partecipavano come lavoratori dipendenti. I più fortunati fra costoro furono quelli che fecero parte della servitù dei palazzi nobiliari, non soltanto perché trassero benefici dal sistema patriarcale che regolava la vita dei grandi casati, ma soprattutto perché vennero a trovarsi in quella particolare situazione che il servo assunse in tutte le società barocche, assimilando, agli occhi dei suoi pari, alcuni dei tratti caratteristici del proprio padrone. I rimanenti, cioè la maggioranza, si trascinavano miseramente nei sobborghi e comparivano di rado nel centro della città, esibendo la propria povertà nei giorni di mercato o nei pressi delle fontane pubbliche, dove si ingegnavano di vendere qualcosa o di chiedere l’elemosina. Il disprezzo che la classe dominante provava per costoro, non aveva neppure bisogno di esprimersi concretamente.
Il quadro della stratificazione sociale risultò molto chiaramente quando vennero insediati a Lima i pubblici poteri. La Descripción dell’«ebreo portoghese», scritta intorno al 1625 dice: «In città ci sono otto capitani di fanteria. Ogni compagnia è composta da centocinquanta uomini. La cavalleria può contare su seicento effettivi; né questi né i primi sono soldati mercenari, dato che la città non è sede di presidio e non ha una guarnigione stabile, né un libro paga per il corpo di fanteria che, perciò, è composto da mercanti, calzolai, sarti ed altri lavoratori. La cavalleria è invece composta da mulattieri e chacareros, cioè contadini, cioè sovraintendenti delle fattorie, dei possedimenti rurali e di altre attività; costoro sono meno affidabili dei fanti. La città dispone al massimo di un centinaio di veri e propri cavalieri, definiti residenti perché, per la maggior parte, vivono delle rendite pagate dagli indios. I reggitori della città sono ventiquattro e fanno tutti parte del centinaio di cavalieri di cui si è detto, poiché tutti i reggitori sono cavalieri e, anzi, sono i più importanti tra essi, poiché monopolizzano il governo della città».
In questo modo le necessità della difesa finivano per favorire l’integrazione dei bianchi poveri al mondo dei nobili e dei ricchi. Generalmente, non mancarono le vie, più o meno manifeste, per mettere in collegamento questi due universi. I meticci costituirono invece l’elemento corrosivo che incrinò l’ordine formale della società barocca delle Indie e sarebbero diventati il gruppo che avrebbe minato la struttura duale della città urbana. Le due società, costrettevi dai propri limiti e dalle proprie possibilità, sembravano poter girare senza interferenze, ciascuna nella propria orbita. Si trattava però di un equilibrio instabile, contro cui congiurava il meticciato, sempre più rafforzato e favorito dalla possibilità delle carriere economiche, le cui fortune andarono accrescendosi mano a mano che le città approfondirono, contro il volere della madrepatria, il proprio rapporto con il mondo mercantile. Nel corso di questo stesso processo divenne autonoma una parte del gruppo creolo, cioè bianco; questo gruppo si rese conto che la struttura sociale elaborata dal sistema coloniale dei suoi due primi secoli era un anacronismo e che ormai era di grave ostacolo allo sviluppo del mondo americano. L’unione tra questi fattori accelerò, nella seconda metà del secolo XVIII, la crisi della società nobiliare.
I processi politici
Una società urbana così fondamentalmente instabile e fluida e così rigida e gerarchizzata nella forma non poteva che avere una vita complessa ed agitata, in cui il consenso sui problemi fondamentali non nascondeva il gioco sotterraneo degli individui e dei gruppi. Questo consenso di fondo assicurava la decisa azione del potere pubblico che era emanazione del potere metropolitano e che, quindi, non perdeva di vista i problemi fondamentali del sistema coloniale. La prima preoccupazione dei viceré, dei governatori e delle audiencias (tribunali permanenti che gestivano e controllavano l’amministrazione) fu la sicurezza. Non dovevano ripetersi i gravi fatti che avevano messo in pericolo l’esistenza di alcune città pressate dalla minaccia dell’insurrezione indigena: l’assedio e la distruzione del Cuzco nel 1536, l’assedio di Guadalajara nel 1540, la distruzione degli insediamenti cileni a sud del Bio-Bio nell’ultima parte del secolo XVI. Le città minacciate erano dominate dall’angoscia che questo pericolo determinava e quando si veniva a conoscenza di una cospirazione delle classi subalterne, come avvenne al Messico nel 1638 o a Lima nel 1750, non solo si provvedeva ad irrigidire le norme che impedivano agli indigeni, ai negri ed ai meticci di portare armi o di tenere riunioni sospette, ma anche si accentuava il rancore con cui dominanti e dominati si guardavano l’un l’altro. Persino la balia negra sembrava diffidente mentre allattava il bambino bianco. Anche quando l’insurrezione scoppiava nelle regioni del contado, l’ondata di paura arrivava fino alla città, dove, poco a poco, si era costituito attorno ai gruppi privilegiati un intero mondo di servitù, di incarichi e di mestieri di livello inferiore.
Ancor più forte fu l’influsso che le minacce dei pirati e dei corsari esercitarono sulla vita delle città. Le navi nemiche solcavano il mare in attesa dei galeóni spagnoli, anche se il bottino più desiderabile era costituito dal sacco di una città, dove si supponeva fossero accumulati enormi tesori e smisurate ricchezze.
Dopo che i francesi avevano preso Santiago di Cuba e L’Avana, Francis Drake si gettò, nel 1586, su Santo Domingo e Cartagena. Chiese ed ottenne centosettemila ducati d’oro per rinunciare alla distruzione di Cartagena, senza contare le somme che impose ad ogni singolo proprietario per non incendiargli la casa: grazie a questo evento si fece una sorta di inventario della città. Cartagena, nel corso della sua storia, fu presa d’assalto altre due volte, nel 1697 e nel 1741; nel frattempo erano state assediate ed occupate anche La Guayra, Veracruz e Portobello, mentre, nel 1762, L’Avana fu presa per la seconda volta. Quando, a partire dal 1616, divenne transitabile la rotta di Capo Horn, anche i porti del Pacifico conobbero la minaccia della guerra da corsa inglese ed olandese. Panama fu occupata, nel 1671, da Henry Morgan e dai filibustieri dell’isola di Tortuga che avevano attraversato l’istmo dopo aver occupato Portobello; la città, una delle migliori delle Indie, contava allora più di mille edifici, senza contare i conventi e le chiese; ciononostante venne distrutta e gli abitanti la abbandonarono per trasferirsi altrove. Alcuni anni prima gli Olandesi avevano occupato Olinda, Bahía e Recife, ed avevano tenuto stabilmente questa città per circa vent’anni.
La città che organizzava le proprie difese era, d’altro canto, anche un centro di espansione e di aggressione. Mentre aspettava, pronta, il nemico, organizzava nuove spedizioni destinate ad occupare il territorio circostante, le regioni che erano soggette alla sua influenza e le reti di comunicazione che avevano nella città il loro punto di convergenza. A partire da Santo Domingo venne occupata Cuba e, dalla prima città cubana, Barocca, incominciò l’occupazione del territorio sul quale vennero fondate tutte le altre città dell’isola; partendo da Santiago de Cuba, venne conquistata Messico e, partendo da Messico, Guatemala. La città costituì il centro operativo delle nuove espansioni; in essa veniva resa pubblica l’impresa, venivano reperiti i capitani, venivano reclutati i soldati e venivano concentrate le flotte. Ad El Tocuyo, Diego Losada lavorò, nel 1566, per organizzare la spedizione con la quale avrebbe risalito la valle del San Francisco e fondato Caracas, nel corso dell’anno seguente. Sia Almagro che Valdivia prepararono dal Cuzco le loro spedizioni in Cile. Garay predispose ad Asunción la spedizione con la quale avrebbe fondato Santa Fé e Buenos Aires. Da San Vicente partirono verso quella che sarebbe diventata San Paolo sia Joao Ramalho che padre Anchieta. Le città scoprivano il proprio circondario e tracciavano con precisione i confini della loro possibile area di influenza, sovrapponendoli alla sommaria mappa che aveva costituito il punto di riferimento dei primi stanziamenti. Nel corso di questo processo veniva rimescolata l’intera vita della città, si modificavano i nuclei originari del popolamento e si stabilivano collegamenti ed interdipendenze tra le varie città.
Nel frattempo, però, il potere cercava ogni giorno di costituire e irrobustire l’ordine all’interno della città. Cinque anni dopo la fondazione di Popayán, Benalcázar ritornò dalla Spagna con un carico di donne e Pedro de Alvarado fece lo stesso in Guatemala. L’intento era di costruire famiglie stabili che svolgessero una vita normale, con usi, costumi, problemi quotidiani e feste religiose simili a quelle che si svolgevano in qualsiasi città della Spagna; tutto ciò doveva cominciare ad accadere subito, mentre non erano ancora state costruite che poche case. I conquistadores fecero venire dalla Spagna esperti funzionari per mettere in movimento la neonata burocrazia, missionari per la cura delle anime e soprattutto, ogni genere di oggetto di utilità, dalle ferramenta ai mobili ed a tutte quelle cose che potevano servire per far muovere alla città i suoi primi passi. Si aveva fretta di farla funzionare come se fosse antica, di vederla vivere una vita propria. Il potere pubblico dava l’esempio, organizzando attorno a sé piccole corti che con i propri cenacoli ed i propri ricevimenti mondani fornivano un argomento di conversazione per la vita quotidiana. Queste corti, nei limiti delle loro possibilità, si adoperavano anche per nobilitare la città e far sì che essa si lasciasse alle spalle, quanto prima possibile, la condizione di villaggio o di semplice ideale.
La vita quotidiana della città era riempita dal monotono succedersi degli episodi che costituivano la vita privata, che si intrecciava alle feste pubbliche, agli spettacoli di tauromachia ed alle processioni religiose. All’improvviso questa monotonia era rotta da qualche clamoroso intrigo passionale o da qualche crimine di particolare crudeltà. Erano però gli avvenimenti pubblici quelli che maggiormente sconvolgevano i ritmi dell’esistenza quotidiana. A volte scoppiavano conflitti tra le autorità civili e quelle religiose; tali contrasti potevano portare a crisi di notevole gravità, come quella che, tra il 1612 e il 1622, mise sottosopra Città del Messico, con la scomunica del viceré, l’esilio dell’arcivescovo e la sua interdizione perpetua dalla città e lo scoppio di una rivolta popolare; famoso fu anche l’incidente avvenuto, nel 1683, a Cartagena, quando il vescovo impose alla città la cessatio, come aveva fatto, un secolo prima, a Bogotá, Juan de los Barrios, primo arcivescovo. In altri casi vi furono conflitti tra il viceré e la audiencia e, in altri ancora, i contrasti esplosero tra i vescovi e gli ordini religiosi. I conflitti giurisdizionali, originati talvolta da cause sociali, favorivano la formazione di frazioni che, talvolta, potevano arrivare allo scontro violento. Non di rado si scopriva che, col pretesto di appoggiare questo o quel funzionario, si schieravano forze il cui antagonismo, più antico ed altrimenti motivato, aveva le sue radici in questioni di interesse o, come avvenne nel Perù del secolo XVII, nell’ostilità regionale che divideva Baschi ed Andalusi.
Ciò che turbò più in profondità la vita delle comunità urbane fu, con i numerosi episodi a cui diede origine, la lotta per il potere e i privilegi. Dalla contestata situazione di Cortés nacque una grave tensione tra lui ed il viceré Mendoza; tale contrasto, pur non esplodendo allora, fu all’origine, a partire dal 1565, della cosiddetta congiura dei figli di Cortés. Era solo un episodio particolare dell’inevitabile scontro tra i conquistadores, divenuti titolari di commende e di concessioni minerarie, e il potere politico, intenzionato ad instaurare un sistema di diritto pubblico. La più grave espressione di questo conflitto, avvenuta a Granada in Nicaragua, fu la sollevazione dei contreras che, nel 1549, presero Panama; le guerre civili raggiunsero proporzioni ancora maggiori in Perù, dove i primi contrasti avevano avuto luogo tra Pizarro e Almagro, che voleva crearsi un potere personale nella zona del Cuzco; successivamente il figlio di Almagro si scontrò con il rappresentante della corona Vaca de Castro e, per finire, gli encomenderos, guidati da Gonzalo Pizarro, provocarono disordini a Lima e nel Cuzco, costituendovi un potere praticamente ribelle all’autorità spagnola. Sottomessi, ci riprovarono, nel 1552, con Hernández Girón, sempre al Cuzco, ma vennero poco a poco ridotti all’obbedienza nel corso di un lungo braccio di ferro tra i poteri derivanti dal diritto di conquista e quelli legati alle dominanti prerogative della sovranità.
Analoghi conflitti agitarono, a partire dal 1541, la città di Asunción dove si scontrarono il governatore Irala e il famoso adelantado Álvar Nuñez. I colonizzatori avevano trasformato in città quella che fino ad allora era stata una semplice piazzaforte, sfidando la politica indigenista delle Nuevas Leyes. La maggioranza dei residenti finì tuttavia per sostenere Irala che, alla fine, ottenne la ratifica regia del suo incarico di governatore.
Altrettanto ribelle di Asunción, fu, nella prima fase della sua storia, la città di Santa Fé da poco fondata in Argentina, dove vi fu, nel 1580, il sollevamento dei «sette capi», legato agli interessi della società creola. In numerose città il sonnolento ritmo della vita paesana venne movimentato dalla minaccia del «tiranno» Lope de Aguirre sollevatosi, nel 1564, contro le autorità spagnole in Venezuela, dopo che, già nel 1560, si era ribellato nella Nuova Granada Álvaro de Oyón, che aveva attaccato la città di Popayán.
Per altri motivi sorsero poi contrasti tra gruppi economici contrapposti. I latifondisti di Olinda, che non avevano esitato a deporre, nel 1666, il governatore Mendonça Furtado, si scontrarono nel 1710 con i mercanti di Recife, nella cosiddetta «guerra dei mascates»; gli interessi locali crearono ostilità verso le compagnie monopolistiche sia a Rio de Janeiro, dove Jerónimo Barbalho si ribellò alla Compagnia Generale di Commercio del Brasile, nel 1660, sia a Caracas, dove, nel 1749, il capitano Juan Francisco León insorse contro la Compagnia Guipuzcoana che controllava il commercio del cacao.
Nonostante il loro apparente provincialismo, evidente anche nei maggiori centri, le città latinoamericane erano agitate da grandi problemi politici ed economici, dietro ciascuno dei quali era possibile intravvedere non soltanto un conflitto circostanziale, ma anche il più generale disegno a cui ogni gruppo faceva riferimento per il futuro.
Nobiltà e stile di vita (“Hidalguía)
Sollecitate da diversi stimoli, le società urbane nei primi due secoli successivi alle fondazioni furono caratterizzate dalla preminenza dei gruppi nobiliari. Questi imposero alle città la propria concezione della vita e riuscirono a cancellare ogni segno di influenza che gli altri gruppi cercarono di imporre con la forza.
Le città nobiliari delle Indie furono il prodotto di un progetto concepito dalle classi dominanti e mirante ad affermare in modo esplicito un ordine sociale in aperta contraddizione con la situazione economica che, nonostante fosse negata con grande vigore, era tuttavia costantemente presente come tentazione di fondo.
Nella madrepatria, come in tutto il resto dell’Europa, le città avevano costruito le loro fortune grazie allo sviluppo mercantile ed alla formazione delle nascenti borghesie; soltanto un processo sociale atipico aveva potuto determinare in alcune di esse un’estrema differenziazione tra le classi e una conseguente assimilazione alla nobiltà dei più alti settori borghesi. In questo modo erano nate, in alcune regioni della Spagna e del Portogallo più che altrove, le città barocche, caratterizzate da un grado di popolarizzazione sconosciuto da altre regioni dell’Europa e tale da ridurre considerevolmente le prospettive di soluzione dei problemi creati dall’espandersi del gruppo mercantile. Nelle Indie, invece, la conquista disegnò un panorama sociale che anticipava già quella che sarebbe stata la situazione tipica delle classi privilegiate. Quello che in Europa era un settore reso marginale dagli sviluppi della vita socio-economica trovò in America il proprio doppio in un settore reso subalterno ed emarginato in un sol colpo dalla conquista. I colonizzatori vennero di fatto a trovarsi, all’improvviso, in una situazione di privilegio che il patriziato delle città europee aveva dovuto conquistare con fatica, mediante un lungo processo di cooptazione nobiliare feudo-borghese. Fin dal principio la conquista fondò nelle Indie, per analogia con l’impostazione ideologica che traduceva ed identificava in modo automatico il significato delle varie componenti sociali, società urbane simili a quelle metropolitane del tempo, ignorando la prima fase del processo di sviluppo urbano e rinunciando così alla lenta costituzione del mondo mercantile e della nascente mentalità borghese che proprio in questo lungo apprendistato avrebbe potuto e dovuto trovare i necessari stimoli. Il mondo mercantile prosperava, ma le città nobiliari delle Indie, sull’esempio della Spagna, facevano finta di ignorarlo. Nonostante dietro questa ipocrisia ci fosse una certa tendenza a godere, voracemente, delle prospettive offerte dalle nuove attività, il progetto di mantenere in piedi l’antica struttura dei privilegi continuava a dominare la mente dei gruppi nobiliari. Si instaurò così nella città spagnole e portoghesi delle Indie una società barocca, speculare a quelle della Spagna e del Portogallo, diversa da queste solo perché le classi non privilegiate avevano un colorito bronzeo.
Le città delle Indie non ci misero molto a differenziarsi tra loro. Le capitali delle grandi unità amministrative, come Messico, Lima e Bahía, si distinsero, per grandezza ed importanza, dalle capitali minori: Guatemala, Bogotá, Santiago, Caracas, L’Avana, Buenos Aires, Santo Domingo, Olinda, Rio de Janeiro.
Il numero degli abitanti, la superficie edificata, il livello di vita, le attività economiche e lo sviluppo culturale erano considerevolmente disomogenei. La differenza era ancor più notevole rispetto ai centri municipali, veri e propri villaggi dalla vita statica e monotona, dominati dalla logica del monopolio.
Tuttavia, persino tra i centri che conservarono ed incrementarono la vocazione originaria si produsse una certa differenziazione sia quantitativa che qualitativa: mentre alcune città mantennero una più spiccata identità nobiliare, altre cominciarono presto ad assumere un’immagine più commerciale. Al primo gruppo appartennero anzittutto le sedi delle corti vicereali, del governo e delle audiencias, ma, anche, tutti quei centri nei quali i latifondisti ed i magnati dell’industria estrattiva si erano affrettati a consolidare la propria ricchezza assumendo uno stile di vita conforme alla tradizione nobiliare che consentiva loro di ostentare le proprie fortune e di accentuare la separazione tra le classi. Del secondo gruppo fecero parte soprattutto i centri marittimi e quelle città minerarie che, come Potosí, furono coinvolte in un processo di accelerato sviluppo economico legato allo spirito di avventura. Le une e le altre diedero origine a forme di vita assai tipiche ed a modelli sociali che implicavano atteggiamenti mentali tra loro molto diversi e che, di conseguenza, coinvolsero l’intera città, pur appartenendo in origine alle sue sole classi dirigenti. Questi modelli risultarono validi anche per altri centri, nei quali i nobili incominciarono a disprezzare i mercanti che, a loro volta, provavano per essi un misto di disprezzo e di invidia.
Le città a carattere prevalentemente nobiliare, quelle cioè in cui l’impronta fondamentale fu data alla vita urbana da classi superiori che si fecero forti della propria condizione nobiliare, furono soprattuto legate alle corti che si costituirono attorno alle sedi del potere. Il viceré Diego Colombo, marito di donna
Maria de Toledo, si circondò di una piccola corte aristocratica di cui fecero parte anche gli orgogliosi encomenderos che fra’Antón de Montesinos fustigò pubblicamente nel 1510; il vescovo Alessandro Geraldini elogiò, nel suo latino umanistico, l’inclita e signorile città nella quale il viceré aveva fatto costruire il proprio castello. Il potere vicereale di Messico amò avere corti come proprio ornamento fin dall’epoca di Antonio de Mendoza e del principe di Squillace; il governatore Jorge de Albuquerque Coelho creò attorno a sé una piccola corte ad Olinda. Gruppi di ricchi signori, di dame amanti della poesia, di prelati, di giuristi e di funzionari si impegnavano ad ostentare in pubblico uno stile di vita simile a quello delle corti peninsulari; erano spinti a questo dal desiderio di consolidare la propria posizione sociale e dall’illusione di condurre una autentica vita nobile nel dorato esilio della colonia.
La vita nobile rappresentò quasi un’ossessione per gli altri settori della nobiltà coloniale e per coloro che aspiravano a farne parte. Si trattava, anzittutto, di sdegnare le professioni meccaniche e di mantenere separati i cavalieri dai lavoratori, come raccomandava il giurista Juan Matienzo. Per far questo era necessario organizzare un complesso sistema che consentisse ai privilegiati di praticare questo sistema di vita e a tutti gli altri di contemplare lo spettacolo offerto dalla superiorità di una minoranza. Questa minoranza era composta dalle grandi famiglie che abitavano nelle più famose strade di Messico e di cui ci parla Cervantes de Salazar: i Mendoza, gli Zúñiga, gli Altamirano, gli Estrada e gli altri. I membri di queste élites competevano a fil di spada per le cariche municipali più importanti, come accadde a Santiago del Cile nel giorno di San Quintino nel 1604, quando parenti ed amici dei Lisperguer si scontrarono con i Mendoza. Orgogliose dei propri antenati e gelose del proprio predominio, le grandi famiglie ostentavano blasoni e compilavano alberi genealogici, ma, soprattutto, erano unite da un sentimento di classe ben più forte di qualsiasi divisione e, quindi, serravano i propri ranghi ogni volta che era loro possibile. Esistevano confraternite civili e religiose, feste, cerimonie e occasioni che raccoglievano questa alta società, consentendole di riconoscersi e di evidenziare come solo coloro che ne erano membri potevano occupare in pubblico posti d’onore.
Bernardo de Balbuena tesse, parlando di Messico, un elogio di questo stile di vita:
Taccio la superba gagliardia,
taccio la generosità, i beni e la grandezza,
il valore che trovo nei costumi.
La nobiltà ed il cortese stile,
la bella grazia e il tratto signorile
senz’ombra di miseria e tirchieria;
d’argenti, perle, ori e seta fine
quel prodigo donar senza timore
di chi non deve mai badare a spese;
se questo stile vive ancor tra i vivi
è questo il suol gentile che lo nutre
e n’educa la forza e lo splendore.
La prodigalità era il segno tipico di questo desiderio di ostentazione e di lusso che animava la nobiltà coloniale. Padre Cardim se ne rendeva conto, alla fine del XVI secolo, ad Olinda, dove la corte di Jorge de Albuquerque Coelho era così splendida che vi si poteva trovare «più vanità che a Lisbona». Lo stesso Cardim aggiunge: «Gli uomini erano vestiti di velluti, damascati e sete e spendevano follemente per cavalli di pregio, con selle e finimenti lavorati con le medesime stoffe dei vestiti. Anche le dame ostentavano lusso e si compiacevano più delle feste mondane che delle devozioni religiose». A Messico, fra’Tomás Gage faceva osservazioni analoghe intorno al 1625: «Si diceva che il numero degli abitanti spagnoli arrivasse a quarantamila, tutti così ricchi e pieni di sé che più della metà aveva una carrozza, di modo che si poteva tenere per certo che vi fossero in città in questo periodo più di quindicimila carrozze. Nel paese si dice spesso che quattro siano le cose belle del Messico: le donne, i vestiti, i cavalli e le strade. Si potrebbe di certo aggiungerne una quinta, cioè i costumi della nobiltà, che sono assai più splendidi e costosi di quelli della corte madrilena e di tutte le altre d’Europa, dato che, pur di renderli più ricchi, non si risparmiano né oro, né argento, né pietre preziose, né broccati dorati, né raffinatissime sete della Cina». A proposito di Lima, da dove padre Cobo scriveva della «vanità degli abiti pieni di gala e di pompa persino nelle livree dei servi», più o meno negli stessi anni la
Crónica del solito «ebreo portoghese» diceva che le donne « hanno portantine a spalla e schiavi negri che le portavano in visita e a messa; oltre a ciò hanno anche ottime carrozze e muli e cavalli per tirarle e cocchieri negri per guidarle. In conclusione, i nobili di Lima godono di un paradiso in terra, dato che Lima gode anche di un ottimo clima e quindi si sa già che tempo farà domani. Se le donne sono belle e leggiadre, gli uomini sono galanti e coraggiosi. Tutti sono generalmente ben vestiti con seta e panni fini di Segovia e colletti arricchiti da costosi ricami di Fiandra. Tutti indossano copricalze di seta e sono cortesi, affabili e ben educati. Rispettano molto le leggi dell’etichetta. Sono prodighi nello spendere e spendono senza controllo. Vantano tutti grande nobiltà e non ce n’è uno che non si ritenga un gran cavaliere e, eccetto alcuni che sono molto poveri, vanno tutti in giro a cavallo».
Questo desiderio di lusso e di ostentazione era percepibile in tutto: nelle grandi case che aspiravano ad essere palazzi, nei mobili e nelle suppellettili che provenivano dalla penisola, nelle pitture che ornavano le cappelle private e persino i tetti e i muri delle case, le sculture lignee, i libri e i gioielli. Tuttavia, non erano importanti solo gli oggetti, ma era anche necessario che fossero usati in modo elegante, secondo i costumi della gente di altissimo rango. I signori erano molto generosi e si compiacevano di circondarsi di quella clientela a mezzo servizio che è parte di ogni seguito nobiliare. Ne facevano parte coloro che li accompagnavano nelle loro battute di caccia come, per esempio, il gruppo che circondava, nel 1590, l’arcivescovo di Bogotá fra’Luis Zapata de Cárdenas, quando questi trovò la morte durante una caccia, «accompagnato – come ricorda Rodríguez Freyle – dai suoi servi, dai suoi parenti, da alcuni chierici e da un po’ di gente del secolo»; del seguito facevano parte anche coloro che facevano da padrini ai signori nei loro duelli, coloro che ascoltavano la lettura dei loro cimenti poetici, coloro che facevano da intermediari nelle avventure galanti, coloro che li accompagnavano nei divertimenti notturni, insieme a negre peccaminose e ad abbondanti boccali di vino. Questo seguito rivelava l’appartenenza alla casta nobile di quelli che facevano dell’ozio aristocratico e sensuale la condizione per eccellenza della vita signorile.
Nelle feste e nei ricevimenti la classe nobiliare era perfettamente a suo agio. Era in queste occasioni che gli eletti si incontravano per esercitare le sottili arti della cortesia e dell’etichetta, per civettare e per parlare di poesia, nonché per praticare il canto e la danza in un ambiente raffinato ed elegante. L’unico grande rincrescimento era che lo sfondo di così aristocratiche aspirazioni non fosse all’altezza: se, infatti, i palazzi erano confortevoli e finemente ammobiliati, le strade erano però quasi tutte di terra, mal illuminate e dotate di canali di scolo insufficienti. Tuttavia, nel XVII secolo, sia Lima che Messico ebbero il loro passeggio aristocratico, un lungo viale alberato dove il bel mondo si dava appuntamento. Bachelier, parlando della passaggiata della Lima degli inizi del XVII secolo, scrive: «La locazione del passeggio era incantevole; un bel corso così grande che lo si perde di vista, con quattro file di alberi d’arancio e di limone, molto belli, e con due canali per le acque bianche ai margini della carreggiata e sullo sfondo, in prospettiva, la facciata di uno dei più bei conventi, con un colpo d’occhio che incantava i forestieri. Le carrozze ed i barrocci vanno su e giù a centinaia ogni sera ed è questo il rendez-vous di tutta la gente bene della città. Gli amanti corteggiano le loro dame e si compiacciono di seguirle a piedi, appoggiati ai predellini delle loro carrozze». Parlando, nel 1648, del passeggio di Città del Messico, fra’Tomás Gage diceva: «I signori della città vanno ogni giorno a divertirsi verso le quattro del pomeriggio, alcuni a cavallo ed altri in carrozza, in un delizioso viale alberato detto Alameda, dove ci sono talmente tante file d’alberi che non vi penetrano i raggi del sole. Vi si vedono, normalmente, circa duemila carrozze piene di nobili, di dame e di ricchi borghesi. I nobili vi si recano per incontrare le dame, facendosi accompagnare, talvolta, da una dozzina di schiavi africani e, talaltra, con un seguito più modesto, ma sempre vestito con livree molto costose e riccamente ornate, con fiori, acconciature, copricapi di seta, argento e oro e sopracalze di seta e scarpe fini, con le fibbie ornate di rose e con al fianco l’immancabile spadino. Il seguito del viceré, che a volte va a passeggio nell’Alameda, non ha nulla da invidiare, per fasto e splendore, a quello del re di Spagna, suo signore». La gaia vita dei nobili doveva produrre nell’animo degli osservatori una tale impressione che Bernardo de Balbuena impiegò ben nove terzine della sua Grandeza Mexicana solo per enumerare le molteplici forme del fenomeno:
fini divertimenti e passatempi,
mille tipi di feste e di regali
per ingannare il tempo ed ingannarsi
discorsi, giochi e burle a volontà,
conviti ed infinite voluttà, cacce,
giardini, boschi e bei festini
grand’apparati di gusto sopraffino,
ricevimenti, incontri, piacevoli concerti,
musiche, inviti, passatempi,
divertimenti e sprechi a tutt’andare,
passeggiate, civetterie, splendori,
amicizie di grande gusto e stile;
ornamenti, livree, fibbie, cammei,
finimenti, broccati, tele e sete,
brame fuggenti, paghi desideri;
filigrane, pizzi, orli dorati,
gioie, portagioie e pietre dure,
argenti, ori, perle e ricamati
nuove commedie e feste ogni momento
per un diletto vario e raffinato,
pieno di gusto e ricco d’allegria;
nuovi usi, capricci di signori,
per cruccio e rodimento dei mariti,
invaghiti di donne e di chimere;
ricchi mantelli e stoffe colorate,
cocchi, carrozze, barrocci e portantine
per i signori e per le autorità.
Minuzioso breviario della nobiltà barocca, la Grandeza Mexicana ci svela alcuni dei segreti meccanismi di quella concezione frivola della vita. Non tutto era però dominato da questa logica. I nobili vivevano anche un’altra vita meno facile e meno sterile. Talvolta erano funzionari di rango e dovevano attendere a complesse responsabilità ed a gravi compiti di amministrazione, generalmente ripetitivi, ma, talvolta, di inusitata complicanza e, quindi, tali da esigere la loro totale dedizione, quando non, addirittura, il loro sacrificio; altri erano uomini d’arme e dovevano farsi carico di difendere la città minacciata dai corsari, dai pirati, o dalle rivolte indigene. Quando veniva il momento di svolgere questi compiti la concezione frivola della vita doveva venir meno, anche se continuava a restare presente come aspirazione generale, dato che la vita oziosa e spettacolare era considerata l’unica che fosse davvero degna di un nobile.
Il godimento estetico e le gioie dell’attività speculativa facevano parte delle prerogative nobiliari. Al pari di suor Juana, chiusa nel suo convento messicano, molte donne si erano dedicate alla versificazione, come, ad esempio, nell’antica Santo Domingo, donna Leonor de Ovando. La vita dei conventi condivideva i costumi delle classi alte e, all’interno degli ordini religiosi, si coltivavano gli studi e le lettere, senza che, peraltro, queste attività fossero precluse a chierici secolari di talento come Bernardo de Balbuena, Juan de Castellanos e Francisco Cervantes de Salazar. Non mancarono circoli di corte che si dedicassero alla poesia e al teatro: in Messico vissero, oltre a molti autori meno noti, Gutierre de Cetina, Mateo Alemán, Juan de la Cueva e Francisco de Terrazas e un certame poetico bandito nel 1585 ebbe oltre trecento partecipanti; ad Olinda, Benito Teixeira Pinto compose la sua Prosopopéia in onore del governatore Albuquerque Coelho; a Lima vi furono viceré appassionati di lettere come Montesclaros, Squillaci e Castell dos Rius che riunirono attorno a sé poeti come Juan de Miramontes y Zuázola ed umanisti come Pedro de Peralta Barnuevo. Il teatro, inaugurato a Messico nel 1597 ed a Lima nel 1602, fu, al tempo stesso, centro di letteratura e di mondanità. Anche la satira trovò tra i nobili tutti i suoi esponenti; ne sono esempio il malevolo racconto di Rodríguez Freyle, che raccolse i pettegolezzi dell’ambiente di Bogotá, le insinuazioni di Juan del Valle y Caviedes, che punzecchiò gli uomini e le donne di Lima, e i toni, ben più spigolosi, che Gregorio de Mattos usò per criticare la società brasiliana, dove « a fidalguia no hom sangue nunca està » (la nobiltà non ha nulla a che vedere con il buon sangue). Persino le università – da quella di Santo Domingo, che fu la prima, a quelle di Messico e di Lima, sorte nel 1551, a quelle fondate, in un secondo tempo, a Quito, a Bogotá, a Cordova e altrove – mantennero quella caratteristica aria aristocratica che Cervantes de Salazar esalta descrivendo l’ateneo messicano e che traspare dall’architettura stessa del Collegio del Rosario a Bogotá.
Sedi delle amministrazioni vicereali, dei governatori e dei supremi tribunali di amministrazione, i centri del potere, grandi e piccoli, videro fiorire questa classe che si consolidò, in gran parte, appoggiandosi all’autorità di coloro che rappresentavano la potenza della razza conquistatrice. Il modello nobiliare di vita fu, tuttavia, dominante anche in altri centri. La ricchezza costituì sempre il fattore decisivo, anche se nei due primi secoli seguenti alla fondazione delle città l’accesso alla classe dirigente non fu correlato a tutte le forme di ricchezza. Era infatti necessario che le fonti della prosperità non fossero troppo in vista e che essa provenisse ai suoi titolari attraverso il profondo abisso che separava gli encomenderos dagli encomendados ed i titolari delle licenze minerarie dai loro filoni estrattivi. Era, insomma, necessario che la ricchezza risalisse la scala gerarchica che sosteneva l’illusione che quella ricchezza fosse una ricchezza antica, simile a quella dei signori della metropoli e, quindi, talmente consolidata e naturale che il beneficiario non doveva far altro che riceverla e goderla senza mettere mano alle impure operazioni che erano necessarie per ottenerla. Questa illusione era tipica della società nobile, ma era così profondamente sentita che veniva presentata come realtà a tutti coloro che facevano da spettatori e che circolava, mascherata, attraverso tutto il sistema convenzionale che creava e manteneva la distanza tra dominatori e subalterni, mettendo in evidenza come la superiorità dei primi fosse congenita e non acquisita. Per via di questi meccanismi molte città assunsero un aspetto nobiliare: Puebla, Guanajuato, Taxco, San Luis de Potosí, Morelia, Popayán, Tunja, Arequipa, Olinda e Trujillo del Perù. Bastarono poche generazioni di questa autocelebrazione per purificare completamente il sangue degli antenati.
Di fronte al potere sociale ed economico della classe che ereditava insieme ai privilegi della conquista anche tutte le fonti della ricchezza, la posizione di tutti i restanti settori era di terrificante inferiorità. Ne erano vittime persino i bianchi che si dedicavano all’artigianato ed al commercio. Ne soffrivano, però, soprattutto i vasti settori della popolazione non bianca, gli indios, i negri ed i meticci, sui quali gravavano il disprezzo ed i sospetti della classe dominante. Costoro, che si occupavano dei compiti e delle incombenze più umili, avevano un orizzonte angusto e composto da scarsissime possibilità. Nei quartieri in cui vivevano essi creavano ristrette comunità attorno alle loro chiese e talvolta alle loro confraternite religiose e professionali, mostrandosi sempre riuniti in gruppi o in caste, in occasione delle loro feste. Era tuttavia possibile vederli anche in altri luoghi della città, lungo le strade dove svolgevano le loro attività, o al mercato, dove erano soliti concentrarsi e dove si può dire che fosse il loro regno. Nelle feste pubbliche, dove i signori ostentavano la propria grandezza, il popolino recitava la parte del coro, applaudendo lo spettacolo di magnificenza che i ricchi offrivano.
Nei quartieri etnici il livello di vita era generalmente basso, ma le città, specialmente quelle grandi, offrivano spiragli attraverso i quali le classi subalterne potevano sottrarsi al proprio destino ed ottenere una miglior sorte. Ciò avveniva, in genere, con l’astuzia e, proprio come nella penisola, questo sforzo trasformava in picaros coloro che lo facevano; nacque così, come risposta obbligatoria alle condizioni imposte dalla società dei nobili, una picardia indiana.
Si accalcarono in prossimità di questa via d’uscita, vari gruppi che ci arrivavano per diverse strade. Le donne di colore, sensuali e spudorate, si aprirono una via che le avvicinava al mondo dei nobili dal quale ricavarono profitto non solo pe sé, ma anche per tutti coloro che godettero dei loro favori e della loro protezione. Vestendosi in modo volutamente provocante, esse davano alla città un’aria eccitante e pittoresca che divenne caratteristica non solo dei quartieri dove vivevano, ma anche di quelli frequentati dai nobili dove queste donne svolgevano diversi compiti e servizi. Pagando una certa quantità di denaro ai loro padroni, gli schiavi di colore, potevano acquisire il diritto di esercitare per proprio conto un mestiere o un’attività commerciale. Se i guadagni erano sufficienti a pagare la malleveria era possibile che un loro successivo incremento consentisse al liberto di raggiungere una posizione relativamente buona. Possibilità simili erano di solito anche alla portata dei meticci e dei mulatti, specialmente se godevano dell’appoggio dei loro genitori bianchi. Data la loro condizione, erano considerati intermediari ideali tra i padroni bianchi ed i servi indigeni e di colore. Svolgendo incarichi di caporalato e di gestione costoro avevano non solo la possibilità di guadagnare denaro, ma anche quella di avvicinare le classi privilegiate e di stabilire con esse una sorta di complicità a danno dei gruppi inferiori. Questo non esauriva tuttavia il panorama delle loro possibilità. Le molteplici opportunità non sfruttate che caratterizzavano la vita economica della colonia, lasciavano aperta per i più audaci tra costoro una carriera assai appetibile specialmente per chi non poteva far altro che votarsi a soluzioni eroiche se voleva modificare la propria condizione. Meticci e mezzosangue erano infatti i contrabbandieri di schiavi della regione di San Paolo, i quali, se le loro imprese avevano successo, potevano ritornare molto ricchi e raggiungere in città la rispettabile posizione che a San Paolo fu effettivamente raggiunta da Alfonso Sardinha detto el Mozo.
L’attività economica fu, a guardar bene, il vero motore della vita urbana anche nelle città più marcatamente nobiliari; furono le esigenze dell’economia a regolare e controllare lo sviluppo dei centri urbani, rivelandosi, alla lunga, quasi dappertutto, più forti della rigida struttura formale della società barocca. I nobili poterono forse credere che la società urbana duale fosse immutabile, dato che si basavano sull’assoluta certezza dei loro pregiudizi e sugli stereotipi di una diffusa mentalità, ma le attività economiche creavano sempre maggiori zone di contatto, nelle quali il denaro rendeva facile l’avvicinamento tra settori sociali diversi, nel corso delle operazioni che rendevano superflua la distinzione tra ricco e povero, hidalgo influente nella gerarchia amministrativa e meticcio o negro che conosceva tutti i segreti della vita urbana. Di certo questa attrazione che richiamava alla realtà una società che avrebbe voluto mantenersi sempre uguale a se stessa, perpetuando un ordine fittizio, agiva in modo più percepibile in quelle città che fin dall’inizio furono prevalentemente orientate al commercio.
In città, il mercato era, di fatto, il nucleo fondamentale della vita, il luogo in cui la ricchezza si concentrava e circolava, l’indicatore più fedele della prosperità cittadina. López de Velazco lo usò per spiegare il progressivo crollo demografico di Santo Domingo e Santiago di Cuba. Le due città, secondo quanto egli dice, erano arrivate ad avere un migliaio di nuclei residenti, ma verso il 1574 Santo Domingo si era ridotta a cinquanta nuclei e Santiago di Cuba a trenta. La spiegazione è, per entrambi i casi, la stessa: «In quest’isola i mercanti non si fermano a contrattare» e le «navi commerciali stanno alla larga». A Città del Messico c’erano quattro mercati «ricchi di ogni genere di merce, dalle sete ai panni, a tutto ciò che si può trovare nei meglio riforniti centri commerciali del mondo», come ci dice Vàzquez de Espinosa; il piú grande di questi mercati, quello della piazza Maggiore, «poteva contenere – secondo López de Velazco – centomila persone ed era completamente circondato da portici con una locazione predestinata per ogni tipo di lavorazione artigiana e per ogni genere di prodotto, in modo da offrire spazio ad una grande varietà di merci particolari». Meno importante era, senza dubbio, il mercato di Lima che, a detta di padre Cobo, «viene chiamato el Gato dai cittadini» che vi si recano perché «ogni genere di frutta ed ogni tipo di carne viene venduto lì, da donne negre ed indigene, in tale quantità da parere un formicaio. Le cose che si possono trovare in questo mercato sono tali e tante quali e quante una repubblica ben rifornita ne possa desiderare per il proprio sostento e spreco. Ci sono anche molti negozietti di piccoli commercianti indigeni che vendono un’infinità di cose a poco prezzo. Lungo tutto il marciapiede del palazzo corre una fila di negozi e baracche di legno che stanno appoggiate alla parete e che appartengono a mercanti poveri, senza contare poi le bancarelle portatili che riempiono altri due marciapiedi e lo spiazzo del mercato; sul lato degli edifici del municipio ci sono sempre chioschi di robivecchi che organizzano vendite d’occasione e commerciano a basso prezzo tutto il necessario per metter su casa».
Tutte le città avevano un mercato più o meno grande con queste caratteristiche e in alcune esistevano anche mercati specializzati. Del resto non tutte le attività commerciali passavano dal mercato. Alcuni negozi avevano sede nelle strade della città che talvolta prendevano il loro nome proprio dalle attività che vi si svolgevano di preferenza. In alcuni casi non si trattava di semplici commercianti, ma di artigiani che producevano in proprio un determinato genere di oggetti; di questo gruppo erano prestigiosi esponenti gli argentieri che, alla fine del secolo XVI, facevano parte, a Lima come a Messico, di una potente corporazione. C’erano poi grandi commercianti che facevano affari direttamente con gli esportatori ed i magnati del commercio all’ingrosso, realizzando operazioni di giro con notevoli quantità di merce.
Le città più spiccatamente nobiliari (hidalgas) vivevano, grazie all’attività economica, una doppia vita che aveva poco a che vedere con quella delle classi alte i cui membri adottavano il tradizionale stile di vita dei signori. Ciononostante i protagonisti di questa seconda vita erano, nella maggior parte dei casi, gli stessi signori, anche se, a volte, ecclesiastici, grandi funzionari e nobili agivano sulla piazza per interposta persona. C’erano però anche i commercianti di professione che, avendo pienamente assunto le proprie funzioni, avevano accettato di occupare una posizione formalmente secondaria nell’ambito della città aristocratica e che, per ciò, formavano la parte superiore di una scala che si chiudeva, in basso, con i trasportatori ed i distributori al dettaglio. Tutti costoro godevano, nelle città più marcatamente commerciali, di una posizione di maggiore privilegio.
L’aspetto tipico delle città che abbiamo chiamato mercantili fu assunto anche da quelle città minerarie in cui il ritrovamento di un nuovo filone scatenò una vertiginosa febbre d’avventura che né i pregiudizi, né le convenzioni della retorica, né gli scrupoli dei nobili furono capaci di contenere. L’argento era lì, alla portata delle loro mani e molti cercarono di prenderlo. Pochissimi anni dopo la scoperta del giacimento di Cerro Rico, Cieza de León, riferendosi alla febbre che questo scatenò, intorno al 1550, scriveva: «Benché in questo periodo Gonzalo Pizarro stesse conducendo una guerra contro il viceré e benché il regno fosse travolto dai disastri provocati da questa ribellione, le falde di questa montagna si popolarono e vi si costruirono case grandi per numero e dimensioni e gli Spagnoli ottennero in questa zona un grande risultato facendovi arrivare l’amministrazione giudiziaria; quello che prima era soltanto un villaggio spopolato e semideserto venne preso d’assalto da una tale quantità di cercatori d’argento da far sembrare lo stesso posto una grande città ».
Il fenomeno più curioso fu però forse il rapido formarsi di un mercato straordinariamente attivo nel quale si svilupparono innumerevoli attività secondarie. Lo stesso Cieza de León comparando il mercato del Cuzco a quello di Potosí, dice: «Ma né questo né alcun altro mercato del regno può competere con quello, davvero splendido, di Potosí, dove la contrattazione è stata così intensa che, solamente tra indios, senza intervento di cristiani, si vendevano ogni giorno, nei tempi di prosperità delle miniere, venticinque o trentamila pesos d’oro e, in alcuni giorni, più di quarantamila; la cosa è strana e io credo che nessun mercato del mondo possa competere con questo per volume di scambi. Io ci ho fatto caso in diverse occasioni e ho visto che sulla spianata che costituiva il luogo fisico di questa contrattazione c’era, da una parte, una fila di cesti di coca, che era la maggiore ricchezza di queste terre e, dall’altra, montagna di mantelli, e di ricche camicette, di qualità più o meno fine; in un altro luogo ancora c’erano mucchi di mais, di patate secche e di altri tipici generi alimentari; senza contare tutto ciò, vi erano poi numerosi quarti della miglior carne reperibile nel regno. Vi si vendevano infine moltre altre cose delle quali taccio; questo mercato si protraeva dal primo mattino fino all’oscurità della notte e, poiché vi erano nuovi denari ogni giorno e poiché tutti gli indigeni, ma in modo speciale quelli che fanno affari con gli spagnoli, sono mangioni e beoni, tutto ciò che era stato venduto veniva completamente consumato con tale velocità che da ogni parte dovevano arrivare merci e beni necessari per rifornire la piazza il giorno successivo. In questo modo molti spagnoli ebbero modo di arricchirsi praticando la contrattazione a Potosí senza disporre che di due o tre venditrici indigene che lavorassero per loro sulla piazza del mercato; da molte regioni accorsero squadre di yanaconas, cioè indios di condizione libera che potevano mettersi al servizio di chi volessero; in questa zona si potevano trovare anche le indigene più belle che ci fossero nel Cuzco e in tutto il regno. Per tutto il periodo che mi trattenni là ho osservato una cosa: circolavano molti inganni e venivano scambiati con poche verità. Quanto al valore, le merci erano su quella piazza in tale abbondanza che i tessuti di Francia e d’Olanda vi si vendevano a prezzi poco più alti che in Spagna e io stesso ho visto vendere alcuni oggetti, in saldo, a prezzi così bassi che persino a Siviglia verrebbero considerati vantaggiosi. Molti che si erano grandemente arricchiti, non riuscendo a contenere la propria insaziabile avidità, andarono in rovina a furia di contrattare comprare e vendere; alcuni di questi falliti fuggirono dai loro debiti andando in Cile o a Tucumàn o altrove, pur di non far fronte ai loro obblighi; per questo si può dire che il settore più vivace di tutto il mercato fosse quello delle cause e dei processi che tutti avevano in corso per dirimere le loro questioni».
Settant’anni più tardi, la Descripción dell’ebreo portoghese ci dice che «la sede imperiale di Potosí è la più ricca e felice che si conosca al mondo, a causa della sua grande prosperità; essa ha quattromila case abitate da spagnoli ed una popolazione stabile compresa tra i quattro e cinquemila uomini. Una parte di costoro si occupa dello sfruttamento delle miniere, altri sono mercanti che commerciano i propri articoli in tutto il regno […] mentre altri ancora vivono facendo gli avventurieri, i giocatori ed i poco di buono. […] Notevole è poi il commercio che vi si svolge, con mercanti e negozi di notevole importanza e ricchezza, forniti di ogni genere di mercanzie, e così stimati a Lima che sono numerosi i mercanti di qui che investono a Lima, a Messico e a Siviglia, senza contare i molti, smisuratamente ricchi, che decidono di andare a vivere in Spagna».
Un analogo potere catalizzatore ebbe la zona di Minas Gerais in Brasile, dove accorsero dopo la scoperta dell’oro, non solo i bandeirantes di San Paolo ma anche i Bahíani, i settentrionali e numerosi Portoghesi che furono, certamente, i primi che si trasferirono spontaneamente in Brasile. I diritti rivendicati da coloro che i Paulisti consideravano stranieri provocarono la cosiddetta guerra dos Emboabas. Ciononostante, tutti costoro parteciparono insieme dello straordinario incremento della ricchezza mineraria. Villa Rica, oggi Ouro Preto, fu chiamata «Potosí dell’oro»; come a Potosí e come in tutte le altre città minerarie spagnole, il concentrarsi di avventurieri costituì anche in questo caso, un tipico fenomeno sociale. La speranza di diventare ricchi spingeva infatti a mettere da parte ogni scrupolo e assimilava, di fatto, la condizione di tutti i bianchi che investivano nello sfruttamento dei giacimenti, realizzato sulla pelle degli schiavi di colore che, proprio come facevano gli indios nell’area spagnola, lavoravano e morivano a migliaia nelle miniere. Spreco, gioco, prostituzione, orge e crimini di ogni genere costellarono la vita di Villa Rica, dove, come a Potosí, una volta esauritasi la febbre dell’oro, la società urbana dell’insediamento, divenuto città nel 1711, si irrigidì trasformando il luogo in una città morta.
Anche altre città, come Guanajato, Taxco e Zacatecas, nacquero grazie all’impulso fornito dalla ricchezza delle miniere ed ebbero, al principio, una vita sociale ugualmente pittoresca. Nessuno si preoccupò in questi centri di legarsi all’aristocrazia, ma tutti si dedicarono semplicemente ad arricchirsi, benché vestissero secondo la strana moda che appare dalla descrizione che Arzans de Ursúa y Vela fa, nel secolo XVIII, degli abitanti di Potosí. Nessuno cercò di ostentare nobiltà di vita. Queste città furono caratterizzate dalla presenza di case da gioco in cui si poteva tentare la fortuna, dal prosperare di ogni genere di bordelli e, soprattutto, da una caratteristica esplosione di tutte le passioni; una testimonianza raccolta da Arzans de Ursúa nella sua storia di Potosí dice: «Questa sventurata città non sembrava abitata da cristiani, ma da crudeli barbari», dato che in essa uomini e donne erano dominati dalla violenza. La spinta propulsiva del peculiare modello sociale delle città minerarie era rappresentata dalla facilità con cui era possibile accumulare ingenti fortune e avviare nuovi generi di affari. Lo spirito mercantile trionfava sistematicamente, sovrapponendosi ad ogni preoccupazione di carattere sociale, e ciò era forse dovuto all’influenza di un gran numero di stranieri, in special modo portoghesi, che entravano nei domini spagnoli, riportando in auge l’atteggiamento tipico di quegli spagnoli che rivendicavano orgogliosamente la propria nobiltà. Proprio per questo, alcune città minerarie videro i ricchi trasformarsi in nobili tra la fine del secolo XVII e gli inizi del secolo XVIII, cioè proprio quando il modello nobiliare di vita cominciava altrove ad entrare in crisi.
In ogni modo, i luoghi in cui lo spirito mercantile acquistò una più definita fisionomia e creò un’atmosfera più simile a quelle del mondo borghese europeo, furono i porti, nei quali le attività economiche ebbero un ruolo fondamentale fin dall’inizio. López de Velazco, utilizzando dati relativi al 1574, segnala le differenti strutture sociali dei vari tipi di città, facendo un censimento economico della popolazione spagnola. A Popayán risiedevano trenta nuclei spagnoli, sedici dei quali legati alla proprietà fondiaria; a Guatemala c’erano, invece, cinquecento nuclei spagnoli, settanta dei quali legati alla proprietà fondiaria e gli altri legati alla città o al commercio; a Cali erano proprietari terrieri ventiquattro nuclei su trentasei, mentre i latifondisti del Cuzco erano sessantatre su un totale di ottocento nuclei residenti ed a Trujillo del Perù c’erano ventitre latifondisti su trecento nuclei. Parlando di Potosí la relazione dice: «Quattrocento nuclei spagnoli e neanche uno legato alla terra, ma tutti mercanti, trafficanti e speculatori minerari che, per la maggior parte, vanno e vengono in continuazione». A Veracruz, secondo la stessa fonte, tutti sono mercanti ed a Cartagena ci sono solo sedici nuclei latifondisti su duecentocinquanta di residenti e la differenza è interamente composta da gente dedita ai traffici ed al commercio.
I porti ebbero un proprio stile di vita: Portobello, L’Avana, Cartagena, Veracruz, La Guayra, Santo Domingo, Acapulco, Panama, Guayaquil, El Callao, Valparaíso, Buenos Aires, San Vicente, Rio de Janeiro, Bahía, Recife. In queste località si concentravano i grandi traffici e, di conseguenza, vi si stabilirono i più potenti gruppi economici caratterizzati dalla determinazione, dal pragmatismo e dall’efficienza. I gruppi legati al commercio con la madrepatria manifestarono, fin dall’inizio, una fisionomia sociale e mentale ben definita. Ben presto una precisa identità venne acquistata anche da due categorie di commercianti che avrebbero avuto grande importanza nella vita sociale: i negrieri ed i contrabbandieri. Al pari di coloro che formarono le società urbane delle città minerarie, costoro non ebbero scrupoli nel dedicarsi ai propri interessi e nel farli personalmente. E probabile che la scelta di questi particolari settori di attività derivasse dalla loro determinazione ad accelerare il processo di arricchimento, passando sopra, per questo, a tutte le altre convenzioni della vita sociale. Essi in ogni caso diedero vita alla tipica figura del mercante borghese che, mano a mano che la vita coloniale si sviluppava, diventava un modello sempre più generalmente accettato.
In Brasile il modello di vita mercantile e borghese venne favorito nella sua formazione da alcune particolari circostanze. L’esportazione dello zucchero offrì una visione del mercato mondiale assai più ampia e precisa di quella che poteva essere consentita dalla politica monopolistica della Spagna. Questa percezione diventò ancor più dettagliata quando, nel 1630, gli Olandesi si insediarono a Recife e vi crearono una città tipicamente borghese e mercantile basata sul modello della lontana Amsterdam che aveva ispirato anche tutte le altre fondazioni olandesi, cioè Nuova Amsterdam, oggi New York, fondata nel 1624 e Willemstad, nel Curaçao, fondata nel 1634. All’epoca di Maurizio di Nassau, tra il 1637 e il 1644, Recife non fu soltanto un polo economico, ma anche un vero e proprio modello di quel sistema di vita che i portoghesi imitarono e continuarono a praticare anche dopo che, nel 1654, la città venne riconquistata. Rispetto ad Olinda, dove si perpetuava la tradizione nobiliare, il contrasto divenne sempre più percepibile e mise in evidenza il disfacimento che le tradizionali classi alte avrebbero dovuto subire di lì a poco, nonostante la sopravvivenza di una generica aspirazione alla vita signorile.
La creazione della Compagnia Generale di Commercio del Brasile (1649) e quella della Regia Compagnia Guipuzcoana di Caracas (1730) contribuì ad aumentare l’importanza delle forme di vita borghesi e mercantili. Agenti ed agenzie commerciali introdussero nelle città in cui ebbero sede un nuovo atteggiamento economico e sociale, provocando la reazione di coloro che vedevano minacciati sia i propri interessi monopolistici che il proprio stile di vita. Le rivolte di Jerónimo Barbalho a Rio de Janeiro e del capitano León in Venezuela servirono proprio a compenetrare i due opposti disegni.
Città prevalentemente nobiliari e città prevalentemente mercantili ebbero, così, stili di vita diversi, ispirati dalle differenze tra i ceti dirigenti. Questi due stili di vita si trovarono a coesistere, ovviamente, in tutte le città, dato che il ceto nobile non si lasciò sfuggire le possibilità offerte dalle attività mercantili e i gruppi commerciali continuarono a nutrire la speranza di poter raggiungere, un giorno, il prestigio dei redditieri. Ciononostante si può dire che la nobiltà fosse un’ossessione particolarmente diffusa nei primi due secoli successivi alle fondazioni. Solo a partire dalla seconda metà del secolo XVIII lo sviluppo del pragmatismo, sospinto avanti dagli ideali illuministici, consentì di abbandonare, pian piano, le spettacolari fantasie di quegli avventurieri che ancora si sforzavano di dimostrare l’antichità dei loro blasoni e la nobiltà dei loro antenati. A partire dal momento in cui la ricchezza parve costituire un merito sufficiente, a nessuno importò più di nascondere che i propri blasoni erano comperati, anche perché la corona non fu più in grado di negare che aveva dato loro un prezzo.
Dalla nuda traccia alla città edificata
Lo sviluppo delle città, più o meno rapido a seconda dei casi, si manifestò attraverso la crescita, il consolidamento e la differenziazione delle rispettive società, nonché nella loro più intensa attività economica, nell’adozione di forme di vita più tipicamente urbane e nell’apparizione di nuovi ideali culturali. La manifestazione più concreta fu però quella implicata nell’attività di edificazione. In quanto atto simbolico, la fondazione non aveva creato la città fisica. La traccia astratta si trasformò, quindi, in un progetto che era necessario trasformare in realtà.
Dopo la definitiva scelta del luogo di insediamento, tale progetto venne lentamente posto in opera, mediante la costruzione di edifici destinati ad usi civili e religiosi e fatti sorgere sui terreni prestabiliti dallo schema di fondazione e successivamente assegnati, con un atto formale, ai vari coloni, quando non fossero già stati destinati alla costruzione di edifici di pubblico interesse.
Se lo schema originario conteneva implicitamente un progetto, la sua portata ed il suo significato ci danno informazioni sull’ottica dalla quale i fondatori vedevano il futuro delle nuove città. Ad alcune capitali – Messico, Lima, Buenos Aires – venne assegnata un’area perimetrale di oltre cento isolati; ma la maggior parte delle città venne pensata con una dotazione di circa venticinque isolati e, in ogni caso, sia le une che le altre impiegarono molto tempo prima di raggiungere una compattezza edificativa che si estendesse oltre l’area centrale. Verso la fine del secolo XVII e nei primi anni del secolo seguente erano molto pochi i centri urbani il cui sviluppo era andato oltre i limiti prefissati dai fondatori, anche se erano ormai apparsi alcuni nuclei suburbani estranei alla pianificazione originaria.
E certo che la crescita demografica delle città fu molto lenta. Agli inizi del secolo XVIII Messico raggiungeva a malapena i quarantamila abitanti, Lima ne aveva trentamila e Bahía diecimila. Nessun’altra città latinoamericana arrivava a quest’ultima cifra. Recife e Buenos Aires avevano infatti circa ottomila abitanti, San Paolo e Caracas circa settemila e Bogotá ed Asunción circa cinquemila. Si trattava dunque di piccole società urbane, incapaci di accelerare il processo che le avrebbe portate a riempire i vuoti ancora esistenti nella loro originaria planimetria, dato che lo scarso numero di abitanti rendeva superflua la costruzione di nuovi edifici. Inoltre, fatta eccezione per le grandi capitali e per alcune città portuali e minerarie, durante questo primo periodo non vi erano neppure le risorse necessarie per far fronte all’oneroso compito di edificare dal nulla una nuova città. Nonostante la costruzione di case private, edifici pubblici, chiese e conventi, non si può dire che fino al secolo XVIII inoltrato le città latinoamericane abbiano conosciuto uno sviluppo fisico accelerato, dato che, salvo poche eccezioni, nessuna città riuscì ad infrangere i limiti ipotizzati per lei da coloro che la fondarono.
In ogni caso, la campagna circostante venne lottizzata e trasformata in area urbana non soltanto in base ad un processo di appartenenza virtuale, ma anche perché la progressiva trasformazione del panorama urbano sembrava avvicinare l’inclusione mano a mano che sorgevano nuove case e nuove chiese e, soprattutto, mano a mano che la società incominciava a svolgere in queste aree una parte della propria vita quotidiana, creando nei nuovi spazi un insieme di memorie e di aspettative. Sulla carta, la piazza Maggiore era uno spazio aperto e vuoto, simile a tutti gli altri; la prima costruzione fu dunque quella di una colonna che doveva segnarne il centro ideale, attorno al quale avrebbe ben presto dovuto installarsi il mercato: la piazza diventava a questo punto una vera piazza commerciale e questa posizione si rafforzò quando attorno ad essa vennero costruite le sedi dei pubblici poteri, il tempio e, talvolta, il carcere. In questo modo la piazza incominciò ad essere il centro delle comunicazioni sociali della città, in questo periodo modeste al pari degli edifici ed elementari come i servizi pubblici che, nella maggior parte dei casi, si riducevano ad una fontana. Tuttavia di lì doveva passare chi si recava al palazzo municipale, alla casa del governatore o alla sede della audiencia; lì erano infatti concentrate tutte le attività economiche e lì si svolgevano le poche feste pubbliche che la città celebrava. Per questa ragione la piazza Maggiore fu il primo luogo sul quale vennero concentrate le attenzioni delle autorità, che cominciarono ad occuparla, sia pure nei limiti consentiti dalla sua peculiare condizione di sede del mercato. In alcuni casi si giunse a toglierle spazio per consentire la costruzione di alcune strutture permanenti che offrissero riparo ai mercanti; questo spazio aveva però un valore che lo rendeva riutilizzabile da parte dell’intera comunità. Dalla piazza partivano le principali strade, la cui direttrice di edificazione venne, quasi sempre, scrupolosamente rispettata. Attorno alla piazza, all’inizio delle vie, stabilirono la propria residenza e costruirono la propria casa le più potenti famiglie. Più lontano si distribuirono i cittadini meno ricchi, concentrando le costruzioni in prossimità delle chiese, a volte parrocchiali, che incominciarono a sorgere sui terreni che erano stati assegnati ai diversi ordini. Sorsero così piccoli quartieri raccolti intorno a piazzette dove vennero installate le fontane pubbliche e dove incominciarono a funzionare, talvolta su base etnica, piccoli centri che raccoglievano attorno a sé la popolazione, i negri e gli indigeni.
Il fenomeno edilizio di maggiore importanza fu rappresentato dalla formazione spontanea dei suburbi, popolati, in origine, dai vari gruppi emarginati. Ai quartieri, detti doctrinas, previsti nella planimetria originaria di Città del Messico, predisposta da Alonso García Bravo, se ne aggiunsero nel corso dei due secoli seguenti alcuni altri, i più importanti dei quali furono quello di Santa Cruz e quello di Santiago Tlatelolco. A Lima vennero costruiti due nuovi quartieri: la riduzione india del Cercado e, soprattutto, «el arrabal de San Lázaro», che si formò sull’altra sponda del fiume Rimac per iniziativa degli indiani camaroneros e nel quale venne costruito, poco tempo dopo, un lebbrosario. A Bahía la città alta del nucleo originario venne completata dalla cosiddetta cidade baixa, posta ai limiti della Ribeira. Recife che era sorta vicino ad Olinda come villaggio di pescatori e che si era trasformata in città per merito degli Olandesi, tornò dopo la riconquista portoghese ad essere un sobborgo fino a quando gli abitanti non riuscirono ad ottenere un riconoscimento della propria importanza.
Nonostante la lentezza del processo di sviluppo e le piccole dimensioni, la grande esplosione dell’urbanesimo si può dire che sia stata in realtà costituita dalla progressiva creazione delle città stesse. Mano a mano che la vita andava facendosi organizzata e regolare, grazie allo svolgersi delle varie attività quotidiane, cominciarono ad esserci necessità non prorogabili, alle quali si dovette far fronte con urgenza, specialmente nelle città più importanti. Una città di due o tremila abitanti poteva forse vivere senza regolare la propria crescita e senza razionalizzare i servizi, ma, quando la città cominciava ad avvicinarsi o a superare i dodicimila abitanti, le lacune che ne ostacolavano lo sviluppo si facevano evidenti. La risposta a questi problemi originò alcuni sforzi urbanistici di una certa rilevanza. Messico, costruita in una zona lagunare, si rese conto del tremendo problema rappresentato dalle inondazioni, dato che con la fondazione della città spagnola erano venuti meno gli equilibri del drenaggio naturale. Le prime inondazioni avvennero nel 1553 e si ripeterono varie volte senza che si riuscisse a trovare una soluzione non palliativa. Agli inizi del secolo XVII, quando il viceré Montesclaros diede inizio ai lavori del’acquedotto di Chapultepec per razionalizzare il rifornimento idrico della città, venne progettato e parzialmente realizzato anche un vasto lavoro di bonifica che si protrasse per oltre un secolo. Il rifornimento d’acqua rappresentò un problema per tutte le città e venne risolto con l’installazione di fontane pubbliche nelle piazze; i sistemi di scolo delle acque, invece, non migliorarono e continuarono ad essere costituiti da semplici canali a cielo aperto, che correvano ai lati delle strade. Nelle capitali ci si preoccupò di far pavimentare alcune strade e a Messico vennero anche costruite canalizzazioni e fognature ed edificati ponti che consentissero di attraversare i canali. Lo stesso Montesclaros, che divenne viceré del Perù dopo avere ricoperto in Messico la stessa carica, fece costruire a Lima, per sostituire quelli crollati, un nuovo ponte sul Rimac, con piloni di pietra e parapetti; i lavori terminarono nel 1610.
Soltanto in questi centri si manifestò la preoccupazione di migliorare l’aspetto della città, conformemente al modello proposto dalle corti della madrepatria. Si trattava però di cominciare dalle cose più semplici. Un gran passo fu compiuto togliendo la colonna della piazza Maggiore ed evitando, così, il triste spettacolo rappresentato non tanto dalle esecuzioni che erano assai gradite al pubblico, ma dai cadaveri che in precedenza restavano a lungo esposti nel cuore della città. Quando si volle conferire alla vita urbana un tratto di maggiore signorilità si provvide, come disse qualche cronista, alla creazione di spazi di divertimento. Messico, Guatemala Antigua e Lima si vantarono delle rispettive alamedas (viali alberati). A Città del Messico, fin dai tempi del viceré Luis de Velasco, ci fu l’abitudine di andare a passeggio fino al bosco di Chapultepec. Fu però a Recife, all’epoca dell’amministrazione olandese di Maurizio di Nassau, che, su progetto di Peter Post, si tentò per la prima volta di ridisegnare completamente la città.
A rigore, ciò che modificò l’aspetto delle città nel corso dei primi due secoli successivi alle fondazioni fu la comparsa di un’architettura di un certo livello. Il padre Barnabé Cobo scriveva, a proposito di Lima, nel 1629: «La struttura delle case è generalmente costituita da mattoni d’argilla; le prime che si costruirono furono edificate in modo molto rozzo, con coperture di sparto intrecciato con canne e legno grezzo di mangle (pianta tropicale dai rami sottili e flessibili) e senza nessuno splendore o bellezza nella positura delle facciate e dei cortili, comunque ampi e spaziosi; in seguito queste case sono quasi tutte andate in malora e sono state ricostruite in modo più ricco con legnami più robusti e pregiati, travoni e tavolacci di rovere, e con ogni possibile cura ed arte; sono ormai molto poche le case a copertura vegetale, per via delle forti piogge, poiché, quando sono abbondanti, l’acqua passa attraverso i tetti di canne e riempie le case di infiltrazioni; gli edifici in pietra lavorata sono molto pochi, a causa della gran penuria di materiali, dato che in tutta la zona non vi sono rocce buone per il taglio da costruzione e, per questo, la maggior parte della pietra necessaria deve venire, via mare, da Panama, che dista cinquecento leghe, oppure da Arica, che ne dista duecento, oppure da altre terre, ancor più remote».
Città del Messico non ebbe questo problema, dato che venne costruita con i materiali recuperati dalla distruzione dei templi di Tenochtitlán, come ci dice fra’ Toribio de Benavente: «Lì morirono molti indios e furono necessari molti anni per tirarli fuori dalle fondazioni, da cui venne ricavata un’enorme quantità di pietre». Con queste i signori fecero costruire quelle case che suscitarono, nel 1554, l’ammirazione di Cervantes de Salazar che, a proposito delle case di Calle Tacuba, fa dire ad uno dei personaggi dei suoi Diálogos: «Sono tutte magnifiche e costruite con grande ricchezza, come si addice ad abitanti nobili e ricchi come coloro che le posseggono. Sono così solide che chiunque direbbe che non si tratta di case ma di fortezze». Tra tutte, quelle che più somigliavano a un vero e proprio castello erano le cosiddette «vecchie case di Cortés», situate in faccia alla piazza Maggiore e poste in modo che «non sono un palazzo ma un’altra città ».
Come a Messico, anche in altre città, come il Cuzco e Quito, abbondò la pietra. Ciononostante, in altre città vennero costruite eccellenti dimore con mattoni d’argilla, legno e mattoni cotti. Santiago del Cile aveva trecento edifici, agli inizi del secolo XVII e, secondo González de Nájera, ce n’erano «molte ed assai nobili che appartenevano ai figli ed ai discendenti dei conquistadores». Il fondatore Gonzalo Suárez Rendón, il contabile reale Juan de Vargas e numerosi altri proprietari terrieri e funzionari fecero costruire a Tunja le proprie residenze. Nella Guatemala Antigua vennero costruite le case di Bernal Dáaz del Castillo e del oidor Luis de las Infantas y Mendoza e quelle che si allineavano lungo la strada che, per la sua qualità, venne denominata Via della Nobiltà, come ci dice, nel 1639, fra’ Tomás Gage. A San Juan di Portorico neppure la casa dei Ponce arrivò ad essere costruita in pietra, nonostante che ciò fosse espressamente stabilito dal progetto originario.
Secondo padre Cobo a Lima «gli edifici pubblici sono più grandi e lussuosi delle case private», e ciò valeva anche per tutte le altre città. Con tutto ciò, il palazzo vicereale di Lima non era un’opera lussuosa, e, benché fosse un po’ meno scalcinato, lo stesso si può dire della sede vicereale di Messico, almeno fino all’incendio del 1692; l’anno successivo iniziarono i lavori della nuova residenza che cominciò ad essere abitata quattro anni più tardi e che fu caratterizzata da una certa grandezza. Notevoli per dimensioni furono la residenza dei capitani generali di Guatemala Antigua e i palazzi di Recife e di Bahía, mentre furono assai modeste le sedi governative di Bogotá, Caracas, Asunción e Buenos Aires. Molto semplici furono in questi primi secoli anche gli edifici municipali, posti, generalmente, accanto alle sedi di governo, sulla piazza Maggiore.
Tutti gli sforzi architettonici vennero concentrati sugli edifici di carattere religioso. La città vuota della planimetria originaria si riempì rapidamente di chiese, conventi e collegi che occuparono buona parte delle aree urbane. Agli inizi del secolo XVII, Alonso González de Nájera diceva che una città piccola come Santiago del Cile aveva solo trecento case e «ben quattro monasteri di frati, due di monache e un collegio»; Bernardo de Balbuena, parlando della più importante città delle Indie, dedicava un intero capitolo della Grandeza Mexicana all’enumerazione delle numerose fondazioni religiose. Così, nel volgere di poco tempo, alcune città devono aver cominciato ad assumere la strana aria che ancor oggi conservano centri come Cholula, Bahía, Puebla e Quito, letteralmente disseminate di edifici religiosi, mentre, in altri casi si creò quella singolare disposizione urbanistica che nasce dall’insediamento di una grande costruzione religiosa in seno alla città, come per esempio il convento francescano di Tlaxcala in Messico o quelli fortificati del Carmine, a Bahía ed a Olinda, o, ancora, nel caso dell’immensa area, quasi una cittadella occupata dal convento di Santa Caterina in Arequipa e da quello dei Gesuiti che, a San Paolo, costituisce addirittura il nucleo della città.
La cattedrale o chiesa madre fu il primo edificio che ci si preoccupò di costruire non appena fondata la città, anche se prima venne sempre costruita la piazzaforte. Per questa ragione, nel 1554, quando ormai avevano assunto un enorme potere di suggestione le quasi fortezze dei primi colonizzatori di Città del Messico, uno dei protagonisti delle conversazioni di Cervantes di Salazar poteva dire: «E un peccato vedere che una città di fama senza pari, e abitata da gente tanto ricca abbia costruito nel suo luogo più esposto un tempio tanto piccolo, umile e miseramente adornato»; ciononostante, a quel tempo l’arcivescovo aveva già «una casa con stipiti eleganti e con una terrazza chiusa ai lati da due torri assai più alte di quella centrale», di modo che la casa risulta tanto solida che si potrebbe dire che « neppure con le cannonate si potrebbe buttarla giù».
Tuttavia, quando le circostanze lo resero possibile la cattedrale venne edificata ed ogni volta che crollava, come capitò spesso, la si costruiva nuovamente, progettandola meglio e facendola più solida e più ricca. Alla fine del secolo XVII ed agli inizi del secolo XVIII vi erano già splendide cattedrali in molte città: Santo Domingo, Guadalajara, La Paz, Messico, Salvador de Bahía, Chuquisaca, Trujillo, Puebla, Lima e il Cuzco; in queste ultime tre città il progetto originario fu del famoso architetto Francisco Becerra. Costruite sulla piazza Maggiore, le cattedrali diventarono, una volta ultimate le loro torri e i loro porticati, imponenti masse che dominavano con i loro volumi il foro urbano. La decorazione, sia interna che esterna, venne realizzata nel corso di lunghi anni e, come già era avvenuto per la costruzione, vi lavoravano sia gli artigiani spagnoli che i nativi americani a cui costoro insegnarono l’arte. I francescani di Quito fondarono addirittura una scuola specificamente dedicata alle arti dell’edificazione che gli indios che la frequentarono appresero a fondo.
Tra i vari ordini si sviluppò una forte competizione per imporre all’interno delle città la propria influenza. Francescani, domenicani, carmelitani, agostiniani, gesuiti e frati della carità ottennero fin dai primi tempi e quasi in ogni città ampi appezzamenti per la costruzione dei propri conventi e delle proprie chiese. Donazioni ed elemosine favorirono l’opera e nei due secoli che seguirono le fondazioni venne così imposta alle città nobiliari un’atmosfera spiccatamente conventuale. I francescani costruirono a Quito un complesso architettonico di quasi trentamila metri quadrati, formato da un convento e da tre chiese ad esso adiacenti: quella di San Francesco, quella di San Bonaventura ed una terza che fu detta di Cantuña. Fra’ Agustín de Vetancourt, parlando del convento costruito dai francescani a Città del Messico ebbe a scrivere: «Ha quasi trecento celle dove duecento frati offrono ospitalità a prelati, residenti, ospiti ed infermi, e nonostante ciò hanno sempre libere numerose celle, alte, basse e in ammezzato, e tutte le celle sono senza eccezione ben sistemate e adatte alla dignità dei vari ospiti e fornite di tutti i necessari servizi e corridoi». A Tlaxcala, oltre al convento, c’erano la chiesa dell’Assunta, la cappella aperta del Santo Sepolcro, l’ospedale e, nell’enorme atrio, la cappella funebre; tutto il complesso era poi fortificato come se fosse una cittadella. Non meno grandioso fu il complesso architettonico di Puebla, mentre in numerose altre città vi furono importanti fondazioni: La Paz, Lima, Salvador de Bahía, il Cuzco, Bogotá, Sucre, Arequipa, etc.
Anche i domenicani beneficiarono dell’originaria distruzione dei terreni e su quelli loro assegnati costruirono templi e conventi. A Puebla la chiesa raggiunse una straordinaria qualità artistica, in special modo nella cappella del Rosario. A Messico il complesso si affacciava sulla piazzetta porticata di San Domenico. A Lima, Quito, Oaxaca, il Cuzco, Santo Domingo e Salvador de Bahía come in molte altre città, il complesso architettonico fu testimonianza della ricchezza e dell’influenza raggiunte dall’ordine. Meno significativi furono i conventi degli altri due ordini mendicanti, carmelitani ed agostiniani, che, in ogni caso, costruirono numerose chiese e conventi, alcuni dei quali divennero centri religiosi di grande importanza nella vita della città, oltre ad essere monumenti di straordinario valore artistico; tipici esempi di questa influenza furono i due conventi carmelitani di Quito e quelli agostiniani della stessa Quito, di Lima e di Bogotá. I frati della misericordia, da parte loro, costruirono ricchi templi a Lima, a Quito e nel Cuzco.
Fortissima fu anche l’influenza della Compagnia di Gesù come testimoniano i suoi templi e suoi collegi. Le chiese che la Compagnia costruì a Guanajuato, Quito e Potosí ebbero una straordinaria qualità estetica, ma fu soprattutto nel Cuzco che l’architettura gesuitica acquistò grandissimo rilievo, non soltanto per l’enorme mole della facciata, ma anche per la posizione del tempio che sembra quasi sfidare la cattedrale.
Innumerevoli altre chiese sorsero nelle città ed a ciascuna di esse si indirizzò la devozione di particolari gruppi di fedeli. Mano a mano che il tempo passava, il numero delle chiese aumentava e nella loro costruzione venivano investite considerevoli somme. A proposito della grande ricchezza e del valore venale delle costruzioni religiose di Città del Messico Balbuena scrive nella sua Grandeza Mexicana:
tra fondazioni, rendite e doni
come sarà possibile sommare
per tanti che vi sian numeri e zeri?
L’incremento dell’architettura ecclesiastica fu tale che, nel 1664, il municipio della città chiese al re di proibire agli ordini religiosi di continuare a fondare conventi e ad acquistare terre.
Sicuramente le costruzioni religiose lasciarono il loro segno nella struttura della città nobiliare in misura incomparabilmente maggiore rispetto all’architettura civile. Ne risulta evidenziato l’eminente significato che la chiesa ebbe nell’ambito di questa società e l’importanza che rivestì nel delineare i tratti fondamentali delle classi superiori. Emergono però, oltre a queste considerazioni, anche alcuni fenomeni sociali e culturali molto importanti, dato che gli stili architettonici furono collegati sia all’influenza della madrepatria che alle condizioni particolari della città e della regione. Per la cattedrale di Santo Domingo venne adottato lo stile isabellino e non mancarono i tentativi di introdurre quello plateresco. La prima influenza importante fu però quella dello stile herreriano, mentre la svolta decisiva fu data dal barocco, non soltanto perché fu questo lo stile quantitativamente dominante nelle più importanti costruzioni, ma anche perché fu il primo ad offrire uno schema generale, sia costruttivo che decorativo, entro il quale potessero trovar posto tutte le potenzialità espressive che si erano sviluppate all’interno della nuova società che si era costituita oltre l’Atlantico. Vi furono, ovviamente, molti generi di barocco e la maggior parte di essi fu un’imitazione, più o meno fedele, dei modelli peninsulari, ma vi furono anche momenti di autentica e spontanea creatività formale, a partire dai quali venne configurandosi il barocco meticcio di cui sono esempi la chiesa di San Lorenzo in Potosí, con l’immagine di un San Michele indio, la chiesa della Misericordia di Olinda, e quella di San Domenico a Puebla; sono questi gli esempi più celebri e meglio riusciti della sovrapposizione tra genio peninsulare e fantasia indigena.
A ben guardare, si potrebbe anche ipotizzare che, in qualche misura, sia pure marginalmente, l’apparizione del barocco meticcio abbia preannunciato una certa crisi della società barocca: una classe dominante spagnola che tollera una Vergine negra dimostra di avere assimilato nei fatti alcuni elementi delle culture aborigene, dalle quali ha preso cibi, balli, canzoni, abiti, usanze e superstizioni così radicate da avere valore di idee. Questo è ciò che avvenne, indubitabilmente, in molte città; a questo processo non fu estranea la moltitudine dei servitori che dominavano l’ambiente domestico e che avevano una parte importante nella crescita e nell’educazione dei bambini, né, d’altro canto può essere trascurata l’importanza di quello sciame di donne da cui gli adolescenti apprendevano i segreti dell’amore e di cui gli adulti si servivano per praticarlo. La convivenza e la continua frequentazione finirono per rendere palese a molti che anche le caste erano composte da esseri umani e che quindi la Vergine e San Michele potevano anche avere la pelle color del rame; ammettere questo pubblicamente significava però riconoscere un punto debole nella concezione tradizionale della società coloniale barocca. La devozione per il Signore dei Miracoli a Lima, per la Vergine di Guadalupe a Messico e per il Signore dei Terremoti nel Cuzco contribuì ad accentuare questa frattura.
Ciò è particolarmente vero per il Signore dei Terremoti e per l’infinita serie delle sue immagini, alle quali si attribuiva il potere di scongiurare le minacce che incombevano sulle città: terremoti, inondazioni ed eruzioni vulcaniche. Per colpa di questi fenomeni naturali molte città erano state distrutte in passato e alcune di queste più di una volta. Nonostante ciò furono pochissime le città che vennero abbandonate e, quando le autorità decisero il trasferimento di Guatemala, molti decisero di restare in quella che da allora incominciò a chiamarsi Antigua e, a partire da quel momento, vi furono due Guatemala, o, per essere precisi, tre. Lungo è l’elenco delle città che dopo essere state distrutte ricominciarono a vivere: Cuzco nel 1650, Guatemala nel 1717 e Caracas nel 1641.
Restava la possibilità che la città, specialmente se si trattava di un porto, dovesse soccombere ad un assalto dei suoi nemici; per impedirlo vennero costruiti castelli e piazzeforti d’artiglieria come quelle di L’Avana, di San Juan di Portorico, di Veracruz, di Cartagena e di Valparaíso. E probabile anzi che la compatta massa della fortificazione militare fosse la prima costruzione veramente importante della città. Grazie ad essa la città poteva infatti resistere e far crescere, da una planimetria vuota, una città di edifici.
Dallo spirito di conquista alla mentalità nobiliare (“hidalga”)
I popoli assoggettati continuarono a sopravvivere sotto la dominazione dei conquistatori. La comparsa degli stranieri determinò la distruzione della loro autonomia sociale e, da allora in poi, essi furono costretti ad accettare che i nuovi venuti decidessero del loro destino. I suicidi collettivi testimoniano fino a qual punto essi furono consapevoli della loro disgrazia. Vi furono poi coloro che si ribellarono e lottarono pur sapendo che la lotta si sarebbe conclusa con la morte. A poco a poco subentrarono però la rassegnazione e l’odio. La sottomissione venne accettata ed incominciarono a prendere forma i meccanismi di adattamento, specialmente grazie alla mediazione dei meticci. Sopravvivere e prosperare non era del tutto impossibile se si riusciva a trovare lo spiraglio per reinserirsi nella nuova società. Tali spiragli non furono difficili da trovare, proprio nel contesto urbano. I successi tuttavia non potevano cancellare l’odio. I dominati accettarono le credenze che vennero loro imposte, ma le tradussero nel proprio linguaggio, creando, al contempo, una strana forma di simbiosi tra ciò che apparteneva loro e ciò che avevano acquisito: un giorno un facitore di immagini sarebbe arrivato a dare a tutto questo un’espressione plastica, ma molti lo avevano già espresso verbalmente, alterando, forse senza esserne consapevoli, il proprio capitale antropologico di saperi di gruppo, riclassificandolo alla luce degli insegnamenti ricevuti. Essi conservarono però inalterata la loro cultura materiale, il quotidiano, gli abiti, i costumi alimentari, i vasi di terracotta, gli utensili, gli ornamenti, la medicina tradizionale, le tecniche agricole, il sistema di compravendita del mercato, le formule di saluto e, fin dove i dominatori spagnoli lo consentivano, anche la vita familiare. Tutto ciò si conservò vivo, mescolandosi però con il complesso di inferiorità che la conquista aveva senza dubbio provocato, alterando troppo rapidamente il loro sistema di vita. Il tratto dominante della mentalità indigena divenne la disperazione, l’atteggiamento tipico di una società vinta che non è più in grado di essere padrona del proprio destino.
Padroni del destino proprio ed altrui erano infatti i conquistadores, che avevano in proposito idee chiare e intenti ben precisi: volevano entrare in possesso a proprio beneficio e per conto del loro re, della terra, dei beni e della manodopera indigena; essi volevano questo con una decisione che non poteva essere spezzata e con una veemenza quasi atroce. Era un disegno semplice, ma di portata tanto vasta da contenere al suo interno una visione ed un giudizio del mondo nel quale essi erano venuti ad inserirsi. Era un mondo destinato a diventare loro proprietà e a dimenticare, del tutto e subito, ciò che era stato prima di allora. Una volta che il possesso fosse stato assicurato alla globalità dei conquistadores, a quelli di ogni regione ed a quelli di ogni valle, quel mondo avrebbe cominciato ad essere posseduto da loro, a titolo personale, e ciascuno di essi sarebbe diventato, da quel momento in poi, signore del proprio dominio. Questa rigida concezione epica della vita costituì il primo tratto della mentalità di conquista.
Superato il momento cruciale della conquista, fu, però, evidente che era necessario inserire questa forma di possesso all’interno di uno stabile ordinamento che ne garantisse il permanere e assicurasse anche la condizione di privilegio che i possessori avevano, in questo modo, acquisito. Questo stabile ordinamento non poteva essere opera di uno solo e neppure di tutti loro, ma doveva essere creato dallo stato, dalla Spagna o dal Portogallo, che potevano assicurare un’adeguata copertura, non solo dal punto di vista militare, ma anche da quello economico e culturale, poiché la creazione di questo ordinamento presupponeva l’organizzazione di una nuova società.
Il conquistador aveva, indubbiamente, un proprio sistema di idee e se lo era formato nella società del suo paese di origine. Una di queste idee era legata al contrasto evidente tra l’angustia degli orizzonti sociali propri dell’Europa e la notevole ampiezza delle prospettive che si aprivano nel nuovo mondo. Giunto sull’altra sponda dell’Atlantico il colonizzatore elaborò un’immagine della società che i suoi sforzi andavano costituendo. A differenza della società piena di sfumature dei paesi d’origine, la società coloniale era brutalmente spaccata in due e in essa conquistatori e conquistati convivevano senza compenetrazione, costituendo due strati giustapposti di un irriducibile dualismo sociale. Il colonizzatore creò, nei fatti, questa situazione e soltanto in un secondo tempo la giustificò, trasformandola in uno schema di più generale validità. Ciò costituiva da un lato la condizione necessaria di ciò che egli aveva inteso fare e, dall’altro, l’irreversibile conseguenza di ciò che aveva già fatto.
Subito la chiesa e lo stato dei paesi d’origine incominciarono a mettere in causa questa società duale, o, meglio, a contestarne alcuni aspetti. Furono i domenicani a lanciare il grido d’allarme. Con un sermone pronunciato a Santo Domingo nella quarta domenica d’Avvento del 1510, fra’ Antón de Montesinos, a nome dell’intera comunità, mise i proprietari terrieri di fronte al proprio comportamento nei confronti degli indigeni e contestò il loro diritto ad imporre loro una vita di sottomissione e di servitù: «Dite: con che diritto, in nome di quale giustizia potete tenere questi indios in una servitù così orribile e crudele? Con quale autorità vi siete arrogati il diritto di fare guerre così detestabili contro queste genti che vivevano tranquille e pacifiche nelle loro terre, mentre voi ne avete distrutto una così gran parte, macchiandovi di delitti e stragi inaudite? Come potete imporre loro tanta oppressione e tante fatiche, senza dar loro da mangiare e senza curare le loro malattie, provocate dagli eccessivi carichi di lavoro che gli date e per i quali muoiono, o, meglio, vengono ammazzati da voi che ve ne servite per prendere e capitalizzare oro ogni giorno? […] Non sono forse uomini? Non hanno un’anima razionale? Non avete il dovere di curarli al pari di voi stessi?». Cominciava così una lunga polemica che opponeva i latifondisti coloniali ad un settore dei frati e dei teologi che ottennero poi l’appoggio della Corona. Le leggi di Burgos del 1512 e, soprattutto, le Nuove Leggi del 1542 fecero proprio il critico punto di vista dei frati, contribuendo a rafforzare i diritti personali degli indios e la loro evangelizzazione, senza però smuovere i fondamenti della società duale. Bartolomé de las Casas, Juan de Zumárraga, Vasco de Quiroga, Lázaro Bejarano, Motolinía, Pedro Claver, Francisco Solano, Antonio Vieira, Diego de Avendaño e molti altri furono avvocati e difensori della causa indiana e, talvolta, di quella delle genti di colore: convertirono, educarono e protessero i deboli contro i maltrattamenti, facendo tutto quanto era nelle possibilità della loro forza e della loro influenza, curando e cercando, quando non si poteva fare di meglio, di ottenere per i loro protetti una buona morte. Né la chiesa né lo stato, nonostante lo zelo di molti funzionari nel cercare di garantire l’applicazione delle Nuove Leggi, riuscirono però a far sì che la protezione fosse in grado di contenere le necessità imposte dallo sfruttamento economico.
Gli encomenderos (commendatori delle Indie) trovarono eccessive alcune delle misure proposte dallo stato, anche se, in realtà, queste scalfirono appena i loro privilegi ed interessi. Lo stato si limitò in sostanza a garantire l’educazione dei figli dei cacicchi e un trattamento di riguardo per alcuni membri delle famiglie indigene di maggiore distinzione. Nel frattempo i giuristi del Perù, su iniziativa del viceré Toledo, cercarono, però, di dimostrare che il potere dell’Inca non era legittimo. Le rivolte indigene furono sempre represse con esemplare durezza e vennero prese tutte le precauzioni necessarie per garantire la sopravvivenza della nuova struttura sociale, ad esempio proibendo agli indigeni di portare armi. Il dualismo sociale non venne mai messo in questione e, anzi, venne sostenuto dallo stato e rafforzato dall’accettazione degli obblighi imposti dal sentimento della carità, che veniva utilizzato per eludere e limitare le responsabilità morali e che costituì il secondo tratto peculiare della mentalità dei conquistatori.
In ogni caso, questa concezione della società non poteva essere completamente identificata con gli schemi che i colonizzatori portavano con sé dal loro paese d’origine. La loro concezione della società era del tutto originale nelle sue componenti e aveva, soprattutto, caratteristiche di maggiore plasticità. I conquistatori, proprio per renderla maggiormente conforme alla loro tradizione, ritennero necessario godere di un certo margine di indipendenza, non solo per la novità dei problemi che si trovavano ad affrontare, ma anche per l’oggettiva lontananza della madrepatria. Non c’è dubbio che essi ottennero, di fatto, il riconoscimento di questo margine di indipendenza, ma che si sentirono chiamati a renderne continuamente conto e che si trovarono ad essere energicamente repressi da un potere che stava marciando in direzione dell’assolutismo e che, inoltre, era anche assai meticoloso e moralistico. La risposta non poteva che essere barocca, o meglio, pre-barocca, quasi fosse un’anticipazione del monologo di Sigismondo, dato che la si poteva riassumere nella formula: «Dire di sì e poi fare come si vuole».
Se il principio della società duale fu uno dei tratti fondamentali della visione della concezione sociale propria dei conquistadores, la distinzione tra assenso formale ed obbedienza reale caratterizzò l’ordine politico del nuovo mondo. «Dire di sì» corrispondeva alla necessità di riconoscere formalmente i simboli dell’autorità stabiliti dalle potenze imperiali, dato che il nuovo mondo non poteva farne a meno; «Fare ciò che si vuole» equivaleva invece a continuare la concezione politica di tradizione medioevale e municipale del concetto di volontà popolare; tale dottrina era sostenuta sia dalla cultura gesuitica di Suárez y Mariana, sia dalla peculiare esperienza della conquista, che richiedeva indipendenza e decisione adattate al continuo evolversi delle circostanze. Il rispetto della volontà popolare, intesa come volontà del gruppo conquistatore fu il terzo caratteristico tratto della mentalità della conquista. La Corona, come aveva accettato il principio del dualismo sociale, accettò anche, sia pure con qualche riserva, quello del rispetto della volontà popolare.
Le metropoli, certamente, stroncarono con violenti atti d’autorità ogni tentativo di allargare i margini dell’indipendenza che era stata concessa: finirono, così, tragicamente i tentativi di Gonzalo Pizarro, Lope de Aguirre e Álvaro de Oyón. I margini di autonomia riuscirono però a sopravvivere ed a mantenersi tali da garantire lo sviluppo del fondamentale processo politico che incominciò a compiersi subito dopo l’occupazione della terra e la fondazione delle città; tale processo trasformò la colonia da mondo di conquistatori a mondo di funzionari e l’epica società degli avventurieri fu costretta a lasciare il posto alla società barocca dei colonizzatori: agli inizi di questa nuova fase sono legati i nomi di alcuni autorevoli rappresentanti delle corone: Mendoza y Velazco, Hurtado de Mendoza y Toledo, Tomé de Souza e Mem de Sá.
Questa metamorfosi si accentuò e si consolidò mano a mano che, con il decesso dei conquistadores, i loro diritti e privilegi vennero ereditati dai loro discendenti. Gli ultimi anni di Hernán Cortés in Messico e di Diego Losada a El Tocuyo sono, probabilmente, i simboli di questa fase di transizione. Da quel momento in avanti la società del nuovo mondo sarebbe stata composta da colonizzatori, rispettosi dell’autorità dei funzionari coloniali e fieri del potere della madrepatria.
Ancor più di prima divenne percepibile una forte sottovalutazione del mondo americano. L’America non era considerata un luogo in cui si dovevano mettere radici, ma una semplice stazione di passaggio, in cui era possibile ottenere ricchezze e raggiungere posizioni di prestigio che si sperava poi di poter sfruttare nel mondo metropolitano. Fra’ Vicente del Salvador, abitante di Bahía nel secolo XVII, poteva ormai scrivere nella sua Historia del Brasil: «In questo modo ci sono residenti che, per tanto che abbiano messo radici in questa terra, vogliono portare sempre tutto in Portogallo; e vogliono ogni cosa per realizzare là i loro desideri e questo non vale soltanto per coloro che sono venuti da là, ma anche per quelli che sono nati quaggiù, dato che gli uni e gli altri hanno sfruttato la terra non da proprietari, ma da usufruttuari, come dimostra il fatto che, dopo che l’hanno adoperata, la lasciano praticamente distrutta». L’illusione del ritorno non era soltanto un parametro indicativo del significato che si attribuiva al nuovo mondo, ma anche un metro del basso grado di compromesso e di compromissione che legava in quel periodo il peninsulare alla terra in cui si era trasferito. Coloro che volevano portare tutto «là», non volevano lasciare nulla «qua», cioè alla nuova società che loro stessi avevano costituito e di cui loro stessi facevano parte. In effetti, le mete che si prefiggevano erano percepite da ciascuno di loro come parte di un’avventura personale.
Quando il conquistatore si trasformò in colonizzatore, il tratto saliente della nuova mentalità fu rappresentato dall’ideologia della scalata sociale. E indubbio che si trattava di una concezione puramente ideologica, dato che tesseva un’immagine della società e dei ruoli e delle possibilità che l’individuo aveva nel suo rapporto con essa. La società doveva servire al colonizzatore per arricchirsi, raggiungere una posizione sociale rispettabile e far riconoscere pubblicamente la propria condizione di signore fondiario. Padre Antonil scriveva, agli inizi del secolo XVIII, a proposito del Brasile: «Essere proprietario di una piantagione rappresentava un onore a cui molti aspiravano, dato che tale titolo conferiva il diritto di essere servito, obbedito e riverito da molti. Se fosse, come dev’essere, un uomo di grande ricchezza e di notevoli doti amministrative, il proprietario di una piantagione brasiliana dovrebbe godere ed effettivamente gode di una stima paragonabile a quella che viene riconosciuta, per i loro titoli, ai nobili creati dal re».
Questo diritto ad essere rispettato al pari di un nobile comportava anche il diritto di comando e quello di possedere privilegi preclusi ad altri. Erano queste le manifestazioni concrete del processo di nobilitazione che si venne operando tra i colonizzatori; in virtù di esso, chi aveva raggiunto il frutto dei propri sforzi otteneva, in un colpo, il decoro che i nobili spagnoli e portoghesi potevano ostentare soltanto dopo cinque o dieci generazioni di dominio. Tuttavia, mano a mano che il tempo passava, le cose importanti erano sempre meno la gloria ereditata dal fondatore della stirpe e la posizione che, grazie ad essa, occupavano i suoi discendenti, e, sempre più, la forza moltiplicatrice che l’ordinamento imperiale garantiva all’intero processo, in base al sistema costruito dalle metropoli mediante l’inclusione di uno straordinario tesoro di imprese individuali all’interno di un vigoroso quadro istituzionale ormai decisamente coinvolto nella politica mondiale.
Con l’accettazione dell’ordinamento venne formalmente riconosciuto il rigoroso sistema elaborato in Portogallo da Manuel I, Juan III e don Sebastián, e, in Spagna, dai re cattolici e dai primi sovrani della casa d’Austria. Era un sistema politico assolutista e centralizzato, nell’ambito del quale ogni vassallo doveva essere orgoglioso della propria incondizionata obbedienza verso un sovrano che però, come ognuno sapeva, era a volte dominato dai propri favoriti o condizionato dai potenti gruppi di corte che maneggiavano e decidevano, a proprio arbitrio, i destini della politica. L’onnipresenza del potere garantiva però sia la sopravvivenza del sistema nel suo complesso che la sua indiscutibilità, specialmente nella periferia coloniale dell’impero. A ben guardare, dietro questa struttura di potere si celava il sistema ideologico della Controriforma che forniva una legittimazione dottrinaria non solo al potere politico, ma anche alla gerarchia sociale, tanto nelle metropoli, quanto nelle colonie; fu, anzi, proprio la Controriforma ad ispirare e promuovere la nascita della società barocca.
La società barocca delle Indie non fu però in grado di sostenere la dinamica ideologica che l’assolutismo e la Controriforma avevano imposto alle metropoli. Nelle Indie si era costituita a seguito della conquista una società che pur essendo barocca non era simile a quella europea, ma soltanto ad essa corrispondente. Siccome gli elementi costitutivi erano essenzialmente diversi, qualsiasi processo di trasformazione rappresentava una costante minaccia per l’ordine formale, a cui l’ideologia coloniale si aggrappava, anche se l’esperienza quotidiana metteva in rilievo il diverso corso di ciascun elemento. La distinzione tra peninsulari e creoli introdusse, in seno alla stessa classe dirigente, una permanente instabilità. Il rapporto tra il padre spagnolo e il figlio creolo sembrava compromettere inesorabilmente l’unità del gruppo bianco; se l’opposizione fu già evidente quando il padre era un conquistatore, essa divenne ancor più difficile da ricomporre quando la figura paterna divenne quella di un funzionario o di un commerciante. Poco a poco, diversamente dal peninsulare, il creolo andò instaurando con la terra un rapporto ogni giorno più vivo, e sempre più permeato dalla coscienza di un radicamento che si faceva sempre più profondo col susseguirsi delle generazioni. Nell’ambito delle classi dominate il fattore di instabilità fu rappresentato dai meticci che costituivano un surrettizio ponte tra due grandi settori sociali che si volevano impermeabili. Non si trattava soltanto della protezione che costoro potevano ottenere dei loro genitori o consanguinei di razza bianca, ma anche della loro predisposizione a svolgere nella prassi le funzioni di intermediari tra due mondi. Per garantire con forza la stabilità del sistema coloniale era necessario aggrapparsi alle forme, anche se era difficile dimenticare che dietro a tutto c’era un rapporto di forza.
Questa mescolanza tra tutela delle forme e appello alla forza definì la mentalità tipica dei colonizzatori che si erano trasformati in nobili. La nobiltà era, nella penisola, l’espressione di un’immagine dell’uomo che, anche se affondava le proprie radici nella struttura feudale, aveva ormai superato sia la fase baronale che quella cavalleresca ed aveva quindi elaborato, sulla base di quei principi che a partire dal secolo XVI vennero chiamati «di corte», un modello adeguato alla nuova concezione monarchica e palesemente intessuto di suggestioni italiane e rinascimentali. Il nobile doveva vivere in funzione della sua dignità e testimoniare con la sua esistenza la validità di un ideale uomo basato sul decoro e concepito sulla falsariga di quanto dicevano gli umanisti italiani, i libri di cavalleria, il Diálogo sobre la dignidad del hombre di Fernán Pérez de Oliva e, ovviamente, Il cortigiano di Baldassar Castiglione. In quest’opera programmatica era già chiaro che per decoro e dignità non si intendevano più né le virtù del barone bellicoso e orgoglioso, né quelle del raffinato signore che si compiaceva di ricevere nel suo castello le dame ed i cavalieri per dilettarli con le arti dei trovatori e dei giullari, dopo che i pari avevano dato prova della propria maestria in un elegante torneo o in una caccia avventurosa; il decoro e la dignità erano quelle del cavaliere che aveva ormai perduto anche gli ultimi frammenti dell’antica superbia e che accettava di occupare il proprio posto in una società rigidamente gerarchica al cui vertice era un monarca o un gran signore da cui ogni cortigiano riceveva le garanzie necessarie al rispetto del proprio decoro e della propria dignità, oltre, naturalmente, alle possibilità di una ricompensa, per ottenere la quale non era considerato disdicevole rivolgere preghiere in atteggiamento sottomesso, enumerando in modo umile ma dettagliato i servizi resi all’autorità. Scenario della vita di questa società era la corte, cerimoniosa, schiava di una rigida etichetta, severa nelle forme, ma minata nel profondo dall’ambizione e dal gioco degli intrighi di potere e sempre animata dalla speranza di ottenere il favore del sovrano e dal timore di perderlo. A questo tipo di corte fanno riferimento nel secolo XVI il portoghese Gil Vicente e l’anonimo testo spagnolo intitolato Epístola moral:
Fabio, le speranze cortigiane,
tra cui soltanto chi è più furbo invecchia,
son trappole mortali agli ambiziosi.
Trapiantata nelle Indie la mentalità nobiliare esagerò alcuni dei propri tratti e ne modificò altri. In Brasile, nel corso del XVI e del XVII secolo, la nobiltà mantenne il proprio legame con la vita rurale, anche se, poco a poco, cominciarono a svilupparsi alcune forme urbane, analoghe a quelle che avevano prevalso fin dall’inizio nell’America spagnola. Un nobile che rifiutasse le nuove forme di cortesia poteva forse sopravvivere nella penisola, dove poteva rifugiarsi in un mondo rurale conforme alla sua cultura e alla sua tradizione. Nelle Indie invece il mondo rurale non poteva offrire al peninsulare niente di gradevole, dato che proprio lì erano più forti le tradizioni autoctone: quale risonanza e quale valore potevano mai avere per i signori della monocultura
e delle miniere le arcadiche nostalgie delle Églogas di Garcilaso o di Sá de Miranda, gli inviti alla quiete della campagna di fra’ Luis de León e le riflessioni di Antonio de Guevara sul Menosprecio de corte y alabanza de aldea? Gregorio de Mattos riprese questi temi in Brasile, elogiando la dolce vita rurale ed esecrando quella della corte di Bahía, verso la fine del secolo XVII:
Se lontano dalla corte,
al pari di ogni estraneo, fiducioso,
ne parli come di un male ancor lontano
che mai faresti vedendo Bahía,
piena, come ogni corte, di menzogne,
di furti e di ingiustizia e tirannia?
Questa non fu però la nota dominante dato che, già un secolo prima, padre Anchieta, parlando della stessa città, aveva segnalato come durante l’inverno, nel periodo compreso tra aprile e giugno « venivano riaperte le residenze dei nobili, poste nelle vie del centro e, con l’imbarco dello zucchero, i commerci marittimi riprendevano vita e c’erano spettacoli di tauromachia al Terreiro e processioni e moltissima animazione e movimento». È risaputo che i signori allungarono sempre più il periodo di residenza nelle loro case cittadine.
Questa tendenza fu anzi predominante fin dall’inzio nell’America spagnola. Era infatti opinione accettata che la città fosse lo strumento per eccellenza della dominazione. Su questo schema si era formata la mentalità dei gruppi fondatori e l’esperienza sembrava dar loro ragione. Mano a mano che cresceva e si rafforzava la città svolgeva con sempre maggiore efficacia il proprio ruolo di fulcro progettuale e nume tutelare dell’espansione regionale, concepita in modo da subordinare inequivocabilmente il mondo rurale a quello urbano. La città assumeva sempre più l’aspetto di un ridotto dello stile di vita europeo, al quale si adeguavano, poco a poco, anche i gruppi di origine non europea che venivano a farne parte, mentre, al contrario, i campi conservavano le tracce nascoste delle originarie forme di vita, offrendo un comodo rifugio a tutti coloro che per una ragione o per l’altra cercavano di sottrarsi all’ordine coloniale.
Mano a mano che i colonizzatori si trasformavano in nobili manifestavano una certa tendenza a riprodurre il modello della corte peninsulare, anche se non potevano certamente ignorare la dura realtà della città coloniale, che altro non era se non una proiezione delle loro aspirazioni, così spietatamente messe a nudo da Balbuena:
Per ogni dove avidità infinita,
tanto che nulla più si fa o si dice
se non si può cavarne un po’ d’usura.
Tuttavia la mentalità nobiliare, e non solo quella coloniale, confluì e si approppiò della concezione barocca della vita, riassumibile nel concetto di sogno e, quindi, naturalmente portata ad elidere la dura realtà, nascondendola con l’enorme finzione del grande teatro del mondo. La mentalità nobiliare fu nelle Indie spiccatamente urbana, ma non trovò il proprio modello nei ritmi della città mercantile e borghese, preferendo fare propri gli schemi della vita di corte, che ruotava però intorno ad una corte precaria, a mala pena distinguibile in mezzo al fango delle strade ammorbate, dei lotti inutilizzati, delle ambiziose ma inconcluse fabbriche ecclesiastiche e delle caste disprezzate; la precarietà di questa situazione nascondeva però un vasto apparato che presiedeva alla coesistenza delle classi alte ed al convenzionale funzionamento di un sistema di vita nobile concepito a loro esclusivo beneficio.
L’immagine di questa corte potenziale, implicita anche nelle città più umili, si arricchiva attraverso le continue evocazioni dello splendore delle grandi capitali vicereali fino a diventare un mito retorico. Non mancarono di certo poeti satirici e cronisti scettici disposti a togliere ogni velo alla natura picaresca della realtà urbana: l’ebreo portoghese, che ci descrive le città del vicereame del Perù, Juan del Valle y Caviedes, scrittore di Lima, Gregorio de Mattos di Bahía e, ovviamente, Juan Rodríguez Freyle di Santa Fé. Tuttavia la maggior parte dei cronisti, generalmente appartenenti alla buona società e a qualche ordine religioso, si sforzarono, al pari dei viaggiatori, di enfatizzare, nella loro descrizione delle città, la serena dignità della vita nobile che vedevano o credevano di vedere, collocandola entro uno scenario modesto ma altero. Quest’idealizzazione fu particolarmente forte nell’umanista Cervantes de Salazar e nei poeti Bernardo de Balbuena e Juan de Castellanos.
Tuttavia, proprio perché aveva nella città il suo centro simbolico, la mentalità nobiliare soffrì in modo particolare il contrasto tra il proprio ideale e la realtà della vita urbana. I nobili disprezzarono i mercanti, anche se un’opinione assai diffusa si prendeva gioco delle loro eccessive pretese. Il nobile povero mise a dura prova la validità di questi pregiudizi e, benché si sentisse impegnato a difendere il proprio teorico sistema di vita, il solo fatto di essere esposto alle burle finiva per non dargli tregua, mentre lo perseguitavano con sempre maggior insistenza le possibilità che gli si sarebbero aperte se egli avesse optato, alla fine, per un più realistico rapporto con i meccanismi che rendevano possibile la ricchezza. Per questa via, un nuovo modo di intendere la vita incominciò a passare attraverso le fessure del mondo nobiliare e finì per modificarlo radicalmente, contribuendo alla formazione di un atteggiamento mentale del tutto nuovo, talvolta francamente borghese, ma più spesso a metà strada tra nobiltà e borghesia, specie a partire dal momento in cui la pratica delle attività economiche e il mantenimento di talune forme di vita connesse con il godimento in pubblico di antichi privilegi cominciarono a sembrare tra loro compatibili.
4.
Le città creole
Inserite a forza nel circuito della madrepatria e, tuttavia, attratte dal mondo mercantilista, le città latinoamericane cominciarono, a partire dalla seconda metà del secolo XVIII, a muoversi verso uno scenario più ampio, nel quale si sviluppava un’economia più libera, prosperava una società progressivamente meno chiusa e più marcatamente borghese e acquistavano sempre maggior forza idee sociali e politiche nuove. A poco a poco si indebolivano le difese della morsa che manteneva le città dell’America latina chiuse entro gli schemi ideali e le forme di vita delle relative metropoli e, al contempo, sotto la spinta di sistemi economici nuovi, entravano in scena, nei porti e nelle capitali, nuovi modelli di attività che, ovviamente, portavano con sé anche un diverso atteggiamento da parte di coloro che in tali attività erano coinvolti come promotori o come operatori. Il commercio divenne la parola d’ordine di tutti coloro che desideravano uscire da una condizione di monopolio sempre più anacronistica: si percepiva che la ricchezza aveva assunto una forma nuova e che avrebbe dovuto adeguarsi completamente per imboccare la strada del progresso.
Anche il progresso divenne una parola d’ordine, che però non entrava facilmente nel vocabolario dei gruppi nobiliari che dominavano le città barocche. Per costoro l’economia era immobile e anche la società doveva esserlo. La nuova parola incominciò a circolare all’interno di quei gruppi sociali che si erano costituiti negli interstizi della società barocca e che nel volgere di pochi decenni avevano assunto una considerevole forza. Peninsulari illuminati o, semplicemente, commercianti arrivati nel momento in cui venne infranto il monopolio favorirono l’identificazione di progresso e libertà mercantile e manifestarono apertamente il proprio credo progressista, scoprendo, via via, tutte le implicazioni che questo atteggiamento poteva avere nelle colonie, dove la parola progresso acquistava un significato assai più esplosivo di quanto non facesse nelle madrepatrie, dato che coloro che la pronunciavano lo facevano con l’intenzione di manifestare una decisiva volontà di cambiamento ed erano soprattutto borghesi e creoli o, meglio, membri della nascente borghesia creola che, nel suo formarsi come gruppo sociale, sconvolse l’intera società tradizionale, e finì per farle assumere tratti fino ad allora sconosciuti.
La società latinoamericana palesò in questo periodo il sordo cambiamento che aveva subito diventando, piano piano, una società creola. Non tutti i settori beneficiarono in egual misura del cambiamento. Le borghesie urbane, sempre più legate al mondo creolo, conquistarono rapidamente un ruolo di preminenza e costituirono, alla fine del secolo XVIII la prima élite sociale radicata che il mondo latinoamericano abbia mai avuto. I membri di questi gruppi sapevano, ormai, di non essere di passaggio, erano cioè consapevoli che il loro destino non era più quello di ripercorrere il cammino che portava alle metropoli per godere la ricchezza acquisita; essi erano certi di rimanere nelle loro città e volevano perciò realizzare in esse i propri progetti economici, le proprie forme di vita e la propria mentalità. Sentivano, insomma, di essere parte della loro città e della loro regione e, proprio per questo, interpretarono con grande determinazione il proprio ruolo di classe dirigente, incominciando a pensare, poco tempo dopo, a quell’indipendenza politica che venne successivamente ottenuta con una serie di rivoluzioni urbane in cui furono proprio i creoli a prendere l’iniziativa.
Con l’ascesa delle borghesie creole il sistema delle città barocche entrò in crisi, sia pure lasciando dietro di sé alcuni scampoli che, in seguito, avrebbero alimentato il mito nostalgico della città cortese. Tuttavia, mezzo secolo prima dell’indipendenza le città latinoamericane avevano già assunto un aspetto ed una realtà sociale e culturale inequivocabilmente creole. Avevano cioè cominciato ad essere autentiche ed avevano di conseguenza avviato un processo di sviluppo organico e coerente, lasciandosi alle spalle la struttura artificiale ed artificiosa della città nobiliare.
Un’ondata di mobilità sociale fu la più immediata conseguenza di questa trasformazione. La società che si riteneva immobile entrò in una accelerata fase di cambiamento di cui le agitazioni politiche dell’indipendenza non furono altro che un segno ed una tappa. Il processo, infatti, iniziò prima e continuò dopo l’indipendenza. Il nuovo modello economico si sviluppò in modo più o meno armonico e a seconda della forza e del grado di efficacia dei gruppi in ascesa; le città progredirono, languirono o regredirono a seconda delle funzioni che toccò loro di assolvere nel nuovo sistema. Quasi tutte finirono per acquistare un aspetto decisamente urbano, poiché la ricchezza aumentò e consentì la costruzione di case private ed edifici pubblici; la città prese forma e la vita dei suoi abitanti ampliò i propri orizzonti.
Alcune città ebbero biblioteche e giornali, ma quasi in tutte circolarono i libri e le idee che, a quel tempo, sconvolgevano l’Europa. La città creola si sviluppò sotto il segno dell’illuminismo e della sua filosofia. Riscaldata da queste idee innovatrici, tanto care alla borghesia, la città accentuò la propria vocazione ideologica. Sia la vita urbana che la vita rurale vennero analizzate criticamente e diventarono oggetto di diversi progetti, alcuni moderati, altri più radicali, sostenuti però tutti da gruppi di parte che li promossero con decisione. La città fu, dunque, scenario di forti tensioni tra le diverse ideologie che esprimevano le tendenze sociali, economiche e politiche degli instabili gruppi che consideravano il potere come garanzia di un significativo predominio. Vi furono tradizionalisti e progressisti, riformisti e rivoluzionari e, tra questi ultimi, moderati e giacobini. Le città ribollirono alimentate da un lento fuoco fino all’indipendenza e da un vero e proprio incendio dopo di essa.
Vecchia e nuova economia
Se nel corso del secolo XVIII si produssero importanti mutamenti nella vita economica ciò non avvenne in modo specifico nei metodi di produzione. Nelle aree rurali e minerarie, nel corso di questo periodo, non cambiò quasi nulla, specie se si prescinde dalla momentanea prosperità o decadenza di alcune regioni. I possessori di terre e i titolari delle concessioni minerarie continuavano a gestire le proprie attività nella maniera tradizionale, nonostante le nuove disposizioni sul lavoro dei negri e degli indios. Esauritosi il sistema delle assegnazioni in commenda, il lavoro indigeno continuava, di fatto, ad essere servile. Gli schiavi di colore vennero invece impiegati nelle poche attività nuove che fecero la loro comparsa in questo periodo, cioè le piantagioni di cacao in Venezuela e quelle di canna da zucchero a Cuba. A rigore, sia le piantagioni che le miniere migliorarono la propria organizzazione, almeno in parte, facendo leva sul puro e semplice perfezionamento del tradizionale metodo di lavorazione. Nel rapporto con le città influì poi, in una certa misura, il fattore di razionalizzazione imposto dall’esigenza di commercializzare i prodotti. La crescita delle città e del loro fabbisogno da un lato e la diffusione dall’altro di alcune idee relative allo sviluppo agricolo contribuirono ad incrementare la produzione per adeguarla alle nuove necessità dei mercati urbani. Nelle regioni dedite all’allevamento la crescita del numero dei capi incrementò, senza che vi fossero nuovi investimenti, la ricchezza degli allevatori. Nelle regioni minerarie la scoperta di nuovi filoni e l’esaurimento di alcuni giacimenti più antichi modificò in una direzione o nell’altra la forza economica delle varie regioni.
Con l’indipendenza e le guerre che accompagnarono la formazione del nuovo ordine politico l’economia rurale subì un duro colpo. Terreni e miniere passarono di mano in mano e vennero per questo danneggiate dall’instabilità sociale. La popolazione rurale si ribellò alla propria marginalità e, prendendo parte a guerre e rivoluzioni, alterò, talvolta con gravi conseguenze, il tradizionale ritmo della produzione. Episodi come quello di Boves in Venezuela o come quelli che, subito dopo, sconvolsero gli altipiani e le pianure del Rio de la Piata, ebbero ripercussioni profonde sugli equilibri della vita agricola.
Tuttavia, fu lo sviluppo commerciale a modificare, nel modo più profondo, l’intero ordinamento economico. Il mercato interno era certamente in crescita, soprattutto nelle città, e questo creava rimarchevoli aspettative circa la possibilità di incrementare le importazioni, alle quali avrebbe potuto e dovuto far fronte un parallelo incremento dei flussi di esportazione. Tutte queste possibilità di sviluppo cozzavano però contro il regime di monopolio che le metropoli continuavano ad imporre. Fuori dal sistema coloniale era possibile vedere il crescente traffico commerciale che si sviluppava e che nelle colonie si limitava ad alimentare gli scambi resi possibili dal contrabbando, che divenne così canale di esportazione oltre che di importazione. L’esame delle nuove possibilità non faceva che attizzare il progetto di infrangere la barriera imposta dal sistema monopolistico.
Le capitali ed i porti furono i centri in cui questo progetto si presentò con maggiore forza. La popolazione delle città aumentava più rapidamente delle possibilità economiche. Quando le metropoli, influenzate dalle nuove idee economiche decisero di liberalizzare il sistema commerciale si registrò una notevole espansione e gli scambi realizzati in questa fase costituirono la base di nuovi e più audaci programmi. Negli ultimi decenni del secolo XVIII sia il Portogallo che la Spagna adottarono varie misure per eliminare le pastoie che impedivano lo sviluppo del commercio e agli inizi del secolo XIX era già percepibile nelle colonie l’intento, manifestato dai settori mercantili, di ampliare ulteriormente il sistema degli scambi, stabilendo collegamenti diretti con i centri commerciali dell’Inghilterra. Nel mondo spagnolo tale progetto divenne realtà dopo l’indipendenza, mentre in Brasile vi si giunse nel 1808, con l’arrivo di Giovanni VI e la conseguente apertura dei porti. Nei principali centri commerciali vennero così ad aggiungersi ai gruppi peninsulari che erano rimasti ed a quelli creoli che si erano rafforzati, anche i commercianti stranieri che si stabilivano in America latina come rappresentanti d’affari dei rispettivi paesi. Lentamente i flussi di esportazione e di importazione incominciarono a concentrarsi nelle loro mani e furono proprio loro ad introdurre nel circuito degli scambi commerciali molte direttrici nuove.
In questo modo venne a crearsi, nelle città latinoamericane, un forte potere mercantile. I settori legati alle attività di intermediazione, cioè il commercio e la finanza, acquisirono un’importanza crescente e coloro che si dedicavano a queste attività cercarono anche di collegarsi al mondo della produzione, nel tentativo di concentrare nelle proprie mani il controllo dell’intero sistema economico. A partire da allora, le borghesie mercantili accentuarono la propria caratterizzazione di gruppo ibrido, al tempo stesso urbano e rurale. Fu però dalle città e soprattutto dalle capitali e dai porti che venne diretta l’intera rete della nuova economia.
Una società creola
A ben guardare, l’impatto con il mercantilismo internazionale che aveva stimolato lo sviluppo delle città non era stato l’unico fattore che aveva messo in crisi la città baròcca. Quando ciò avvenne era già in corso una vera e propria metamorfosi della società latinoamericana o, meglio, ne erano già percettibili i primi segni. Si trattava semplicemente di una conseguenza del passare del tempo e non vi è dubbio che le prime tappe del processo vennero dissimulate e nascoste dalla concezione barocca che postulava e presupponeva l’immobilità sociale. Il trascorrere del tempo, tuttavia, intrecciava le generazioni e modificava in modo sostanziale la struttura di una società che aveva smesso di basarsi sulla contrapposizione tra colonizzatori e classi subalterne per costituire una diversa situazione: la società stava diventando creola e la consistenza numerica dei vari gruppi, modificandosi, alterava anche la loro importanza relativa. Humboldt scriveva nel suo Viaggio alle regioni equinoziali: «Fu in Messico e non a Madrid che sentii criticare il viceré conte di Revillagigedo per il fatto di avere rivelato a tutta la Nuova Spagna che nella capitale di un paese che conta circa sei milioni di abitanti non risiedevano, nel 1790, che duemilatrecento europei, mentre vi erano più di cinquantamila creoli». Era proprio ciò che stava accadendo: Humboldt stimava che vi fossero nell’America spagnola quindici milioni di abitanti, dei quali soltanto duecentomila erano europei mentre vi erano tre milioni di creoli bianchi e il resto della popolazione era costituito dai diversi gruppi subalterni. Era anche ciò che sarebbe accaduto in seguito e che avrebbe avuto importanti conseguenze.
Mentre i gruppi peninsulari non potevano crescere se non per la continua immigrazione, i gruppi creoli aumentavano naturalmente, formandosi anche all’interno dei gruppi peninsulari che mettevano radici nel nuovo mondo. I creoli di prima generazione andavano lentamente avvicinandosi a quelli che avevano già alle spalle diverse generazioni di «americani»; l’unione di questi gruppi sempre più numerosi acquistava sempre maggiore compattezza e incominciava ad organizzare autonomamente il sistema che si stava costituendo. Non era però questo l’unico settore che, crescendo, sperimentasse mutamenti e modificasse, di conseguenza, il quadro delle relazioni sociali. Fu indubbiamente il gruppo più importante, dato che da esso uscì quella borghesia creola che ben presto avrebbe assunto una posizione di preminenza, ma, insieme ad esso, subì una modificazione sostanziale anche il settore dei pardos (scuri) come venivano generalmente chiamati gli appartenenti alle razze ibride. I meticci e i mulatti aumentarono considerevolmente di numero, dato che ai figli ed ai nipoti di questi gruppi vennero aggiungendosi i nuovi meticci ed i nuovi mulatti che venivano generati dal perdurare degli incroci. Essi non solo aumentarono quantitativamente, ma, al pari dei creoli, videro aumentare anche la loro importanza sociale. La stessa cosa potrebbe dirsi anche per ciò che riguarda alcuni gruppi di indios, negri, zambos appartenenti ad altri incroci; tutti costoro entrarono a far parte, in posizione subalterna, della nascente società, e lo fecero con la forza tipica della consistenza che, lentamente, riesce a superare i pregiudizi che determinano e riproducono la marginalità.
Come certamente vedevano coloro che criticavano il conte di Revillagigedo, la crescita dell’ampio settore nativo, legato ad una terra a cui sentiva di appartenere, conscio di non averne altre e, comunque, deciso a realizzare in essa un miglioramento della propria condizione, non poteva che costituire una minaccia per una classe peninsulare fondamentalmente debole e composta da un limitato numero di effettivi, che o si rinnovava grazie all’arrivo di nuovi venuti o finiva per radicarsi e per diventare un nuovo nucleo creolo. Oltre all’esiguo numero di coloro che si sentivano del tutto sradicati e sognavano di tornare in patria, cresceva poi, in seno alla comunità peninsulare, il numero di coloro che si sentivano, per necessità, sempre più legati al luogo in cui si erano trasferiti. Nell’area latinoamericana stava in fondo costituendosi una società basata su valori di radicamento ed era la prima volta che questo accadeva, dato che così non era stato per la società barocca. Non era però questo l’unico segno della trasformazione sociale in corso. Se la società barocca aveva preteso di essere completamente statica, la nuova società creola era invece sostanzialmente dinamica e la spinta da essa prodotta metteva a nudo le carenze dell’ordine instaurato dai colonizzatori e dai conquistatori che, per difendere i propri privilegi, avevano fatto leva sull’ideologia nobiliare. Questo nuovo impulso era il prodotto di una società viva e spontanea come quella che si stava costituendo grazie al naturale sviluppo ed alla coatta incorporazione di gruppi che erano stati a lungo artificiosamente emarginati e che si rivelavano invece indispensabili alla sopravvivenza dell’intero complesso sociale. Negli ultimi decenni del secolo XVIII divenne chiaro per molti che la nuova società nata dall’influsso creolo stava sovrapponendo i propri progetti ai cervellotici schemi che cercavano di ignorarla e di contenerne l’espansione. La polemica razziale basata sul confronto tra le qualità dei creoli e quelle dei peninsulari divenne sempre più aspra e sempre più diffusa. Coloro che prestarono attenzione ai cambiamenti in corso non mancarono di rendersi conto che la nuova società aveva le sue basi sia nelle città che nelle campagne.
La società rurale tradizionale basata sullo sfruttamento minerario e agrozootecnico continuava a perpetuarsi, poggiando sulla solida organizzazione costituita dall’originario sistema del lavoro indigeno che, nonostante le disposizioni legali e le preoccupazioni umanitarie di alcuni settori della chiesa e dell’amministrazione, si era mantenuto pressocché inalterato. Tuttavia, al suo fianco e fuori dai suoi confini aveva cominciato a formarsi una società spontanea che, nonostante fosse fortemente marginale, rese a poco a poco evidente la propria presenza.
Era una società disorganizzata ed instabile, ma indubitabilmente in crescita. Era il risultato dello squilibrio prodottosi tra un mondo rigorosamente ordinato alla maniera europea, sia nelle città che nelle haciendas, e un altro, colonizzato da poco, dove chi vi si installava poteva godere di una libertà che non aveva altri limiti se non quelli impostigli dalla natura e dagli insediamenti indigeni. Era il mondo delle regioni non ancora sottoposte a sfruttamento economico e delle zone in precedenza abbandonate; al suo interno avevano una particolare forza di attrazione i territori di frontiera ai quali era più facile arrivare, quelli cioè non completamente isolati dal mondo organizzato. Tuttavia, l’intera periferia del mondo sottoposto all’influenza europea favoriva, nel suo complesso, la tentazione dello sradicamento e della fuga dal sistema; in quella direzione si era perciò sviluppata un’emigrazione varia ed eterogenea. Ne avevano fatto parte quelli che erano arrivati illegalmente nelle colonie e tutti coloro che non avevano altra alternativa: il disertore, il bandito evaso, il debitore insolvente; oltre a questi avevano migrato anche gli indios e i negri che erano riusciti a sottrarsi alla propria condizione di schiavi e di servi fuggendo, da soli o in gruppo. Gli schiavi di colore che si trovavano in questa situazione venivano detti negros cimarrones. Insieme a costoro fecero la loro comparsa anche gli avventurieri in cerca di fortuna: cercatori minerari, piccoli commercianti che fornivano il necessario a chi si era insediato nella regione, ma, soprattutto, gente in cerca di qualcosa da razziare; di quest’ultimo gruppo facevano parte i famosi bandeirantes paulisti che catturavano gli indios per venderli come schiavi; vi erano però anche coloro che raccoglievano il bestiame sperduto per rivenderlo nelle città e coloro che inseguivano gli schiavi negri scappati dalle piantagioni o ricatturavano quelli che erano divenuti liberi, per rimetterli sul mercato.
Soltanto i villaggi degli schiavi fuggitivi riuscirono a darsi un certo grado di organizzazione comunitaria; oltre ai famosi nuclei di Palamarés e di Rio das Mortes ci furono anche gli innumerevoli insediamenti che si costituirono successivamente, per esempio, nei dintorni di Bahía e non bisogna poi dimenticare la presenza di alcuni nuclei indigeni, come quelli che si trovarono ad essere momentaneamente disgregati dopo l’espulsione dei gesuiti e quelli che invece vennero inglobati negli ultimi decenni del secolo XVIII nelle forze insurrezionali; coloro che però definirono i caratteri dominanti di questa nuova società furono gli emigranti isolati, talvolta accompagnati dalla famiglia nel loro tentativo di mantenere una totale autonomia nelle piccole fattorie, nei ranchos e nei miseri insediamenti che si formavano senza che attorno si vedesse anima viva. Ostili al lavoro metodico costoro trovarono nella pastorizia una forma di vita che mescolava lavoro ed azzardo: furono abili cavalieri ed esperti conduttori di mandrie, distinguendosi in questa attività a tal punto da trasformare le parole con cui normalmente li si designava in altrettanti sinonimi di pastori: sertanista, bandeirante, huaso, gaucho, gauderio, llanero, vaquero, charro, morochuco. Si trattava di un’attività libera e nomade, a metà stada tra lecito ed illecito, anche perché la distinzione perdeva importanza in queste aree dove stava, di fatto, nascendo un nuovo sistema normativo.
L’uomo lottava per la sopravvivenza e considerava preminente tutto ciò che gli consentiva di salvare la pelle: le bolas, il lazo ed il coltello finivano per imporre la volontà del più abile o del più coraggioso; del bottino facevano parte anche la donna dello sconfitto e tutti i suoi beni, cioè il suo cavallo ed il suo bestiame. Quando ve ne fosse occasione si formavano bande di bianchi, negri e meticci, i cosiddetti bandoleros, che andavano a far razzia seguendo, talvolta, le piste ed operando su piccola scala, ma arrivando in alcune occasioni ad assaltare fattorie e villaggi con azioni di maggiore portata.
Negli ultimi decenni del secolo XVIII le società urbane e il mondo rurale organizzato si resero conto dell’esistenza di questa società informale, assolutamente indipendente e culturalmente creola, che si era sviluppata nel mistero e al di fuori di ogni controllo, ai margini del mondo legale. Essa era costituita da gente rustica, con abitudini rozze che non avevano nulla a che vedere con la raffinata urbanità dei cittadini. Ogni tanto facevano la loro improvvisa comparsa, facendosi scorgere in qualche modo dai viaggiatori che, vedendoli, capivano di trovarsi di fronte ad una cultura diversa, basata su altre norme, altri ideali, altri usi e, soprattutto, su di un altro linguaggio. Si scopriva però che costoro avevano una spiccata matrice regionale ed erano, inequivocabilmente, figli della terra americana. Una certa curiosità, dettata probabilmente dall’amore per i confronti, fece sì che si prestasse attenzione ai costumi ed al linguaggio di queste genti che, ad un certo punto, parvero incarnare le personalità del gruppo sociale maggiormente integrato nell’ambiente; negli ultimi decenni del secolo XVIII costoro cominciarono a fare la loro comparsa nelle città, frequentando i sobborghi e diventando così oggetto di acute osservazioni da parte di coloro che per primi contrapposero, spesso linguisticamente, l’immagine dei due mondi che costituivano la nuova società: quello rurale e quello urbano. Verso il 1778 fece la sua comparsa a Buenos Aires un romance nel quale veniva cantata, «in stile campestre», la storia di un guaso; questo tipo di linguaggio sarebbe poi ricomparso nei cientos delle guerre dell’indipendenza; alcuni decenni dopo Fernández de Lizardi includeva nel suo Periquillo Sarmento un episodio composto utilizzando la parlata dei villaggi messicani; tale simulazione stilistica aveva un illustre antecedente nei testi teatrali di José Agustín de Castro; più o meno nella stessa epoca il nativismo brasiliano di Da Gama e Durao coglieva letterariamente lo stato d’animo provocato dal paesaggio e dai villaggi indigeni.
Già prima delle guerre dell’indipendenza alcuni gruppi provenienti da questa società rurale spontanea avevano cominciato a fare la loro comparsa, integrandosi al tessuto urbano sotto la spinta delle attività dell’allevamento che collegavano la campagna alla città. In seguito, per le stesse ragioni, e ancor più per l’atmosfera creata dal movimento indipendentista, gruppi via via più numerosi entrarono a far parte della tumultuosa società che la rivoluzione creava e vi si integravano a pieno titolo. I montoneros del Rio de la Piata, i llaneros del Venezuela ed i sertanistas del Brasile andarono ad ingrossare le file degli eserciti ed insediarono nei quartieri generali alcuni dei loro capi che, ovviamente, appartenevano ad una cultura rurale e che, quindi, contribuirono, come avrebbe poi detto Azara a ruralizzare quella società, accentuando contemporaneamente la natura creola. Il criollismo sembrò essere patrimonio caratteristico delle società rurali e fu utilizzato come strumento polemico nei confronti delle società urbane accusate di cosmopolitismo e xenofilia. Si sviluppò così una sorta di disputa tra mondo rurale e mondo urbano, destinata a protrarsi per molto tempo e ad esprimere una contraddizione apparentemente insanabile.
Ciononostante le cose non stavano proprio così, poiché entrambi i poli della disputa appartenevano ad un’unica matrice, essendo ormai divenute creole anche le società urbane. E vero che sia i nuovi gruppi di peninsulari, che giunsero dopo la liberalizzazione del commercio, portando con sé una nuova mentalità, sia gli agenti commerciali stranieri, specialmente inglesi, che erano i più legati a questo nuovo equilibrio, finirono per stabilirsi nei porti e nelle capitali, ed è vero che erano queste nuove idee e questa nuova mentalità a dare alla città quell’aspetto cosmopolita che i gruppi rurali contestavano, giudicando che i commercianti e i «dottori» delle città ignorassero o disprezzassero, nel loro fanatismo per l’Europa, la nuova società, ma è anche vero che tale giudizio era il frutto di un’esagerazione. Sia pure in modo diverso, anche le città avevano infatti subito un processo sociale simile a quello avvenuto nelle zone rurali e, anche nelle città, si era determinato un aumento dell’influsso creolo. La differenza risiedeva dunque soltanto nel fatto che in esse i toni dominanti non erano quelli delle classi popolari, ma quelli dei nuovi gruppi borghesi, formatisi, in origine, all’ombra delle borghesie peninsulari e straniere ma già in grado di indicare nell’ultima parte del secolo XVIII un proprio progetto, sostituendo le antiche classi egemoni o meglio, mettendosi alla loro testa ed orientandole al perseguimento dei propri fini.
Indubbiamente anche i gruppi popolari erano cresciuti e, crescendo, avevano rivelato la propria natura creola. Fu uno sviluppo rapido e incontrollato. I gruppi peninsulari si trovarono ad essere travolti non soltanto dai creoli bianchi ma anche dalla trasformazione dell’intero sistema delle cosiddette caste, cioè dal multiforme complesso del quale facevano parte schiavi e liberti di colore, mulatti, indios, meticci, zambos ed infiniti altri gradi di incrocio. I peninsulari e gli stranieri arrivavano a centinaia mentre gli schiavi aumentavano a migliaia e l’incremento demografico delle caste era addirittura vertiginoso. A titolo di esempio, Humboldt segnalava nel suo Saggio politico sull’isola di Cuba, che «a L’Avana e nella sua periferia l’incremento percentuale dei bianchi, cioè dei peninsulari e dei creoli, era stato in venti anni del 75%, mentre i liberi di colore erano aumentati nel corso dello stesso periodo del 171% ». La sensazione che il viaggiatore ebbe fu quella di trovarsi di fronte ad una società in crisi: «Se la legislazione delle Antille e la condizione degli abitanti di colore non subirà, a breve, un sostanziale miglioramento e se si continuerà a discutere senza far nulla, il predominio politico finirà per passare a coloro che avranno la forza economica, la volontà di scuotere il giogo coloniale e il coraggio di patire lunghe tribolazioni».
Anche nelle altre città dei Caraibi e del Brasile la preponderanza numerica della popolazione negra si era fatta più evidente: José de Silva Lisboa ricorda che «nella sola Bahía c’erano, nel 1781, cinquanta corvette dedite esclusivamente al trasporto di carichi negrieri dall’Africa». Nota è altresì l’immagine policroma che Cartagena de Indias, emporio del commercio negriero, offriva di sé. Tuttavia non era soltanto in queste regioni che aumentava la popolazione nera degli schiavi e dei liberti. Buenos Aires aveva in questo settore un importante mercato e Concolorcorvo, nel Lazarillo de ciegos caminantes, diceva di avere assistito a Cordova alla vendita di duemila negri « completamente creoli» tra i quali, aggiungeva, ce ne erano alcuni che erano «creoli di quarta generazione». Ignacio de Castro, nel 1788, segnalava che nel Cuzco «gli indios erano così numerosi che con loro si svolgeva tutto il commercio e, di fatto, la loro lingua era quella usata da tutti in città. Tutti coloro che sono nati in Perù la parlano ed essa è divenuta necessaria per capire e farsi capire, a tal punto che persino i più gran signori usano lo spagnolo per parlare con gli Spagnoli e si rivolgono ai domestici, ai servi ed alla gente del popolo utilizzando la lingua indigena». In modo meno drammatico la situazione doveva però essere simile in molti altri centri. Antonio de Ulloa e Jorge Juan avevano già segnalato a metà del secolo XVIII che, delle quattromila famiglie residenti a Santiago del Cile, la metà erano spagnole, cioè bianche, cioè peninsulari o creole, e la metà appartenevano alle caste ed erano per la maggior parte composte da indios. Tuttavia è probabile che la testimonianza più significativa sulla eterogenea società creola, nella quale incominciavano a mescolarsi tra loro i diversi gruppi sociali e razziali che da una generazione all’altra variavano la propria composizione mano a mano che giungevano a termine il processo di radicamento e quello di incorporazione, sia la descrizione di Lima fatta da Simón de Ayanque, pseudonimo di Esteban de Terralla y Landa, nella sua opera «burlesca e satirica» intitolata Lima por dentro y por fuera, pubblicata nel 1792.
Andaluso, trasferitosi prima in Messico e poi a Lima, questo poeta satirico descrive, non senza acredine, il mondo del mercato e delle strade di Lima, cioè il mondo delle classi medie e popolari. Egli sottolinea come all’interno della città convivessero gruppi diversi, integratisi nel corso della vita quotidiana sulla base di un sentimento che li faceva parte di un composito insieme, sempre più conscio del crescente peso che aveva assunto in seno alla città vicereale. Rivolgendosi ad un fittizio interlocutore peninsulare, probabilmente a se stesso, Ayanque dipinge così l’ambiente della piazza Maggiore e del mercato che vi si teneva:
Puoi vederci molta gente,
molti capi nei recinti,
senza mai sapere bene
ognun d’essi a chi appartiene;
Puoi vederci molte cuoche,
molte negre e molti negri,
molte indiane mangiasoldi,
molte vacche e vitellini;
Puoi vederci la mulatte
che lavorano in commercio,
con la carne delle vacche, o,
da vacche, con la loro;
Vedi indie pesciaiole
buttar l’amo e prender soldi,
e pescare a volte più
della pesca che han portato.
Percorrendo le strade, l’autore si stupisce nel vedere il grande crogiuolo delle razze:
Vedrai dopo per le strade,
un crogiuolo ricco assai,
indie, zambas e mulatte,
negri, incroci ed orientali.
Vedrai frotte di spagnoli,
sempre armati e sempre in posa,
con le ricche cappe rosse,
i cappelli e gli orologi.
Ma spagnoli al par di quelli
ne vedrai morir di fame,
col mantello punteggiato
dalle macchie e dalle toppe.
[…]
Per le strade, come vedi,
i colori sono tanti,
perché ora i colorati
son stimati più dei bianchi.
Ora i negri son padroni
ed i bianchi sono neri,
e verrà persino il giorno
che saranno i loro schiavi.
Sfoggian cappe ricamate
e ricchissimi cappelli,
sete fini e lavorate,
ricche lane e bei velluti.
Il fior fiore del commercio
rifornisce questa gente
che si è fatta una fortuna
e lo vuole far sapere.
[…]
Vedrai dentro ad ogni affare
negri incroci ed orientali;
gli Spagnoli, essendo pochi,
in malora se ne vanno.
Vedrai anche molti indiani
scesi giù dalle montagne
per scappare dall’erario
e far vita da signori.
Ayanque espone, con i suoi ritmi da cantilena, tutto ciò che sa sui rapporti tra i vari gruppi popolari e, specialmente, sulle loro possibilità di ascesa sociale e di integrazione nel quadro, ancora formalmente rigido, della tradizionale società nobiliare:
Una mulatta o una zamba,
o un altro rifiuto par loro
può essere vestita ed ornata
al pari d’una titolata.
Avere allattato col seno
un qualche signore di rango
è questa la gran nobiltà
di chi è appena uscito dal fango.
Persino il pubblico bene
è ormai nelle mani dei negri,
dei mezzosangue, dei gialli
e di simile gente da poco.
[…]
Del re del Congo nipoti
sono gli esimii dottori
che tastano per visitare
bambine, damine e signori.
La pubblica fede risiede,
come tra i Maccabei,
nella parola d’onore
degli Scribi e dei Farisei.
Gran parte del mulattame
e dell’orientale ciarpame,
vorrebbe cambiarsi la pelle
per ordine d’un tribunale.
[…]
Vedrai riccamente vestite
le donne di bassi natali,
e il sesso, lo stato e l’età
confusi in un sol pentolone.
Vedrai una giovane bianca
correre dietro ad un negro,
e per una negra vedrai
spasimare un gran cavaliere.
Vedrai i più grandi signori,
dai titoli altisonanti,
corteggiare le mulatte
e trattarle con i guanti.
Inseriti nella vita della città, legati ad essa per alcune decisive funzioni, questi settori popolari di varia estrazione ed aspettative originarono, nel corso del tempo, un complesso che si faceva, sia pure in gradi diversi, sempre più organico. Il dispetto della gente per bene riunì tutti questi gruppi nella riassuntiva definizione di «popolaccio» e a questo bisognava poi aggiungere il contingente dei vagabondi e dei mendicanti, bianchi e non, che ci vengono descritti così bene da Fernández de Lizardi nelle pagine che il Periquillo Sarniento dedica alla confraternita degli accattoni di città del Messico.
Nelle classi medie non mancavano i creoli puri. È probabile che a questo gruppo appartenesse il fabbro che il viaggiatore John Luccok incontrò a Rio de Janeiro e che portava il tricorno e si faceva portare da uno schiavo di colore i ferri del mestiere. All’interno di questo gruppo fu più intenso il processo di integrazione degli strati inferiori che vi confluivano nella loro ascesa. Le relazioni tra le varie componenti non furono facili. Di tanto in tanto scoppiavano controversie per risolvere le quali un bianco poteva ancora fare appello al colore della propria pelle. Ciononostante, le tipiche funzioni della classe media vennero ostinatamente appetite dai meticci, dai mamalucchi e dai mulatti, la cui integrazione finì per avvenire anche perché alla loro mobilità ascendente si sovrapponeva quella discendente dei creoli poveri che si proletarizzavano. In quanto prodotti di un incrocio, i meticci ed i mulatti svolsero un efficace e necessario ruolo di collegamento, in seno ad una società tradizionalmente scissa. Questa mediazione finì per diventare la funzione tipica della classe media; di essa entrarono a far parte, per necessità, i creoli impoveritisi. In definitiva divenne sempre più chiaro che la condizione del creolo era ormai divenuta la condizione generale di tutti coloro che si erano legati alla nuova terra e che condividevano con essa un unico destino. Questa convinzione si affermò con fatica ma con chiarezza e nell’ultima parte del secolo XVIII acquistò notevole forza. Diversamente dalle classi alte, i settori medi e quelli popolari finirono per imparare a convivere con i pregiudizi razziali, senza per questo superarli in modo definitivo.
Contrapponendosi ai gruppi popolari ed alle caste, i mulatti ed i meticci manifestarono una certa tendenza ad allearsi con gli Spagnoli; i mamalucchi e i meticci, pur conservando l’orgoglio della propria ascendenza indigena, si dimostrarono propensi a far parte della nuova società. Furono caporali, incaricati, maggiordomi e rappresentanti di commercio, disimpegnarono insomma tutte quelle funzioni che i bianchi non assumevano direttamente per evitare contrasti con le etnie subalterne. Gli incroci occuparono però anche molte altre posizioni correlate all’esercizio di funzioni più complesse e, quindi, sempre più vicine al mondo dei bianchi che a quello delle caste. Come ci dice Concolorcorvo, don Manuel de Campo Verde y Choquetilla, «spagnolo e discendente, in linea materna, dai legittimi caeicchi e signori degli indios», venne nominato ufficiale postale ad Oruro; lo stesso Concolorcorvo nota, successivamente, che «il commercio degli Spagnoli è basato sullo scambio tra i vari gruppi ed include i meticci e le altre caste che escono, salendo e scendendo, dalla massa degli indigeni». Un tentativo di ratificare questa ascesa sociale collettiva dei meticci venne fatto con la real cedola del 1795 che consentì ai pardos di Caracas di fregiarsi del titolo di «don», dietro corresponsione di un tributo.
La convivenza e la coesistenza di bianchi e meticci è un tema ricorrente nelle conversazioni del meticcio Concolorcorvo e dell’ispettore spagnolo Alonso Carrió de la Vandera che punteggiano il Lazarillo de ciegos caminantes. Un indio rispettato da uno spagnolo ed abituato a vestirsi e lavarsi per bene già comincia ad essere scambiato per un cholo, «che equivale ad avere sangue misto di meticcio. Se costui svolge per conto del suo padrone spagnolo un servizio utile e questi lo veste e gli fa mettere le scarpe, nel giro di due mesi l’indio diventa meticcio anche di nome». Quella del meticcio era dunque considerata una posizione di privilegio. Egli poteva infatti dedicarsi al commercio e trattare con i bianchi, poteva impiegarsi e poteva partecipare a tutte le attività tipiche dei settori creoli della classe media, anche se si continuava a nutrire per lui una certa diffidenza dovuta al perdurare «dei suoi vizi e malcostumi», dato che spesso i meticci «sono peggio degli zingari». Proprio Concolorcorvo, parlando degli indios e dei meticci, usava definirli «creoli naturali» e rendeva la sua ironia ancor più pungente scrivendo che «noi altri cholos rispettiamo gli Spagnoli come se fossero figli del Sole».
Creoli naturali e creoli bianchi erano il lievito delle classi medie che stavano allora formandosi nelle promiscue società urbane, dove l’intrecciarsi delle varie attività faceva sì che alcuni facessero fortuna e altri precipitassero nella miseria più nera. Così, «salendo e scendendo» come dice Concolorcorvo, i gruppi di questo livello sociale si mescolavano di continuo e facevano della classe media lo strato sociale più confuso, più mobile e più legato a quei meccanismi di trasformazione che determinarono la genesi della società creola.
Questo processo ebbe altre caratteristiche nelle classi alte. Queste erano formate per tradizione dai peninsulari, dagli addetti alle funzioni pubbliche, dai titolari di concessioni minerarie, dai proprietari di grandi aziende agricole e dagli esponenti del grande commercio internazionale, sempre più numerosi a partire dalla liberalizzazione; accanto a costoro si era già sviluppato nel secolo XVIII un vasto settore creolo, quantitativamente dominante e privo di una precisa fisionomia sociale, sia dal punto di vista delle tradizioni che da quello delle abitudini e delle ideologie.
Humboldt fece tre acute osservazioni sulla natura delle classi alte alla vigilia dell’indipendenza. Nel suo Viaggio alle regioni equinoziali scrive: «Nelle colonie il vero segno esteriore della nobiltà è ancora costituito dal colore della pelle», che segna un limite, generale ma preciso, tra le classi alte e tutte le altre, nelle quali predominano i pardos, anche se vi si trova ogni tanto qualche bianco creolo. Tuttavia analizzando i caratteri delle classi alte, cioè della «nobiltà», Humboldt segnala la presenza di un settore creolo palesemente diviso: «In tutte le colonie esistono due generi di nobiltà. Il primo è composto dai creoli i cui antenati hanno occupato di recente i vertici del sistema americano: parte dei privilegi di questo gruppo dipendono dal prestigio di cui i suoi membri godono nella madrepatria; il loro potere si fonda sulla convinzione di poter mantenere inalterato questo credito al di là del mare, qualsiasi sia stata l’epoca in cui la famiglia si è stabilita nelle colonie. Il secondo gruppo è più legato alla terra americana ed è composto dai discendenti dei conquistadores, cioè degli Spagnoli che fecero parte dell’esercito ai tempi delle prime conquiste». Si trattava dunque di una divisione tra vecchi e nuovi creoli, cioè di una distinzione basata sulle origini. Tuttavia conducendo la propria analisi da un altro punto di vista, Humboldt distingue poi all’interno della classe alta di Caracas «due categorie di uomini, appartenenti, si potrebbe dire, a due diversi tipi umani. Il primo gruppo, relativamente poco numeroso, conserva un profondo attaccamento alle antiche usanze, alla frugalità dei costumi e alla moderazione dei desideri. Vive esclusivamente delle immagini del passato e crede che l’America sia una proprietà privata dei discendenti di coloro che la conquistarono; costoro disprezzano tutto ciò che viene definito secolo dei lumi e conservano con cura, insieme al patrimonio, tutti gli antichi pregiudizi che hanno ereditato. L’altro gruppo, invece, preoccupandosi del presente e ancor più dell’avvenire, manifesta una propensione, talvolta istintiva, verso le abitudini e le idee nuove. Quando questa propensione si trova ad essere accompagnata da una solida cura per l’istruzione e quando viene sottomessa al controllo della disciplina e organizzata secondo i dettami di una ragione colta e rigorosa, finisce per produrre effetti socialmente utili». Quest’ultima distinzione si fonda sugli atteggiamenti e sulle ideologie.
E forse possibile vedere che, sia nelle colonie spagnole che in quelle portoghesi, si era andata formando una classe superiore creola, nata sul posto, legata al proprio ambiente e numericamente superiore ai gruppi peninsulari. Questa classe, forte dei propri privilegi, si dimostrò orgogliosa e superba. In Brasile questa sicurezza di sé caratterizzò i signori dello zucchero e i grandi imprenditori minerari, mentre in ambito spagnolo lo stesso atteggiamento caratterizzò i discendenti degli encomenderos e i titolari delle grandi concessioni minerarie; è dunque possibile vedere in questo tratto una caratteristica comune a tutti coloro che avevano la pretesa di mantenere in piedi una società basata sul privilegio. Questo superbo orgoglio incominciava però ad essere condizionato e declinato in modo tale da accordarsi con le nuove circostanze. Una prima importante minaccia era rappresentata dal decremento relativo dei privilegi dei creoli rispetto a quelli di cui godevano i peninsulari che facevano leva sui loro pregiudizi anticoloniali ed antiamericani per imporre di volta in volta la propria supremazia. Una seconda minaccia proveniva dal basso ed era collegata alla formazione di nuclei borghesi che si infiltravano all’interno delle classi superiori creole per scuotere il vecchio edificio della società nobiliare.
La prima minaccia generò una forte tensione tra creoli e peninsulari e data la forte disparità numerica tra i due gruppi finì per rispecchiare il contrasto di fondo tra la società che metteva radici nel nuovo mondo e i gruppi che, pur essendo insediati nelle colonie, vi rappresentavano provvisoriamente il potere politico ed economico della Corona. Questa tensione cresceva nell’ombra e si manifestava all’improvviso, come avvenne in molte occasioni; quando, per esempio, Giovanni VI arrivò in Brasile, insieme alla corte portoghese, nel 1808, le classi creole gli si opposero con tale determinazione da conquistare alla propria parte il principe don Pedro; in Paraguay ed in Colombia scoppiarono rivolte municipali, e gli stessi movimenti indipendentistici che finirono per trionfare furono preceduti da alcuni tentativi falliti. Questo conflitto, tuttavia, si manifestò nel corso di una lunga e articolata polemica sulle qualità e sul valore dei peninsulari e dei creoli. Concolorcorvo ne riassunse efficacemente le posizioni e persino il padre Feijóo intervenne nella questione. Si arrivò a sostenere che la razza europea degenerava in America, anche se, dall’altra parte, non mancarono gli insulti per gli Spagnoli ed i Portoghesi che erano visti dai creoli in tutta la loro smoderata avidità. Nei settori popolari della classe creola vennero coniate espressioni dispregiative per designare sia gli Spagnoli, definiti gachupines e chapetones, che i Portoghesi, detti mascates o emboabas. All’interno delle classi superiori la polemica assumeva altri toni ed è probabile che nessun testo sia in proposito altrettanto significativo del discorso pronunciato, poco dopo il 1810, a Lima, da Mariano Alejo Alvarez, dell’Università di Charcas e intitolato Discurso sobre las preferencias que deben tener los Americanos en los empleos de América. Mentre le tensioni politiche crescevano, l’odio aumentava e le sue manifestazioni si facevano più violente; lo spirito che anima il romance che circolò ad Oruro nell’agitato clima del 1781 ne è un tipico esempio:
Essere Indiano è una jella
ed essere ricco ci aggiunge
quanto di peggio ci sia
per fare un affronto a Maestà.
[…]
Che ciò è vero lo dimostra
la persecuzione infame
che moltiplica il coraggio
con cui l’Europeo villano
urta Oruro ed ogni Indiano
che non sia del suo villaggio.
La seconda minaccia era portata dalla formazione di settori borghesi creoli, capitalistici e, dunque, particolarmente ostili alle madrepatrie ed inclini a rivendicare i propri diritti e privilegi nell’ottenere gli incarichi dell’amministrazione americana. Questi gruppi erano influenzati, direttamente o indirettamente, dalle nuove idee del secolo XVIII ed erano fortemente interessati alle prospettive offerte dal settore commerciale. Contro costoro alcuni altri settori estremizzarono le proprie pretese nobiliari; di questi ultimi si burlò, sicuramente, con la sua sottile ironia il meticcio Concolorcorvo. Nonostante questi punti critici, la borghesia creola finì per affermarsi, avendo intuito che le era riservato il ruolo di nuova élite. Molti membri di questa nuova classe appartenevano a famiglie considerate nobili, come quelle dei «mantovani» di Caracas, mentre altri, come per esempio i proprietari delle miniere messicane, potevano sfoggiare un titolo nobiliare di recente acquisizione, comperato ad un prezzo che la corona aveva fissato mettendo da parte ogni scrupolo. Neppure costoro nascosero però la propria determinazione ad imporsi come minoranza dirigente della società creola, che dovette sottostare ai loro progetti, che con l’andare del tempo si inserirono sempre più nella dominante ideologia del mercantilismo internazionale. L’intermediazione commerciale parve allora essere la più profittevole attività. La città era, naturalmente, il cuore di queste iniziative e fu da essa che vennero manovrate le leve di controllo dell’attività economica, in stretto contatto con i grandi centri commerciali stranieri e in condizione di sostanziale monopolio rispetto alle funzioni pubbliche che tale attività avrebbero dovuto regolare.
La crescita di questo settore fu visibile a partire dal momento in cui il commercio venne liberalizzato; in Brasile ciò avvenne dopo l’apertura dei porti, nel 1808, mentre nel mondo spagnolo fu una conseguenza dell’indipendenza. Mano a mano che si sviluppava, la borghesia creola diventava sempre più vana l’illusione della società barocca, i cui membri erano criticati da Ayanque sulla base delle nuove idee:
Il tempo viene a vendicare
questo enorme spreco.
Una nuova concezione della vita avrebbe finito per imporsi, dopo lunghi conflitti, all’interno di questa società che aveva ormai messo radici, che era composta da creoli bianchi e «creoli naturali» e che aveva trovato nei gruppi borghesi di recente formazione una classe dirigente adatta alle necessità ed alle possibilità della nuova epoca che si sarebbe aperta con la crisi degli imperi della Spagna e del Portogallo.
La nuova fisionomia urbana
La progressiva maturazione di una società creola che, costituendosi, prendeva coscienza delle proprie possibilità si sovrappose al forte incremento delle attività commerciali; da questa sovrapposizione doveva derivare un profondo rinnovamento della fisionomia cittadina. Le società urbane cambiavano in modo sostanziale e i loro cambiamenti cominciavano a riflettersi sulle caratteristiche fisiche della città; gli equilibri degli insediamenti barocchi incominciavano ad essere modificati da una palese espansione, talvolta da una certa opulenza e da una decisa apertura alle esigenze del mondo mercantile, sia per quanto riguardava gli affari, sia in materia di gusti e di idee.
Le strade e i mercati erano i primi specchi del cambiamento. La gran moltitudine di negri, diciannove ogni venti persone, che Frézier osservava, nel 1774, per le strade di Bahía, mentre passava la portantina dentro la quale quattro negri portavano un signore bianco, rivelava quello stesso quadro sociale che molti altri viaggiatori si trovarono di fronte in numerose altre città spagnole o portoghesi: privilegiati e non privilegiati differivano tra loro in molte cose, ma il numero era ormai la più evidente di tutte. Le strade, i mercati, le chiese, i viali erano ormai brulicanti di questa moltitudine di genti che, qualunque fossero i loro diritti espliciti, si integrava ogni giorno di più, a proprio titolo, nella vita urbana.
Questa moltitudine era complessa e varia. Prima di notte ogni nucleo rientrava nei propri quartieri, ma, finché durava l’attività quotidiana, i gruppi si compenetravano e a questo non potevano sottrarsi neppure quelli più chiusi ed esclusivisti. Comprare e vendere erano funzioni che creavano circuiti di comunicazioni e che, per un attimo, rendevano uguali tra loro i due attori coinvolti nell’operazione. È probabilmente per questo che i viaggiatori e gli osservatori fecero tanto caso al ruolo delle donne che riempivano con la loro presenza le strade ed il mercato, anche se ciascuna di loro doveva poi tornare all’interno del proprio nucleo, dove portava non soltanto ciò che aveva comprato, ma anche ciò che aveva visto e sentito. La mulatta e la meticcia osservavano infatti i vestiti, i costumi e il linguaggio dei loro clienti di rango e cercavano di imitarli, mentre i loro clienti apprendevano gli usi regionali e popolari ed erano affascinati dalla cucina tipica, dalle parole gergali e regionali e dai giri di frase inventati dalla creatività popolare, nonché dalla vivacità delle fogge e dei colori che caratterizzava gli indumenti delle classi subalterne; Ayanque, parlando di Lima osserva:
Vedrai sulla piazza Maggiore
disputare argutamente
con finezza di concetti
fruttivendole e beccai.
La gente delle strade, infatti,
nonostante sia scura di pelle
ha una grande chiarezza di idee.
Accettando le terracotte e i tessuti del popolo, le classi superiori si preparavano ad accettarne le credenze e le superstizioni, le forme gestuali di espressione ed i miracolosi medicamenti che venivano prescritti dalle vecchie esperte dei mali del corpo. Persino il culto si ibridava; la sovrapposizione tra cristianesimo e religioni locali non avveniva più soltanto all’interno delle caste, ma faceva ormai parte anche del mondo bianco; se da un lato si finiva per far diventare un oggetto di culto un’immagine meticcia, dall’altro si arrivava, in una città conservatrice come Olinda, ad ammettere che nei giorni festivi fosse ballata, nello spiazzo antistante al tempio, una danza tipica dei negri: il batuque.
Le donne della classe alta non rinunciavano ad andarsene in giro per questo variopinto mondo. Tanto a San Paolo quanto a Lima si originò una rovente polemica riguardo al velo e allo scialle con cui le signore avevano l’abitudine di coprirsi. Sia il trucco, che rendeva difficile distinguere una marchesa da una mulatta, sia il comportamento provocante finivano per avvicinare ulteriormente i gruppi sociali. Era possibile vedere le dame frugare nei negozietti o al mercato fino a che non trovavano ciò che cercavano e le successive trattative, volte a vantare la qualità o a tirare sul prezzo, finivano per arricchire un dialogo che il più delle volte, aveva avuto inizio entro le mura della casa nobile, tra la padrona e la sua servitù. Nel frattempo gli uomini della classe privilegiata, che erano costretti dalle loro occupazioni e dai loro affari a frequentare le caste, protraevano poi questa convivenza nel tempo libero, cercando, negli ambienti delle case da gioco e dei locali notturni, amanti e tresche più o meno lunghe.
Dove c’era molto denaro, come a Potosí o a Villarica, il gioco e la dissolutezza si spinsero fino ai loro limiti estremi. I signori delle miniere lasciavano sul tappeto verde enormi fortune e spendevano almeno altrettanto per le prostitute, in maggioranza mulatte, con cui passavano il resto della notte. Alcuni viceré, come Amat a Lima e Solís a Bogotá, furono al centro di famosi scandali. Il gioco e la prostituzione furono due importanti vie di comunicazione che consentirono l’avvicinamento tra le classi privilegiate e le caste. Attorno a queste attività ruotava infatti l’intero mondo della malavita, pieno di ladri e di assassini, che lavoravano «di spada, di carabina e di pistola» come ci dice Concolorcorvo. A questo universo era collegato anche il mondo dei vagabondi e dei mendicanti, che Fernández de Lizardi ci presenta nel Periquillo Sarniento, vero e proprio specchio della vita che si conduceva nella capitale messicana alla vigilia dell’indipendenza. A Lima fra’ Castillo Andraca y Tamayo ci offre nelle sue Coplas del ciego de la Merced, la sua versione di questo piccolo mondo cittadino, mentre Concolorcorvo ci parla di questo stesso universo a proposito di tutte le città che attraversò nel corso del suo lungo viaggio.
Una società tanto eterogenea non aveva ragione di darsi forme di vita troppo rigide. Se erano instabili i gruppi sociali, lo erano di necessità anche le loro forme di comportamento. Soltanto nelle città di provincia e in quelle che restarono ai margini dei circuiti commerciali fu possibile conservare le tradizionali forme di vita. Per contro, in tutti quei centri che si svilupparono ed in cui vi fu un accelerato processo di trasformazione che portò alla genesi della nuova società creola mediante l’interpenetrazione delle classi e delle caste, finì per predominare una sorta di anomia che era un segno della intensa mobilità sociale. Soltanto le classi alte avevano un’idea precisa della propria posizione e, di conseguenza, delle norme che la regolavano; i ceti medi e popolari manifestarono invece una notevole fluidità che altro non era se non un’anticipazione della grave crisi che avrebbe fatto seguito all’indipendenza. Questa crisi, che a lungo termine si sarebbe dimostrata feconda, dato che stava prendendo forma grazie ad essa un nuovo ordinamento sociale, si manifestava nel corso della normale vita sociale che, quotidianamente, varcava i limiti ed i confini imposti dal sistema nato con la conquista. All’interno dei ceti medi e popolari di una città che, essendo capitale o porto, si sviluppava insieme ad attività nuove che aprivano prospettive favorevoli a persone e gruppi precedentemente marginalizzati dal sistema monopolistico, nessuno poteva sapere con precisione chi fosse chi.
La variopinta moltitudine, ricca di sfumature cromatiche, di costumi e di ruoli economici inondava la città nei giorni di festa, in occasione degli spettacoli dei tori e delle processioni. Il nucleo centrale della festa pubblica era ordinato. La tribuna predisposta per il giuramento di fedeltà a Carlo IV era riservata ai notabili, che erano coloro che in ogni circostanza stavano attorno al vessillo reale e partecipavano alla parata o al torneo equestre che sempre solennizzava la cerimonia di giuramento, come avvenne, per esempio, nel 1789, a Bogotá, su iniziativa dell’alfiere maggiore don Luis de Caicedo. Tuttavia intorno a questo centro formale si accalcava il popolo al quale venivano lanciate monete: questa variopinta e popolosa società godeva autonomamente ed alla propria maniera dell’occasionale ozio, dello spettacolo, delle luci e di tutto ciò che interrompeva i monotoni ritmi della vita quotidiana. Costoro lottavano per raccogliere le monete che venivano loro lanciate e osservavano con curiosità la cerimonia, ma, soprattutto, godevano la propria festa comprando dolci e spiedini dai numerosissimi ambulanti che circolavano tra la folla, oppure consumando bevande fermentate come il pulque o la chicha e ballando e cantando tra loro prima di ritornare alla sera alle proprie case con la certezza di essere parte del popolaccio e di non avere niente a che vedere con il mondo della gente per bene. Soltanto in rare occasioni capitava che fossero i bianchi ad assistere alle feste delle altre etnie, come Concolorcorvo racconta, parlando del Cuzco.
Soltanto dal punto di vista della gente per bene il popolaccio era costituito da una massa sociale omogenea. Ciascuno dei membri del popolaccio sapeva invece benissimo di far parte di un insieme fluido all’interno del quale dipendeva soltanto da lui e dalla sua buona stella salire o scendere lungo la scala della fortuna e del prestigio sociale. Nella quotidiana lotta per l’esistenza ognuno cercava di appoggiarsi a coloro che gli stavano sotto per cercare di arrampicarsi e di imitare coloro che gli stavano sopra, in modo che potessero quanto prima confonderlo con loro stessi.
Spintivi dalle iniquità del tempo, alcuni impararono a leggere e a scrivere ed è probabile che tra costoro vi fossero quei pochi che riuscirono a mettere a profitto tali conoscenze per leggere i libri e i giornali che proprio allora incominciavano a fare la loro comparsa in alcune capitali: il Mercurio Volante a Messico, il Mercurio Peruano a Lima, il Papel periódico de Santa Fe a Bogotá, le Primicias de la cultura de Quito a Quito e il Telégrafo Mercantil a Buenos Aires. Questo interesse per gli avvenimenti del mondo era ovviamente tipico della classe alta, ma le notizie correvano, circolavano nei caffè che avevano aperto i battenti in numerose città, ospitando esponenti di classi diverse e favorendo il reciproco confronto delle opinioni. Nei teatri e nelle arene che incominciavano a fare la loro comparsa, oltre che lungo i pubblici passeggi, la multiforme società delle Indie aveva modo di entrare in contatto con le classi alte e ciascuno poteva così indossare in pubblico gli abiti con cui voleva dimostrare la propria posizione sociale, vera o fittizia che fosse.
Gli abiti costituirono un problema caratteristico per queste società urbane dove l’ostentazione del livello sociale e la preoccupazione carrierista diventò, col tempo, non solo un’ossessione individuale, ma anche l’espressione di una filosofia dell’esistenza e di un’ideologia. Analoga funzione ebbero la casa e la vettura, i gioielli ed i servi, cioè, in una parola, tutto ciò che poteva essere segno di una determinata posizione nella società. In scala più piccola, ma in forma estremamente teatralizzata, questa opposizione tra carriera e realtà coinvolgeva anche i livelli superiori dei gruppi subalterni e, in special modo, i meticci ed i mulatti. Era comprensibile che ciò avvenisse, dato che si trattava di uscire dalla massa per assumere una nuova identità e saltare il fosso che separava le caste dalle classi privilegiate. Anche queste ultime, del resto, si davano molta pena per le apparenze, dato che era molto difficile sia mantenere che conquistare una posizione eminente, specialmente a partire dal momento in cui i processi di accumulazione si fecero più rapidi. Enormi quantità di risorse furono investite allo scopo di apparire ciò che non si era:
Quelle che vogliono stare
nel lusso e nello splendore
han mille cose da fare
pur di poterci riuscire.
Sempre vogliono indossare
belle gioie di gran pregio
sopravvesti in seta fine
addobbi e pietre preziose,
copricapi e filigrane,
pettorali ricamati,
piume, cinture e castoni,
con altri mille ornamenti.
A noi sembra roba loro,
ma finiamo per scoprire
che hanno preso tutto a nolo
e non san come pagare.
Così Ayanque descriveva gli sforzi che le donne di Lima facevano per difendere la propria posizione ed il proprio prestigio. Fernández de Lizardi, più pensoso, metteva in bocca ad uno dei suoi personaggi alcune riflessioni di maggiore profondità riguardo a questa ossessiva preoccupazione che a suo dire rivelava caratteri di una società più movimentata che mobile, nel momento in cui subiva il mutamento di ritmo introdotto dal mercantilismo: «Non creda vossignoria che la gran povertà che caratterizza le città popolose consista in nient’altro che nel lusso disordinato con cui ognuno cerca di uscire dal proprio ambito […] Le donne imprudenti contribuiscono a mandare in rovina i patrimoni con le loro inopportune vanità. Costoro, infatti, cercano di emulare il lusso regale. La moglie o la figlia di un medico, di un avvocato o di un altro professionista vorrebbe avere casa, servi e decoro esteriore pari a quello di una marchesa ricca; per questo le donne compromettono in ogni modo la posizione del padre o del marito pur di soddisfare la loro vanità e, presto o tardi, saltano fuori i creditori che si gettano sul poco che c’è facendo perdere il credito al padrone di casa e determinando la rovina della famiglia. […] A parte questo, resta vero che, a guardar bene, è cosa da pazzi che uno voglia apparire ciò che non è e spenda per questo il suo denaro, esponendosi al rischio di apparire per ciò che in realtà è, in modo disonorevole anziché onorevole».
In realtà, questa preoccupazione ossessiva delle classi alte era un lascito della tradizione nobiliare che continuò a sussistere, dissimulata, all’interno della società che si trasformava e che accettava come proprio il modello di vita della borghesia europea del secolo dei lumi. Una spiccata preoccupazione per il decoro era tipica dei gruppi che costituivano la «nuova nobiltà» dei centri urbani. Si trattava ovviamente di una nobiltà assai discutibile. Concolorcorvo, per esempio, parlava in questi termini di quella di Lima:«In questa città ci sono molti titoli di marchese e di conte, mentre sono ancor più numerosi i cavalieri crociati degli ordini di Santiago e Calatrava, i quali, con poche eccezioni, godono di rendite sufficienti per vivere splendidamente; a costoro devono essere aggiunti molti cavalieri ed eredi per diritto di primogenitura che sono in condizioni di vivere e dare lustro alla città con ciò che ricavano dalle loro proprietà fondiarie e da altre dignitose attività. Non dubito che nel luogo in cui sono nati e negli altri di questo vasto vicereame vi siano numerose famiglie illustri, ma il numero di tutte loro insieme non può eguagliare quello di questa capitale, dove i conquistadores sono tenuti in poco conto, dato che anche se tra loro ve ne furono alcuni di buona famiglia, coloro che si stabilirono quaggiù in seguito godevano di migliore lignaggio». Parlando delle classi superiori della città di Cordova, in Argentina, lo stesso autore aveva scritto, non senza ironia: «Non so come questi coloni possano fornire prove circa l’antica illustre nobiltà di cui si vantano».
La cosa sicura è che le classi alte, appartenessero o meno all’antica nobiltà, cercarono comunque di mantenere uno «stile nobiliare di vita», cioè una buona casa, delle buone suppellettili, dei servi e delle carrozze. Humboldt che nei primi anni del secolo XIX ebbe occasione di frequentare questi gruppi a Caracas, Bogotá, Quito, Lima, Messico e L’Avana, restò impressionato dal tratto semplice, urbano e cordiale di questi ceti; tuttavia egli manifestò maggiore interesse per le attenzioni che molte famiglie dedicavano al mondo mercantile e alla cura con cui si sforzavano di raggiungere un’educazione conforme ai canoni ed ai tempi deH’illumimsmo. L’acuto osservatore registrava indubbiamente la penetrazione delle nuove idee ed il diffondersi dei nuovi atteggiamenti borghesi che, senza dubbio, sembravano essere compatibili con la conservazione di alcuni tratti del mondo nobiliare. Feste e ricevimenti davano frequenti occasioni di incontro alle famiglie dell’aristocrazia: a Buenos Aires, che pure non aveva a quell’epoca (1773) lo splendore delle grandi corti, Concolorcorvo aveva visto, in occasione di una festa da ballo, « ottanta nobildonne vestite e pettinate alla moda e capaci di eseguire con abilità danze francesi e spagnole». Tuttavia, oltre a quello per le riunioni mondane incominciò a diffondersi il gusto per i salotti che, nonostante fossero detti letterari, erano diventati circoli nei quali si parlava più facilmente di politica, filosofia, scienza ed economia che non di letteratura. E in questo periodo che padre Juan Baltasar Maziel costituì a Buenos Aires la sua famosa biblioteca, per altro a mala pena confrontabile a quelle, assai più vaste, di altre capitali; grazie a questi centri di diffusione avevano potuto nascere eruditi dello spessore culturale di Carlos de Sigüenza y Góngora a Messico e Pedro de Peralta Barnuevo e Pablo de Olavide a Lima. La generazione successiva, quella dei cosiddetti precursori dell’indipendenza, preferì all’erudizione la lettura delle opere politiche più radicali. Fecero parte di questi gruppi: Nariño, Torres, Santa Cruz y Espejo, Tiradentes, Egaña, Villava, Moreno e Monteagudo. All’ombra di questi cenacoli alcuni gruppi si dedicarono agli studi scientifici, come avvenne a Bogotá dove si creò attorno a José Celestino Mutis, un gruppo di ricerca che fu poi diretto e coordinato da Francisco José de Caldas.
La vita mondana dei ricevimenti e dei passeggi, delle visite e delle novene faceva fronte, insieme alla vita intellettuale, ai bisogni associativi di una classe dirigente a volte tutt’altro che oziosa, dato che molti dei suoi membri stavano cercando di rinnovare la propria visione dell’economia per cogliere meglio le nuove prospettive offerte, prima e dopo l’indipendenza, dalla apertura dei porti e dalla fine del monopolio commerciale iberico. Poco a poco le città incominciarono a politicizzarsi. Questi gruppi si divisero sulla base delle loro tendenze ideologiche in progressisti e tradizionalisti, facendo aumentare le tensioni all’interno della vita urbana. Ogni decisione presa dal potere fu accusata o difesa in base agli interessi che danneggiava o alle intenzioni che si riteneva di poter vedere in essa. Quelli che al principio furono semplici commenti frammentari e a mezza voce, divennero più tardi opinioni e furono sostenute pubblicamente e con forza. Questa politicizzazione delineò la linea del fronte e trovò la propria espressione più significativa nei movimenti rivoluzionari, urbani e guidati in genere dalla neonata borghesia creola, anche se, spesso, questa classe non si esponeva direttamente e si affidava, per essere rappresentata, a figure al di sopra di ogni sospetto. Quando i settori borghesi giunsero al potere, il crollo della struttura tradizionale liberò le energie della nascente società creola che subito dopo il trionfo era ancora immatura, priva di precisi obiettivi, divisa in gruppi i cui interessi erano in conflitto tra loro e mossa, in definitiva, dal forte desiderio di affermazione sociale ed economica di ciascuno dei suoi membri.
Gli anni che seguirono i moti di emancipazione modificarono la fisionomia delle città. Molte assunsero un’aria giacobina che accelerò il processo di trasformazione estendendolo a gruppi più vasti di quelli inizialmente coinvolti nel processo rivoluzionario. In altre città, al contrario, i settori conservatori serrarono le proprie fila. In tutti i più importanti centri le classi dirigenti riuscirono però a spegnere gli iniziali entusiasmi. Nulla di tutto questo riuscì però ad avvenire senza conflitti. Alla monotona calma della città barocca seguì uno stato di agitazione permanente; durante questo periodo fecero la loro comparsa sulla scena tutti i gruppi che ritenevano di avere diritto a partecipare al processo politico che si era aperto: i notabili che occupavano le cariche ufficiali, il popolo che si riuniva nella piazza Maggiore, i cospiratori che tramavano nelle caserme, gli intellettuali che passavano il loro tempo nei circoli letterari e gli agitatori, che non perdevano occasione per frequentare feste e banchetti. In questo modo manifestava la propria maturazione una nuova società che, dopo una lunga inerzia, appariva ormai votata all’azione e decisa a dare la propria impronta alla città creola.
I segni di questo cambiamento divennero visibili anche nella città fisica. La crescita dei centri urbani, generalmente molto lenta fino alla metà del secolo XVIII, incominciò ad accelerare nelle ultime decadi del settecento, soprattutto dove vi fu l’impatto diretto della ripresa commerciale. Vennero costruite case più numerose e migliori e la città andò riempiendo gli spazi vuoti dei lotti inutilizzati. La popolazione urbana aumentò, mentre si fecero più intense la partecipazione e la differenziazione dei gruppi residenti. Molte città rimasero sostanzialmente legate al monopolio ed incominciarono a decadere. Verso la fine del secolo XVIII città dell’importanza di Concepción e Valparaíso, in Cile, non superavano i cinquemila abitanti. Asunción e Montevideo, che poco dopo sarebbero diventate capitali, avevano circa diecimila abitanti, al pari di Cordova, Oruro, Barquisimeto e San Paolo. Bogotá aveva ventimila abitanti, Santiago del Cile, Rio de Janeiro, Caracas e Buenos Aires avevano circa quarantamila abitanti; Lima arrivava a malapena a sessantamila, mentre solo Salvador de Bahía e Messico superavano centomila abitanti. La capitale messicana era la meta preferita dei viaggiatori europei. Humboldt ebbe a scrivere, nel 1803: « Messico deve essere considerata senza dubbio alcuno una tra le più belle città che gli europei abbiano fondato nei due emisferi. Fatta eccezione per Pietroburgo, Berlino, Filadelfia e alcuni quartieri di Westminster, esistono ben poche città che possano essere paragonate per estensione alla capitale della Nuova Spagna, sia per la regolarità altimetrica che per il rigore con cui sono tracciate le strade che sono ampie e regolari e conducono ad ampie piazze pubbliche. L’architettura è generalmente caratterizzata da uno stile abbastanza puro e ci sono alcuni edifici assai ben progettati». Tre secoli erano stati sufficienti alla realizzazione di questo immenso sforzo.
Spinte dalla propria espansione e dalla dinamica demografia, le città latinoamericane dovettero incominciare a preoccuparsi di alcuni nuovi problemi. I funzionari progressisti presero nota delle difficoltà che il disordine urbano creava quotidianamente e, più nell’area spagnola che in Brasile, incominciarono ad applicare alcuni criteri moderni per razionalizzare ciò che fino ad allora si era sviluppato spontaneamente e senza coordinamento. Revillagigedo a Messico, Amat a Lima, Vértiz a Buenos Aires, González Torres de Navarra a Caracas, Mestre Valentín a Rio de Janeiro e, altrove ed in minor misura, altri presero vari provvedimenti per migliorare l’aspetto ed il funzionamento delle città. A partire dal 1753 San Paolo ebbe un «funzionario delle strade», incaricato di riordinare la confusa rete delle vie e dei vicoli. In altre città si fece addirittura di meglio. Si cercò infatti di regolarizzare il tracciato della città, delimitando gli spazi liberi, disegnando e migliorando i viali pubblici e stabilendo alcuni criteri normativi per le costruzioni. Tuttavia il problema maggiore fu quello del riassetto funzionale della città. La variopinta società tardo coloniale sottoponeva la città ad un’usura maggiore e infrangeva i limiti degli spazi pubblici con crescente frequenza rispetto a quanto era fino ad allora avvenuto e questo fece emergere un problema di igiene e di pulizia. La fornitura idrica realizzata per mezzo di fontane pubbliche e la rete fognaria e di scolo vennero migliorate in tutte le capitali, dove cominciò anche a prendere forma un rudimentale sistema di illuminazione pubblica. Vennero fondati ospedali, ospizi e cimiteri. Ancor più importante fu la nascita e l’organizzazione di una politica cittadina fino ad allora forse non necessaria; la multiforme società del tempo favoriva anche lo sviluppo di nuclei organizzati di malavita, minacciosi per la pace della città. Il ladro e l’assassino si nascondevano non solo nei loro malfamati quartieri, ma anche nelle case da gioco, nei bordelli e nelle osterie. Cominciava ad essere sempre più difficile riconoscere la condizione propria di ciascuno all’interno della rimescolatissima società delle caste i cui membri occupavano in permanenza le strade ed il mercato.
Gli etnici si stabilivano, di preferenza, nei sobborghi periferici che avevano cominciato a formarsi. Oltre i venti o trenta isolati prospicienti alla piazza Maggiore, le costruzioni si facevano meno fitte e, poco più in là, incominciava la zona in cui si mescolavano campi ed edifici. In questa fascia incominciarono a fare la loro comparsa i quartieri periferici, miseri assembramenti di tuguri, spesso raggruppati attorno ad un’osteria o ad una cappella, talvolta in prossimità del mattatoio, di un mercato extra urbano o di un deposito di carri da trasporto. In questi quartieri vivevano i più poveri e tutti coloro che lavoravano i campi e portavano i prodotti al mercato cittadino, nonché coloro che cercavano in questo ambiente l’occasione di esercitare una professione o una attività commerciale. Inoltre però il sobborgo svolgeva il ruolo di stazione intermedia per coloro che dalle campagne emigravano in direzione della città e per coloro che, fuggendo, si muovevano in direzione contraria; in questo modo la popolazione di questa periferia risultava essere composta da un singolare amalgama, caratterizzato dalla instabilità e dall’emarginazione che, a volte, sconfinava nella malavita.
Alla comparsa dei sobborghi corrispondeva all’interno della città una prima differenziazione tra i quartieri. Vi furono inoltre sobborghi aristocratici, usati, di norma, come luoghi di villeggiatura, dato che le classi alte occupavano, di solito, il centro della città. Mentre gli isolati che si affacciavano sulla piazza conservavano, nel complesso, un grande prestigio, le principali strade andavano acquisendo una propria fisionomia: le famiglie più importanti allineavano le proprie case lungo alcune di esse, mentre i commercianti e gli artigiani di ogni singola attività tendevano a riunire in altre le proprie botteghe. Poco al di là di questa raggiera sorgevano le parrocchie più lontane, attorno alle quali vi erano i quartieri in costruzione, zone popolari, abitate dalle caste o, per dirla altrimenti, dalle masse non privilegiate. In queste zone risiedevano pochissimi bianchi o, talvolta, nessuno, neppure di passaggio, dato che all’interno dei quartieri etnici rinasceva quel sentimento di gruppo di cui i non privilegiati si spogliavano ogni volta che nel quotidiano traffico del mercato e delle strade dovevano avere contatti con la loro clientela o compiacere i loro protettori. All’interno dei quartieri i vari gruppi erano soliti celebrare le proprie feste tradizionali, gestendole a modo loro e imponendo, senza clamore ma con forza, le proprie norme di vita, anche se questo non impediva che la loro autonomia venisse ripetutamente violata dall’autorità delle guardie e degli sbirri.
Alcune città, sentendosi minacciate, edificarono in questo periodo nuove fortificazioni militari, concepite secondo i canoni propri dell’ingegneria militare del secolo XVIII; in alcuni casi vennero perfezionate o costruite delle cinte murarie. Si trattava di opere possenti, come ancor oggi è possibile vedere a Cartagena de Indias; di fronte ad esse l’architettura civile e religiosa appariva modesta anche se non sempre questa impressione era giustificata. La città che si popolava e cresceva poteva infatti contare su classi dirigenti che non si facevano scrupolo di investire grosse somme per la costruzione di ricche chiese e fastosi palazzi. Due ricchi proprietari di miniere messicani, José de la Borda e Antonio de Obregón y Alcocer, fecero costruire, nella seconda metà del secolo XVIII, due capolavori del barocco, cioè, rispettivamente, Santa Prisca a Taxco, e San Cayetano de la Valenciana, a Guanajuato. Fortunati avventurieri dediti al traffico degli schiavi indigeni riempirono di chiese la città mineraria di Villa Rica dove vi sono le sculture di Aleijadinho. Lo splendore economico degli ultimi decenni del secolo avrebbe permesso, di lì a poco, non solo di arricchire di nuovi edifici di culto città che, come Bahía o Quito ne erano già piene, ma anche di completare alcuni edifici già esistenti con nuove facciate e dipendenze e di costruire templi nuovi e definitivi in tutte quelle città che, fino ad allora, non avevano conosciuto altro che luoghi di culto provvisori. Nacquero così a Buenos Aires le chiese di Sant’Ignazio e di Nostra Signora del Pilar, mentre a Santiago del Cile l’architetto Joaquín Toesca costruiva la cattedrale, con il severo stile neoclassico che i suoi discepoli continuavano sia nella stessa Santiago che altrove.
Il capolavoro di Toesca appartiene, tuttavia, all’architettura civile; fu infatti con il Palazzo della Moneda (Borsa valori) che venne consacrata, nella capitale cilena, la concezione neoclassica, quaranta anni dopo la costruzione del palazzo del governo di Villa Rica. Nel frattempo lo sviluppo delle città aveva stimolato la costruzione di un altro genere di edifici pubblici. L’attività mineraria rese necessario la costruzione della Casa della Moneda di Potosí, verso la metà del secolo XVIII. L’opportunità di mantenere una riserva cerealicola fece sí che si costruisse a Guanajuato la Alhóndiga de Granaditas (magazzino generale), i cui lavori ebbero inizio nel 1798. Tuttavia gli edifici più significativi furono i cabildos (palazzi municipali). Ogni città doveva averne uno, modesto o monumentale che fosse. Dove esisteva un edificio o un complesso degno di essere conservato, come per esempio nel caso delle Casas Consistoriales de Tlaxcala, splendida costruzione del secolo XVI, si provvide a costruire un nuovo edificio, normalmente con tanto di portici e di torre dell’orologio; questo palazzo diventava, in breve tempo, il simbolo della vita municipale.
La qualità media di tutti gli edifici migliorò con lo sviluppo della società e l’aumento della ricchezza. I più ricchi esibirono le proprie fortune sostituendo i vecchi palazzotti con i nuovi e più sontuosi edifici. Pochi di questi poterono essere paragonati a quelli di Città del Messico che, proprio per i bei palazzi che ostentava lungo le vie di San Francisco e di Tacuba, venne chiamata «la città dei palazzi». Manuel Tolsá, architetto di orientamento neoclassico al pari di Toesca, ne progettò alcuni tra cui quello detto di Iturbide, quello del marchese del Apartado e quello che fu sede della Scuola Mineraria. Edifici di prestigio vennero costruiti, sia pure con minore ricchezza, anche in altre città: a Lima venne costruito il palazzo di Torre Tagle, a La Paz quelli di Villaverde e Arena, a Villa Rica quello di Joao Rodrigues de Macedo, a Quito quello del marchese di Maenza, a Guanajuato quello di Diego de Rul, opera dell’architetto neoclassico Francisco Eduardo de Treguerras. Di quest’ultimo palazzo ci parla Humboldt che ebbe occasione di soggiornarvi: «È così bello che potrebbe aumentare il prestigio delle migliori strade di Parigi o di Napoli».
Senza dubbio non tutte le città latinoamericane raggiunsero un tale splendore. Molte però furono influenzate, direttamente o indirettamente e con maggiori o minori esiti, dalla ripresa economica. Solo alcune riuscirono tuttavia a convertirsi compietamente a questo nuovo tipo di vita; a beneficiare della nuova situazione furono soprattutto i porti, le capitali e tutti quei centri nei quali una congiuntura favorevole determinava un improvviso arricchimento. In quest’ultimo caso rientra Villa Rica; l’oro che vi si estraeva determinò, con il suo afflusso, notevoli conseguenze sulla struttura urbanistica di Rio de Janeiro che, a sua volta, assunse un ruolo di primaria importanza quando, nel 1808, ospitò la corte portoghese e divenne capitale del regno e sede di un porto aperto al traffico con l’Inghilterra, In una situazione simile vennero a trovarsi quasi tutti i porti e le capitali, che godettero, prima, della libertà commerciale concessa dalle madrepatrie e poi dell’apertura dei traffici con gli altri paesi europei e con gli Stati Uniti. Alle vecchie capitali si aggiunsero, espandendosi, le nuove capitali di intendenza che fecero la loro comparsa con la riforma del sistema amministrativo spagnolo, nel 1788: Puebla, Valladolid, Guajuato, Zacatecas, Veracruz, Oaxaca, Mérida, Culiacán, Arequipa, Tarma, Huancavélica, Huamanga, Cuzco, Puno, Santa Marta, Cartagena, Santa Cruz de la Sierra; a queste devono essere aggiunte le città che a partire dal 1777 erano divenute sedi di governo locale in Venezuela: Maracaibo, Guayana, Mérida, Cumaná, La Margarita. In tutti questi centri si formò una nuova burocrazia che accelerò il carattere di catalizzatore dello sviluppo che le altre città già avevano, in quanto capitali regionali.
Nel frattempo fecero la loro comparsa nuovi centri urbani. Montevideo era stata fondata nel 1724 come piazzaforte militare ma si sviluppò, gradualmente, come centro regionale e come porto; la sua crescita accelerò quando, a partire dal 1791, la città divenne uno dei centri di smistamento del commercio negriero in direzione del Rio de la Piata, del Perù e del Cile. Altre città vennero addirittura fondate nel corso di questo periodo e determinarono così, una spiccata tendenza a raccogliere e concentrare una popolazione precedentemente dispersa nei campi. Tra le tante, sorsero in questo modo, in territorio cileno, Talea e Los Andes. Alcune nacquero spontaneamente e furono il risultato di un’attività economica molto prospera che rese, fin dall’inizio, tumultuoso il loro sviluppo. Il caso più clamoroso è quello di Villa Rica che, nel giro di pochi anni, divenne un emporio privo di ogni confronto. Vi si stabilì una nuova aristocrazia che diede alla città un impulso tale da spingere un cronista a definirla «capitale di tutta l’America, e perla preziosa del Brasile per l’immensità delle sue ricchezze». Inquieto e rivoluzionario, questo centro conobbe, nel 1720 e nel 1789, due rivolte, entrambe sedate. La seconda sommossa, denominata inconfidencia mineraria, ebbe tra i propri protagonisti Claudio Manoel da Costa, che nel suo poema Villa Rica e nei versi satirici che gli vennero attribuiti e che circolarono con il titolo di Cartas chilenas (lettere cilene), descrisse la vita della città e ne fece l’elogio. Qualcosa di simile avvenne a Puerto Cabello, di cui Andrés Bello narra le origini spontanee, parlandone, poco prima della conquista dell’indipendenza, nelle pagine della Historia de Venezuela destinate a comparire nel Calendario manual y guía universal de forasteros en Venezuela pare el año 1810: «Puerto Cabello, predisposto dalla natura per contenere e mettere in bacino l’intera marineria spagnola, fu lo scalo che gli Olandesi di Curaçao scelsero per lasciarvi le loro cose e imbarcare il cacao. Poche miserabili baracche di contrabbandieri e di pescatori costituirono il nucleo di insediamento di questo porto condannato a sembrare, a lungo, più una dipendenza olandese che un dominio spagnolo. Il governo volle dare una ratifica legale e quell’insieme di uomini che, date le loro caratteristiche ed occupazioni, erano potenzialmente pericolosi per la quiete pubblica; l’assoluta immunità criminale in cui la città aveva fino ad allora vissuto ed i suoi particolari interessi legati a quelli più generali degli Olandesi, determinò un’ostinata resistenza della popolazione ai progetti del governo che dovette rinunciare alle sue intenzioni di sottomettere alla propria autorità il baraccato di Puerto Cabello che, quindi, si trasformò ben presto in asilo di impunità e magazzino generale delle colonie olandesi sulla costa continentale. Il Venezuela non aveva nulla da offrire alla madrepatria per convincerla ad inserirlo come scalo lungo le rotte commerciali dei suoi vascelli, eccetto il cacao che gli Olandesi avevano però molta cura di esportare, imponendo il monopolio della necessità ad un paese che non aveva altro mezzo, per vestirsi e provvedersi del necessario per la propria agricoltura, che quello di rivolgersi agli empori di Curaçao e che, quindi, non aveva altro canale per far uscire i propri prodotti e scambiarli con ciò che gli serviva all’infuori di Puerto Cabello; per una di quelle circostanze politiche più ammirevoli che facili da spiegare, si arrivò al punto di vedere la provincia del Venezuela sottoposta ad un nuovo monopolio, tanto profittevole nel suo ordinamento quanto disastroso dal punto di vista legale; grazie a questo comunque l’agricoltura del paese incominciò a crescere e l’intera regione, condotta per mano da una compagnia mercantile, intraprese la via dello sviluppo: la madrepatria ritornò così a controllare un settore commerciale che si era ingiustamente sottratto alla sua autorità e Puerto Cabello divenne così una delle più importanti piazze mercantili e dei più rispettabili porti di tutta la costa continentale».
Sempre parlando dei porti, José Agustín de Oviedo y Baños scriveva, nel 1723, nella sua Historia de la conquista y población de la provincia de Venezuela: «Gli abitanti di Caracas parlano un perfetto castigliano, senza i tipici arcaismi che vengono usati nella maggior parte dei porti coloniali». Quasi un secolo dopo Fernández de Lizardi, parlando di eretici, scriveva: «Ho vissuto in un porto marinaro e lì ne ho conosciuti alcuni e ci ho avuto a che fare». Le città e, in modo particolare, quelle aperte alle nuove idee e prive di pregiudizi persino nei confronti della religione e del linguaggio, costituirono l’ambiente ideale per la grande trasformazione che si sarebbe determinata nella società creola.
Riforme e rivoluzioni
La società creola si sviluppò certamente in virtù di un processo sociale interno al mondo coloniale: essa fu innanzittutto il risultato dello sviluppo ineguale dei gruppi bianchi e di quelli etnici. Mentre le caste si incrociavano e si moltiplicavano rapidamente, i peninsulari andavano e venivano ed i creoli bianchi che erano i loro discendenti costituivano gruppi sempre meno numerosi, in rapporto al complesso della popolazione. La società creola fu il risultato di un processo di meticciato e di acculturazione, dato che l’abisso originariamente stabilito tra conquistatori e conquistati, bianchi e non, andò, di fatto, riducendosi, nonostante gli sforzi costanti ma spesso più formali che reali, che i bianchi fecero per contenere la trasformazione. Tuttavia l’espandersi della società creola e, soprattutto, l’incremento dei suoi processi di integrazione furono la conseguenza della congiuntura favorevole determinata dai gruppi riformatori delle madrepatrie; grazie a questo potè avviarsi e poi manifestarsi il processo di differenziazione che portò alla genesi di una nuova classe dirigente, espressione di un nuovo equilibrio: la borghesia creola illuminista.
Aranda, Floridablanca e Pombal, ministri di Carlo III di Spagna e di José I del Portogallo, avviarono, in quel periodo, ampie riforme nelle metropoli. La pressione del mondo mercantilista sulla penisola iberica divenne, verso la metà del secolo XVIII, così forte che i gruppi più lungimiranti ebbero modo di mettersi alla testa di un vasto movimento volto a rinnovare la vita culturale, economica e sociale di entrambi i regni. Iniziò così l’età delle riforme, cioè un’epoca nel corso della quale si cercò di rimodernare le strutture del sistema senza modificarle, intervenendo con decisioni razionali e basate sull’esperienza straniera e facendo piazza pulita di ogni pregiudizio tradizionalistico che impedisse il migliore sfruttamento possibile delle opportunità esistenti.
Se il campo delle riforme coinvolse la politica fu soltanto per accentuarne la componente autoritaria. Nessun fattore particolare doveva opporsi alle decisioni del monarca che erano l’espressione della ragione stessa. I tradizionali gruppi di pressione, nobiltà e clero, subirono una politica regalista che consisteva fondamentalmente in una drastica limitazione dei loro poteri. L’ideale dei neonati circoli illuministi era una monarchia circondata da saggi consiglieri.
La politica riformistica era ovviamente una conseguenza dell’illuminismo cioè di una filosofia fondata sulla ragione e mirante ad ottenere che questa e non le altre tradizioni governassero il mondo. Era, da un certo punto di vista, una filosofia aristocratica, poiché distingueva le minoranze illuminate dal volgo di cui facevano parte non solo le masse ignoranti, ma anche quella parte dei gruppi dirigenti che, come diceva un autore assai rappresentativo della nuova corrente di pensiero, «pur avendo avuto nobili natali ancora non è uscita dalle tenebre dell’ignoranza». Il governo spettava dunque alle minoranze scelte, istruite ed illuminate dalla luce della ragione. Il loro principale scopo avrebbe dovuto consistere nel fare in modo che la società potesse contare, in ogni ambito su gruppi dirigenti di questo tipo; proprio per questo gli illuministi fecero dell’educazione il proprio obiettivo fondamentale.
Le riforme educative non avrebbero dovuto limitarsi soltanto ad alfabetizzare le grandi masse. Era considerato ancor più importante procedere alla selezione dei migliori, permeandoli delle nuove idee che, proprio allora, incominciavano ad avere una prima codificazione, non solo grazie alla famosa Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, ma anche grazie alle opere di molti autori che preferivano sistematizzare e diffondere questi ideali invece di dedicarsi alla ricerca scientifica o speculativa. Collegi, istituti superiori, biblioteche e periodici scientifici venivano così preferiti alle miriadi di scuole elementari dove avrebbero dovuto apprendere i primi rudimenti delle lettere coloro che, in ogni caso, non avrebbero mai superato questo primo livello di istruzione. Lo scopo dell’educazione doveva essere l’ampliamento delle minoranze illuminate, imbevute delle nuove scienze fisiche e naturali, in grado di far fronte ai gravi bisogni di una società ingiusta e superata e, soprattutto, partecipi della nuova verità che Gaspar Melchor de Jovellanos esprimeva, con queste parole, nel suo Informe sobre el libre ejercicio de las artes: «La grandezza delle nazioni non dipenderà più, come in altri tempi, dallo splendore dei loro trionfi, dallo spirito marziale dei loro giovani, dall’estensione dei loro confini o dalla diffusione della loro gloria, della loro onestà o della loro scienza […] Tutto è ormai diverso nell’attuale sistema europeo. Il commercio, l’industria e la ricchezza che deriva da queste due attività sono e saranno, probabilmente a lungo, le uniche basi della forza di uno stato».
In questo modo le riforme dell’educazione proiettavano la propria ombra su quella della società e dell’economia, che dovevano essere liberate da ogni atavico pregiudizio. L’uguaglianza degli uomini costituiva un assunto razionale da cui nasceva la condanna del tradizionale sistema dei privilegi. Se esistevano i poveri era perché il sistema li aveva creati, facendone le sue vittime, ed era dunque doveroso provvedere a soccorrerli. La cosa più importante era che non ci fossero oziosi, cioè che si eliminassero i poveri disoccupati da un lato e i ricchi che consideravano indegno il lavoro dall’altro. Non c’era niente di più melanconico e disprezzabile del pregiudizio che sosteneva la viltà delle occupazioni meccaniche. Dato che il mondo andava verso il predominio del commercio e dell’industria, la cosa più giusta da fare consisteva nel concedere a queste attività tutta la libertà necessaria perché potessero autoregolarsi.
L’atteggiamento riformatore comportava una concezione completamente nuova della politica coloniale. Se fino ad allora aveva potuto dominare l’idea che le colonie fossero soltanto una fonte di ricchezza al sevizio delle metropoli, bisognava ora ammettere che le società coloniali avevano diritto di lavorare a proprio beneficio, dato che così facendo avrebbero prodotto benefici anche per la loro madrepatria. Era questa la concezione dominante nei gruppi progressisti peninsulari che espressero le proprie idee nei libri e le misero in pratica politicamente. Era inevitabile che tali maestri trovassero nelle colonie attenti discepoli.
L’applicazione della politica riformatrice spaccò l’opinione pubblica sia in Brasile che nel mondo spagnolo. Come e più che nelle metropoli le innovazioni scossero un sistema eccessivamente chiuso i cui beneficiari videro messi in pericolo i propri privilegi. L’espulsione dei gesuiti, avvenuta in Brasile nel 1759 e nell’America spagnola nel 1767, rese manifesti gli orientamenti della nuova mentalità e, a partire da quel momento, ci si rese conto che i peninsulari delle Indie erano divisi tra coloro che appoggiavano con entusiasmo il cambiamento e coloro che lo respingevano scandalizzati. Questa scissione creò lo spazio che avrebbe potuto e dovuto occupare l’incipiente e ancora quasi del tutto inesistente borghesia creola. Questi nuclei incominciavano proprio allora a definirsi come un gruppo o una classe, a partire dal momento in cui i suoi membri avevano incominciato a collegare le proprie aspettative immediate ai presupposti dell’ideologia riformatrice della madrepatria. Se i peninsulari progressisti delle Indie accettarono e godettero le condizioni create dalla politica rinnovatrice, fu però la nascente borghesia creola a far proprio il complesso ideologico delle riforme, collegandolo alle idee dell’illuminismo. Ogni giorno di più, quest’ideologia avrebbe definito i creoli come gruppo, conferendo loro compattezza e coerenza, anche se in seguito alcuni settori avrebbero scoperto che l’ideologia riformistica poteva trasformarsi, all’improvviso e sotto la spinta di circostanze non previste, in azione rivoluzionaria.
Nel frattempo però il movimento riformista, alimentato dalla madrepatria, continuava a procedere nelle colonie sotto la direzione di illuminati funzionari: Vértiz, Bucarelli, Mayorga, Revillagigedo, Gálvez, Caballero y Góngora e Lavradío. L’instaurazione del libero commercio costituì un passo decisivo, dando impulso alla vita economica in generale e a quella delle città in particolare. Nel volgere di poco tempo vi furono più ricchezze e più lavoro, più ospedali e migliori carceri, più teatri, più stamperie, più giornali. In Brasile sorsero diverse accademie, due delle quali a Rio: quella dei Selectos, fondata nel 1752, e l’Accademia delle Scienze di Rio de Janeiro, nata nel 1770; a Villa Rica, nel 1760, nacque un’accademia arcadica, al cui interno si sviluppò la Escola mineira, che venne successivamente coinvolta nella cospirazione di Tiradentes, mentre anche l’Accademia delle Scienze di Rio, che tanto influenza aveva avuto nello sviluppo economico e scientifico della città, venne violentemente sciolta, nel 1794, dall’allora viceré conte di Rezende, contrario ai movimenti riformatori. Nel frattempo veniva rifondata l’università di Charcas e venivano create ex novo, a Buenos Aires, L’Accademia Navale e quella del Real Convictorio Carolino, entrambe fortemente influenzate dalle nuove idee. A Messico fecero la loro comparsa la Scuola Mineraria, l’Accademia di San Carlos, quella delle Belle Arti e quella del Giardino Botanico. Bogotá diventava un importante centro scientifico, grazie all’opera dello spagnolo José Celestino Mutis e del creolo Francisco José de Caldas, anche se già prima dell’arrivo di Mutis la città aveva una biblioteca pubblica, fondata dall’illuminista Francisco Antonio Moreno y Escandón e avrebbe avuto più tardi un osservatorio astronomico. Nei giovani che si avvicinavano alle fonti del pensiero moderno vi era desiderio di sapere e di trasformare il torpido mondo delle colonie.
Attraverso vari canali la rifoma si trasformava invariabilmente in rivoluzione. I polverosi parrucconi preferivano forse parlare con cautela dei benefici che le riforme del sistema educativo avrebbero prodotto su tempi lunghi, ma alcune delle loro idee vennero raccolte da uomini divorati dal gusto per l’azione e vennero utilizzate come slogans per contestare l’organizzazione esistente. Un’ondata di insurrezioni anticoloniali di varia portata percorse come un tremito l’impero spagnolo attorno al 1780. Mentre nei campi serpeggiava la rivolta indigena che sarebbe esplosa sotto la guida di Tupac Amaru verso la fine dell’anno, già nei primi mesi scoppiarono sommosse urbane nel Cuzco, ad Arequipa, a La Paz, a Charcas, a Cochabamba e in alcune altre città e villaggi del Perù. E possibile che le fila del movimento fossero mosse dalla lunga mano dell’Inghilterra, ma le provocazioni ebbero un’eco spontanea che si protrasse per tutta una lunga serie di fatti nel corso dei successivi trent’anni. La sollevazione popolare di Arequipa coinvolse «tutta la plebe della città, nonché dei quartieri posti fuori dalle mura e denominati arrahales; tale massa era composta da meticci, zambos, negri e indios e contava, tra uomini e donne, più di mille effettivi». Nel Cuzco la ribellione fu capeggiata da un creolo meticcio, Lorenzo Farfán de los Godos, e coinvolse non soltanto le comunità indigene ma anche la corporazione degli argentieri della città. A La Paz il movimento ebbe un carattere singolare, poiché la pasquinata che fece la sua comparsa nelle strade incominciava con un’esclamazione mai usata in precedenza: «Morte al re di Spagna!». Quasi sempre questi movimenti si sviluppavano con una motivazione congiunturale: nuovi balzelli nel caso di Arequipa, dove vi fu un tentativo di appiattire la condizione dei meticci e quella degli indios, facendo pagare a tutti il tributo annuale, senza distinzione alcuna. Fu la variopinta società creola a muoversi, anche se lo fece soltanto ai suoi livelli inferiori; in alcuni casi pare ci fosse un proposito separatista, talvolta collegato alla prospettiva di sottomettersi all’autorità britannica. Verso la fine dell’anno vi furono due movimenti insurrezionali a Santiago del Cile: la cospirazione di don Juan, appoggiata dagli Inglesi e la congiura dei Francesi che, al pari della precedente, non riuscì ad approdare alla fase esecutiva, attraverso la quale si sarebbe dovuti giungere all’indipendenza latinoamericana, seguendo l’esempio delle colonie inglesi dell’America del nord.
Nel frattempo era esplosa nell’alto Perù, nel novembre del 1780, la rivolta di Túpac Amaru, di ispirazione prevalentemente indigena e rurale, ma, non per questo, estranea a molte delle idee che circolavano tra i gruppi illuminati. Lo scossone che produsse fu enorme. Molti si resero conto di una forza fino ad allora insospettata e nascosta nelle pieghe della nuova società americana; le reazioni che questa scoperta suscitò furono contrastanti. Gruppi sottomessi da secoli si resero conto che era finalmente giunto il momento di agire o, quantomeno, di sperare. I gruppi dominanti tremarono vedendo che uno dei timori che non avevano mai abbandonato i conquistadores stava diventando realtà. Il drammatico episodio rivelò ai creoli l’ambiguità della propria posizione che, a partire da quel momento, divenne indubitabilmente oggetto di un’attenta meditazione e di un’analisi che cercò di tener conto delle prospettive che gli eventi andavano aprendo. Ciononostante la rivolta fu duramente soffocata e la grande paura dei possidenti passò, senza che per questo venissero accantonate le preoccupazioni riguardanti il futuro di questa nuova società che aveva con tanta evidenza raggiunto una nuova fase della sua maturazione.
Nel sovraeccitato clima dell’insurrezione indigena e rurale si inserirono alcuni movimenti urbani che esplosero a Cochabamba e a Charcas, anche se i più significativi furono quelli di Oruro e Tupiza. Nel febbraio del 1781, mentre declinavano le sorti del movimento di Túpac Amaru, scoppiò ad Oruro una rivolta che rivelò quali violente e contraddittorie tensioni dilaniassero i diversi gruppi sociali. Spagnoli, creoli, meticci e indios entrarono in un complesso gioco interattivo. Di fronte al pericolo di una sollevazione indigena, gli Spagnoli decisero di serrare le proprie fila e divenne così evidente che non si fidavano dei creoli, con i quali avevano da molto tempo in corso una sfida che aveva come posta la supremazia politica all’interno della città. Questo atteggiamento si concretò in un atto clamoroso quando due ricchi creoli proprietari di miniere vennero esautorati dal consiglio municipale subito dopo essere stati eletti. Così, mentre all’interno della città si faceva più intensa la protesta dei meticci, i peninsulari e i creoli erano divisi perché i primi paventavano l’alleanza dei secondi con i gruppi etnici subalterni, cosa che, peraltro, sarebbe avvenuta di lì a poco. Divenuta padrona della città grazie all’appoggio degli indios che vi risiedevano e dopo una violenta lotta, la plebe urbana consegnò il potere a Jacinto Rodríguez, grande proprietario di miniere, che venne nominato supremo magistrato. Tuttavia gli avvenimenti dei giorni successivi modificarono in modo sostanziale il sistema delle alleanze. I meticci e gli indios si spinsero troppo in là nel perseguitare i chapetones (peninsulari) ed i creoli ritennero più opportuno tirarsi indietro: ricusarono i loro occasionali alleati e scesero a patti con i peninsulari, insieme ai quali intrapresero un’energica repressione della plebe che si era sollevata e degli indios che l’avevano appoggiata.
Questo voltafaccia dei ricchi creoli era sintomatico della situazione sociale che si era creata: nelle loro menti stava prendendo forma il proposito di liberarsi dei peninsulari e, a tratti, persino quello di conquistare l’indipendenza; essi però esitavano di fronte alla gravità di un passo che comportava la mobilitazione a proprio favore di una variopinta società della cui solidarietà avevano ragione di dubitare. Trent’anni dopo questo processo si sarebbe fatto un po’ più chiaro.
Caratteri analoghi ebbe il movimento scoppiato nel 1780 nella Nuova Granada, dove le misure repressive di un ispettore contrario alle riforme, Gutiérrez de Piñeres, provocarono la rivolta dei centri maggiormente colpiti. Grandi esponenti della società creola, tra cui lo stesso marchese di San Jorge, si misero a capo della protesta che esplose con violenza nel Socorro e si estese rapidamente. Le «comunità municipali» godettero dell’appoggio di larghi strati della popolazione indigena e, forti di questo sostegno militare, affrontarono le truppe inviate da Bogotá. La cosa si risolse con un accordo le cui capitolazioni vennero sottoscritte a Zipaquirá e stabilirono l’annullamento delle nuove imposte, la garanzia di misure protettive per gli indigeni, la destituzione dei funzionari spagnoli sgraditi e la conferma delle nomine effettuate dagli insorti, cosa che, implicitamente, comportava un riconoscimento dei diritti dei creoli. Le capitolazioni, di fatto, non vennero rispettate, ma il processo rivoluzionario rese evidente il nuovo atteggiamento dei gruppi creoli.
Più chiaramente indipendentistici furono alcuni movimenti successivi. In Brasile Joaquín José da Silva Xavier, detto Tiradentes, capeggiò, nel 1789, un moto rivoluzionario nella città di Villa Rica. Tra i rivoltosi c’erano le personalità più in vista del nucleo intellettuale che si era formato attorno all’emporio minerario, la cui decadenza era all’epoca motivo di inquietudine per le classi popolari, per alcuni proprietari e, soprattutto, per la minoranza illuminata che vagheggiava una repubblica liberale. Duramente soffocata dal visconte di Barbacena, l’insurrezione fallì, ma il gioco delle forze sociali e politiche e le conclusioni ideologiche a cui i ribelli erano giunti evidenziarono la nascita di una nuova intesa che integrava gli interessi delle classi popolari, facendoli convergere con quelli dei gruppi dell’alta borghesia creola; non era un caso che il movimento fosse stato capeggiato dai fautori di un «nativismo» ormai divenuto grido di battaglia. Analogo significato ebbe, nel 1798, la cospirazione degli alfaiates di Bahía che coinvolse la plebe mulatta ed i ceti superiori della città nel tentativo di instaurare una Repubblica Bahíana. Caratteristiche non troppo diverse furono riscontrabili nella congiura di Gual y España, fallita nel 1797; con essa i Venezuelani, influenzati dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e dalla propaganda inglese e francese, si erano proposti di mettere fine alla dominazione spagnola. Negri, mulatti e indigeni sostennero l’azione dei creoli e dei circoli illuministici spagnoli che volevano abolire la schiavitù e aprire i porti venezuelani al commercio internazionale.
Ormai la crisi del sistema era divenuta irreversibile in Europa. A partire dal 1808, la corte portoghese, minacciata da Napoleóne, si era trasferita a Rio de Janeiro e, attorno al reggente, peninsulari e creoli, portoghesi e brasiliani lottavano ormai per la supremazia. Anche in Spagna era scoppiata la crisi e, di fronte alla catastrofe tutti i circoli illuminati delle città americane si mossero convinti che fosse giunto il momento dell’indipendenza. Fu proprio il gruppo più radicalmente illuminato a dare inizio alla ribellione che scoppiò, appunto, nella città in cui era stato maggiore l’influsso delle nuove idee: il 25 maggio del 1809, a Charcas, un piccolo conflitto tra il presidente ed i membri della corte del tribunale della Audiencia precipitò fino a trasformarsi in un movimento rivoluzionario. Bernardo Monteagudo e numerosi altri docenti e studenti dell’università ispirarono ideologicamente il movimento creolo che fu al tempo stesso popolare e minoritario, dato che stabilì una corrispondenza tra le vaghe aspirazioni delle caste e l’ideologia dei riformatori che le circostanze avevano ora trasformato in ideologia rivoluzionaria. Alcuni esponenti del movimento di Charcas e, in particolare, José Antonio Medina, portarono a La Paz il messaggio rivoluzionario, concretizzandolo nel Proclama de la ciudad de La Piata a los valerosos habitantes de La Paz, attribuito a Monteagudo; i membri della Giunta Tutelare che si costituì con chiare tendenze indipendentistiche, appartennero tutti alla classe creola. Ciò che era sembrato prematuro nel 1780, incominciava nel 1710 ad apparire più sensato. Quando le forze rivoluzionarie che Buenos Aires inviò nell’alto Perù sconfissero gli Spagnoli a Suipacha, Juan José Castelli, membro della giunta di Buenos Aires, fece riunire gli indios presso le rovine di Tiahuanaco per spiegare loro il nuovo vangelo della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità.
In quel periodo, i movimenti capeggiati dalle aristocrazie creole delle città avevano ormai trionfato a Buenos Aires, ad Asunción ed a Santiago del Cile. Gruppi dirigenti sostenitori delle riforme ispirate dalla filosofia illuministica finirono così per concretare la propria immagine del futuro politico delle colonie in un progetto rivoluzionario che portava alle sue estreme conseguenze le direttrici del movimento illuminato e riformatore. Questi gruppi rimpiazzavano velocemente i modelli dell’illuminismo spagnolo, moderato e adattato alle esigenze di una concezione monarchica, con quelli dell’illuminismo francese, che, dopo il 1789, aveva abbandonato le posizioni riformistiche.
Jovellanos era stato rimpiazzato da Rousseau e benché Napoleóne avesse ormai manifestato il suo proposito di porre un limite al processo rivoluzionario, i gruppi creoli ritennero opportuno rifarsi alle posizioni giacobine per scatenare quella rivoluzione che, più o meno esplicitamente, avrebbe dovuto sfociare nell’indipendenza. Caratteristiche tra loro analoghe ebbero i moti di Caracas, Cartagena e Bogotá, scatenati dagli accorati sermoni illuministici di Francisco de Miranda e Antonio Nariño, traduttore della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del trattato Il Cittadino. Il movimento di Bogotá ebbe inizio, in modo simbolicamente perfetto, dallo scontro personale tra un chapetón e un creolo; tale scontro determinò una rapida polarizzazione delle classi popolari che si schierarono con in ricchi commercianti e gli ideologi illuministici, anche se questi ultimi dicevano cose per loro incomprensibili. Le loro parole contenevano infatti una specie di affascinante sigillo; era possibile cogliervi, al di là di ogni contenuto particolare, una certa identità di propositi forse transitoria, ma tale che le classi popolari potevano vedere in essa quantomeno un passo in direzione di quella integrazione a cui aspiravano da tanto tempo.
Fondamentalmente legati all’ambiente urbano e quasi sempre limitati alle capitali, questi movimenti non solo evidenziarono la frattura che si era creata fra peninsulari e creoli ma resero percepibili anche le crepe che ben presto si sarebbero aperte in seno a quest’ultimo gruppo. I diversi livelli di ricchezza ed i diversi gradi di integrazione avevano infatti creato in ogni città una stratificazione sociale diversa. Le fratture di maggior rilievo si vennero dunque a creare tra i gruppi dirigenti delle varie città che, avendo interessi diversi, competevano tra loro per la conquista del potere politico. Cordova e Montevideo si scontrarono con Buenos Aires ed ebbero la forza di resistere al movimento avviato dalla borghesia bonaerense. A Messico, un’insurrezione organizzata dalle alte classi creole di Querétaro e San Miguel, con collegamenti con altre città dell’interno, riuscì a mobilitare ingenti masse popolari, specialmente contadine, scatenando un violento sentimento antispagnolo perfettamente in linea con gli interessi dei gruppi aristocratici di provincia. Tale esplosione xenofoba si scontrò però con i programmi dei ceti dirigenti della capitale dove creoli e peninsulari erano uniti dal timore che provavano sia nei confronti delle nuove correnti ideologiche che nei confronti dei movimenti popolari in genere e di quelli indigeni in particolare. L’insurrezione venne soffocata con la sconfitta di Hidalgo e di Morelos, ma risorse in diverse città capeggiata da nuovi esponenti. Le cose cambiarono soltanto quando in Spagna scoppiò la rivoluzione di Riego e la restaurazione portò alla proclamazione della costituzione liberale del 1812. I gruppi peninsulari della capitale messicana avviarono allora un processo destinato a perpetuare l’assolutismo in Messico, ma la loro decisione finì per accelerare il distacco tra creoli e peninsulari: l’uomo che era stato scelto per realizzare il cambiamento, Iturbide, scese a patti con i ribelli e inaugurò, a sua volta, un ulteriore processo di radicalizzazione del movimento separatista che, nel volgere di pochi anni, avrebbe finito per porre il problema in termini più o meno analoghi a quelli prevalenti nel resto dell’America spagnola.
Nelle città si sovrapposero e si scontrarono, così, due politiche che esprimevano da un lato il processo di compenetrazione e differenziazione sociale e, dall’altro, quello di ricezione ed adattamento dei modelli ideologici di importazione. Mentre la società creola andava stabilizzandosi con un processo simultaneo di diversificazione e di omogeneizzazione, le nuove minoranze che si formavano al suo interno e che erano composte da bianchi e, in una certa misura, anche da meticci facevano propria la concezione politica riformatrice dei gruppi illuministici della madrepatria. Quando le circostanze resero possibile radicalizzare il processo, il progetto riformista si trasformò in azione rivoluzionaria. Il ritmo con cui si cercava di adeguare la realtà ai canoni dell’ideologia era cambiato, ma l’ideologia era rimasta la stessa.
Le borghesie creole: illuminismo e trasformazione
Le nuove minoranze che si fecero carico di realizzare sia l’originaria politica riformatrice che la sua successiva incarnazione rivoluzionaria, coincisero in buona parte con le borghesie creole che, gradualmente, posero la loro candidatura per tutti i ruoli egemonici della nuova società. Mano a mano che si costituivano, i nuclei borghesi si scontravano con le minoranze nobiliari e monopolistiche che formavano i vertici della società tradizionale. All’inizio si trattò di uno scontro sotterraneo, identificabile come tensione tra un gruppo forte ed un gruppo debole, tra una classe già formata e stabile ed un’altra che aveva appena incominciato ad infiltrarsi all’interno di quella ed a svilupparsi autonomamente in virtù di un processo di differenziazione che opponeva un gruppo riconosciuto e riconoscibile ad un altro che cercava in ogni modo di occultare le proprie aspirazioni; si cercava precisamente così l’opposizione tra chi godeva di un consenso basato sulla passività e fondato sui privilegi nobiliari, che i suoi membri erano in condizione di esibire, e chi invece non si azzardava ancora a dichiarare quali fossero i fondamenti che legittimavano le sue aspirazioni. Tuttavia, mano a mano che passava il tempo, che la società creola andava definendosi sempre più e che le circostanze rendevano via via più concrete le possibilità di un cambiamento, lo scontro andò facendosi acuto e l’antica classe dirigente nobiliare scoprì di essere meno forte di quanto credeva, anche perché la nuova élite si rivelò tutt’altro che debole. Sia la dinamica delle forze interne che quella degli avvenimenti internazionali parevano infatti legittimare le aspirazioni della borghesia creola che si stava formando.
Molti tratti indicavano, senza possibilità di equivoco, la personalità di questo gruppo sociale. Di fronte ai tradizionali vertici della società la borghesia creola sembrava essere maggiormente inserita nell’ambiente americano e meno dipendente dalle metropoli, sia nello stile di vita che nelle aspirazioni. Era come se un cordone ombelicale fosse stato definitivamente tagliato e una nuova entità avesse scoperto di essere ormai isolata e avviata ad un proprio destino nella terra che gli antenati dei membri di questi nuovi gruppi avevano un tempo conquistato. I creoli si sentivano profondamente legati a quella terra, anche per via di una sostanziale mancanza di alternative; anche se in quella terra i loro obiettivi particolari parevano allontanarsi, essi continuavano però a sentirsi totalmente ed indissolubilmente uniti al destino ed agli interessi generali del nuovo continente. Le nuove terre erano ormai abitate da una società articolata ed eterogenea, composta, in maggioranza, dai discendenti di coloro che erano stati sottomessi dagli antenati dei creoli. Ciononostante la borghesia creola non guardava a costoro nella stessa maniera in cui i suoi antenati avevano guardato ai popoli vinti. Si trattava in gran parte di una nuova società che alla vigilia dell’indipendenza era caratterizzata etnicamente e culturalmente da una mescolanza di tratti sovrapposti che facevano ormai parte della vita di coloro che pure avevano conservato la carnagione bianca. La borghesia creola non poteva dunque più guardare alle etnie di colore come un vincitore guarda ad un vinto, cioè come a qualcosa di diverso e di separato. Certamente, talvolta i bianchi guardavano gli altri da superiore ad inferiore e a volte da sfruttatore a sfruttato, ma sentivano però che anche gli altri facevano parte di un complesso entro il quale era integrato l’io stesso e che, pertanto, gli altri erano il necessario contorno di un mondo che l’io voleva dirigere e senza il quale non avrebbe potuto dirigere nulla. Oltre che alla terra, la borghesia creola di colorito bianco si sentiva dunque legata ad un contesto sociale di colorito scuro.
Inoltre, si trattava di un gruppo essenzialmente urbano, costituitosi nelle città e abituato alle costrizioni e agli agi che caratterizzano la vita urbana. In tutta l’America spagnola e in alcuni grandi centri del Brasile come Rio de Janeiro e San Paolo, la borghesia creola aveva ereditato dai propri antenati quella concezione che assegnava alle città un ruolo egemonico, facendone il centro propulsore di ogni regione ed identificando in essa il luogo da cui doveva essere diretta la vita del circondario rurale. Questa convinzione si affermò con sempre maggiore chiarezza mano a mano che nella società urbana andava facendosi largo la mentalità mercantilista. La borghesia creola fu mercantilista e, anzi, arrivò a costituirsi come un gruppo sociale ben definito, proprio in virtù del fatto che i suoi membri acquisirono questa mentalità, mentre coloro che se ne tennero fuori restarono contemporaneamente esclusi dal nuovo corso del mondo creolo. Mercantiliste e capitaliste erano infatti le civiltà inglese e francese che costituivano i modelli della nuova classe; la borghesia creola ritenne, al pari dei propri antenati nobili, che le città fossero i centri di irradiazione della civiltà, ma incominciò anche a pensare che il modello peninsulare fosse in crisi e che dunque era necessario cercarne un altro, guardando là dove la nuova civiltà appariva caratterizzata da quello splendore che, se in precedenza dipendeva dal potere e dalla gloria, era risaputo che ora non aveva altro fondamento che quello indicato da Jovellanos: la ricchezza.
Per ricchezza si intendeva quella offerta dalle imprese commerciali e fu proprio questo tipo di ricchezza a stabilire la gerarchia di prestigio di ciascuno dei membri della borghesia creola. Ciò aveva cominciato ad essere vero molto tempo prima, ma una gigantesca mascherata aveva dissimulato per molto tempo questo segreto. Con la catarsi razionalista del secolo XVIII, tutti i veli caddero e nessuno si azzardò più a negare l’evidenza di un fatto che cominciò ad essere, anzi, apertamente dichiarata. L’appartenenza ai nuovi gruppi privilegiati dipendeva esclusivamente dalla ricchezza; anche se non mancò all’interno della borghesia creola una certa infarinatura di nobiltà, talvolta indicata come vergogna, fu sempre più chiaro che il fondamento del nuovo ordine risiedeva nelle attività del moderno mondo mercantile, dove si formavano le ricchezze e, con esse, nasceva il prestigio sociale.
La ricchezza non era tuttavia l’unico fondamento del sistema. La borghesia creola fece proprie con energia due idee tutt’altro che antagoniste fra loro. Ritenne che la propria posizione dipendesse dalla capacità di agire efficacemente e pensò che sia l’efficacia che la ricchezza avessero molto a che vedere con l’istruzione. Era, in sintesi, il tipico programma illuministico. Ricco, capace d’agire e colto l’uomo americano, ormai divenuto homo faber, si sentiva capace di dominare il proprio ambiente e di spezzare il cicisbeismo brillante dei circoli cortigiani, ridicolmente geloso di un blasone che antenati più o meno prossimi avevano comperato e riempito di irragionevoli pregiudizi.
Mossa da queste certezze, la borghesia creola si rese conto che il pensiero illuminista era per lei un modello, dato che era stato elaborato in Europa da gruppi con una mentalità simile, anche se più maturi e più solidamente inseriti nella struttura economica. L’illuminismo venne accettato dai creoli come ideologia ed essi fecero propri non solo i fondamenti di quel pensiero ma anche e soprattutto le sue conseguenze dinamiche. La filosofia illuministica aveva varie matrici e in un primo tempo le nascenti borghesie creole avevano accettato la versione limitata e moderata che circolava nella madrepatria. Una marcata predilezione per le scienze naturali promosse gli studi di botanica dai quali potevano essere ricavate importanti conoscenze tecniche applicabili in agricoltura. Francisco Antonio Zea, discepolo del Mutis, pubblicò nella Nuova Granada un saggio intitolato Discurso sobre el mérito y utilidad de la Botánica; pochi anni dopo lo stesso Zea darà alle stampe a Bogotá un periodico chiamato El Semanario de agricultura. In Messico vi furono geologi come Francisco Javier Gamboa, nonché fisici e matematici come José Ignacio Bartolache. La cosa importante consisteva nell’accumulare nozioni e conoscenze pratiche; non si trattava soltanto di imparare a conoscere la natura in una maniera diversa da quella tradizionale, ma di applicare un unico metodo per affrontare nello stesso modo anche i principali problemi della filosofia e della vita sociale e politica. In questi ultimi settori divenne esplicito il riferimento all’illuminismo di tradizione peninsulare: il campo religioso e quello politico restarono esclusi dalla controversia e sia l’agnosticismo ed il materialismo che il liberalismo politico furono oggetto soltanto di studi non originali e di seconda mano. Una cedola reale del 1785 ordinava che fossero raccolte e bruciate le opere di Marmontel, Raynal, Montesquieu, Machiavelli e molti altri autori considerati pericolosi. Era indubbiamente possibile parlare in termini teorici di malgoverno, a condizione tuttavia che fosse ben chiaro che la critica era rivolta al funzionamento del sistema che si criticava e non ai suoi fondamenti. Per poter parlare del chierico usurario e peccatore carnale era insomma necessario confrontarlo con la convenzionale immagine del sacerdote casto e caritatevole.
Ciò che era veramente libero era il campo della critica di costume esercitata in Europa da Montesquieu, da Voltaire e dal padre Feijóo; a questo genere si dedicarono anche molti pensatori americani tra cui: fra’ Servando Teresa de Mier, Esteban de Teralla y Landa, Mathias Aires Ramos da Silva de Eça e, soprattutto, José Joaquin Fernández de Lizardi, che battezzò il proprio periodico con un suo celebre pseudomino El pensador mexicano. Tutta la sua opera, dal Periquillo Sarniento a Don Catrín de la Fachenda, dai racconti di costume alla produzione giornalistica, è piena di questa atmosfera urbana, civile e razionalista che conferisce alla sua picaresca un tono così diverso da quello dominante nei suoi modelli spagnoli del secolo XVII. Tutta la società di una grande città, la più importante del mondo coloniale, viene analizzata e sottoposta allo spietato esame della ragione. Nel Periquillo, l’isolano cinese che raccoglie ed ospita il protagonista dopo che ha fatto naufragio inizia con lui un lungo dialogo sulle credenze, gli usi ed i costumi degli occidentali; nel corso di questo dialogo la burla e la critica mettono in evidenza la debolezza dei pregiudizi, l’iniquità delle norme sociali, l’inutilità delle professioni burocratiche e tutto ciò che l’illuminato polemista messicano vedeva intorno a sé nella capitale coloniale o conosceva del mondo per averne letto su libri e periodici. Era questo il sentimento che dominava le nuove borghesie creole che si erano appropriate dello spirito illuministico e che avevano costruito, ispirandovisi, un’ideologia atta ad integrare la realtà in un modo così dissenziente e critico da portare, facilmente, alla formulazione di un progetto di cambiamento.
In alcuni casi questo progetto prese forma, in modo quasi inavvertito, attraverso le occasionali opinioni con cui venivano commentati gli eventi quotidiani; in altri casi esso venne formulato rapportandolo a problemi particolari e concreti, nella testimonianza giudiziaria di un commerciante o nella sentenza di un giudice o di un consigliere municipale; in alcuni casi però il progetto arrivò addirittura ad assumere una forma sistematica ad opera di qualche pensatore rigoroso che si azzardò ad esprimerlo con metodo ed in forma chiara, senza rinunciare, in alcune significative occasioni, a presentarne tutte le conseguenze. I problemi economici e le loro possibili soluzioni furono analizzate a Bogotá da Antonio Nariño nel suo Ensayo sobre un nuevo plan de administración en el Nuevo Reino de Granada. A Buenos Aires questi argomenti furono affrontati, prima che da chiunque altro, da un mercante illuminista, Manuel José de Lavardén che se ne occupò nelle dissertazioni che pronunciò, presso la Società Patriottica, poi raccolte sotto il titolo complessivo di Nuevo aspecto del comercio del Río de la Plata. Mariano Moreno riprese, poco tempo dopo, i medesimi temi nella sua relazione Representación de los hacendados y labradores, opera che venne subito tradotta a Rio de Janeiro da José da Silva Lisboa che vi aggiunse un prologo nel quale adattava gli argomenti dell’autore alla realtà del proprio paese. Moreno nella sua Disertación Jurídica si occupò anche di problemi sociali tra cui spicca quello della condizione indigena, a proposito della quale Moreno riprendeva la linea argomentativa di un giurista dell’università di Charcas, Victoriano de Villava, autore del Discurso sobre la mita de Potosí (la mita era una prestazione dovuta dagli indigeni alla fiscalità), opera che aveva provocato a suo tempo una vivace polemica; su questo stesso tema ritornava pochi anni dopo il Dialogo entre Atahualpa y Fernando VII, testo anonimo ma verosimilmente attribuito a Bernardo Monteagudo; nel frattempo Mariano Alejo Álvarez scriveva a Charcas il suo Discurso sobre las preferencias que deben tener los Americanos en los empleos de América. Il Memorial de agravios, del bogotano Camilo Torres, argomentava con profondità ed energia, trattando lo stesso argomento in termini politici, mentre il Nuevo Luciano di Francisco Eugenio de Santa Cruz y Espejo criticava, da Quito, la situazione intellettuale della colonia. Questo copioso patrimonio di idee venne pensato, trascritto e pubblicato tra il 1797 e il 1810 cioè negli anni in cui la borghesia creola prese coscienza di sé e della propria identità di classe sociale portatrice di un’ideologia. Questa ideologia si sarebbe di lì a poco trasformata in un progetto di cambiamento, alimentato sia dalle Società Economiche, che erano state fondate in molte città, ad imitazione di quanto era avvenuto nella madrepatria, sia dalle pubblicazioni periodiche e dai circoli che raccoglievano tutti coloro che avevano interessi ed idee comuni.
Il progetto di cambiamento ebbe all’inizio carattere riformistico ed ebbe come obiettivi primari la trasformazione dell’economia e della società. In base alla mentalità tradizionale, l’America era un mondo minerario al quale era sufficiente avvicinarsi per diventare rapidamente ricchi. L’allucinazione dei primi conquistadores, sconvolti dall’enorme massa di metalli preziosi accumulati di cui avevano potuto impossessarsi, si rinnovò con la successiva scoperta dei giacimenti di Potosí e di Minas Gerais, che sommersero il mondo d’oro e d’argento. Tuttavia mano a mano che la ricchezza mineraria diminuì e che divenne più faticoso raggiungerla, questa illusione svanì. Inoltre vi erano vaste regioni dell’America latina che non disponevano di queste ricchezze e che, popolandosi, erano costrette a basare la propria economia su altre forme di produzione, che richiedevano più lavoro, più organizzazione ed una efficiente rete commerciale. Le dottrine dei fisiocrati diedero impulso alle regioni fino ad allora disprezzate perché prive di vene metallifere e tutti coloro che si sentivano legati al destino delle nuove terre fecero proprie le nuove teorie.
Nelle ultime decadi del secolo XVIII le parole chiave delle borghesie creole, illuminate e riformiste, furono agricoltura e commercio. Ciò che fino ad allora era sembrato una ricchezza minore e complementare diventò così la grande speranza dei nuovi settori che, risiedendo nelle città, intendevano promuovere lo sviluppo delle regioni circostanti. Anzitutto era necessario conoscere le ricchezze potenziali, esplorare la natura, osservare le condizioni del suolo e quelle del clima. In seguito sarebbe stato necessario specializzare le coltivazioni, scegliendo le sementi in modo da tener conto sia del loro adattamento all’ambiente che delle loro possibilità di mercato. Fatto questo si sarebbe poi dovuto cercare di migliorarne il rendimento, abbandonando le tecniche tradizionali e sperimentandone di nuove. I giornali dedicati all’agricoltura facevano ogni sforzo per diffondere queste conoscenze, ma doveva essere l’esempio a determinare il cambiamento, dato che, come allora si diceva, «i coltivatori non sono fatti per leggere i libri». Le borghesie cittadine contavano sul fatto che i coltivatori progressisti avrebbero applicato i metodi più moderni per dissodare la terra, rimpiazzando la zappa con aratri trainati dai cavalli o dai buoi, e che tutti gli altri avrebbero finito per imitarli dopo averne visti i buoni risultati. Tuttavia era anche necessario imparare a concimare la terra con fertilizzanti artificiali, come facevano, ormai, i più avanzati coltivatori spagnoli; bisognava poi apprendere le nuove tecniche di semina, abbandonare l’uso di spargere le sementi e garantire alle coltivazioni un’irrigazione sistematica. In questo modo sarebbe stato possibile diversificare ed incrementare la produzione. Le borghesie creole che propagandavano il progresso si sentivano rinfrancate ogni volta che potevano vederne i risultati. Nel suo studiolo di Caracas, Andrés Bello esaltava ciò che il viaggiatore poteva vedere nei campi; poco prima dell’indipendenza scriveva: «L’Europa apprende per la prima volta che in Venezuela non c’è soltanto il cacao ogni volta che vede giungere i vascelli della Compagnia Guipuzcoana pieni di tabacco, indaco, pellami, legname da tannino, olio di balsamo e altre preziose essenze che questo paese ha sempre offerto all’industria, ai piaceri e alla medicina del Mondo Antico». Era il trionfo della ragione sull’abitudine.
Le borghesie creole non si occupavano però soltanto di incrementare e migliorare le coltivazioni. Esse erano anche interessate agli effetti indiretti che la ricchezza agricola avrebbe prodotto sul modo di vivere delle popolazioni, dato che questi effetti sembravano realizzare i piani della classe creola: i nuclei urbani crescevano ed i centri importanti, dove si era già formato un consistente mercato interno, beneficiavano dell’incremento della produzione rurale. Entusiasta della fioritura agricola a lui contemporanea Bello scriveva: «Sotto la spinta di così favorevoli circostanze si videro uscire dal nulla tutti quegli abitati che oggi costituiscono il vanto di questo settore privilegiato dell’economia venezuelana che è l’agricoltura. La Victoria si trasformò, in poco tempo, da misero villaggio abitato da indios, dai missionari e dagli Spagnoli che lavoravano nelle miniere dei Teques, in una cittadina caratterizzata dalla ridente prosperità attuale; Maracay, che quarant’anni fa poteva a mala pena aspirare ad essere definita un villaggio, ha oggi tutto l’aspetto e gode di tutti i vantaggi di un centro agricolo il cui circondario annuncia da lontano al viaggiatore il grado di sviluppo raggiunto grazie al genio dei suoi abitanti. Turmero deve le fortune che lo fanno figurare tra i principali centri della zona di Caracas alla coltivazione dell’indaco ed alle regie piantagioni di tabacco; Guacara, San Mateo, Cagua, Güigüe e molti altri centri, ancora in formazione, debbono la loro esistenza al genio agricolo che protegge le valli di Aragua; lungo le sponde del maestoso lago di Valencia, che domina questa parte del territorio venezuelano, è possibile vedere un’agricoltura prospera che, rinnovandosi ogni anno, provvede, in gran parte, al rifornimento della capitale». In quest’epoca tutti i governi coloniali favorivano la «concentrazione dei nuclei familiari nei villaggi», onde garantire la sicurezza della vita rurale e delle stesse famiglie.
Le città avrebbero dovuto offrire ai loro nuovi abitanti una vita migliore e più civile. L’entusiasmo per l’urbanizzazione toccava però il suo apogeo quando si parlava delle grandi città, dato che era in esse che il commercio si sviluppava e prosperava. Le borghesie creole lottavano con particolare determinazione per la libertà di commercio e desideravano con forza di riempire le rade dei porti con vascelli di tutte le nazionalità. Quando ottennero che non fossero più soltanto i commercianti monopolistici a beneficiare dell’attività mercantile, vollero anche che il commercio venisse aperto agli stranieri ed in special modo agli Inglesi. A Buenos Aires l’illuminista Mariano Moreno sosteneva che « avrebbero dovuto essere pubblicamente svergognati coloro che ritenevano che aprire il commercio agli Inglesi in quelle circostanze fosse un male per la Nazione e per la Provincia»: egli era infatti convinto che costoro «ignorassero completamente i primi fondamenti dell’economia degli stati». Le borghesie creole, invece, erano informatissime in proposito ed erano, quindi, convinte che fosse necessario alimentare il commercio e, per questo, non solo appoggiarono lo sviluppo dell’agricoltura, ma anche quello dell’allevamento e dell’industria, senza per questo opporsi all’importazione dei manufatti, specialmente inglesi, dato che volevano sostenere con essi le attività mercantili, sulle quali poggiava gran parte del loro potere economico. Si trattava di un programma riformista piuttosto avanzato che suscitava, ovviamente, l’ostilità dei settori monopolistici. Le borghesie creole incominciavano ad avere un’idea assai chiara dei propri interessi e potevano contare sull’appoggio non solo della crescente pressione che gli Inglesi attuavano sui governi delle madrepatrie, ma anche per la grande diffusione che i principi teorici del nuovo corso raggiungevano grazie alla circolazione dei trattati fondamentali dei più grandi economisti e, soprattutto, delle più famose opere di divulgazione. L’entusiasmo provocato dalle nuove idee economiche era tale che un poeta guatemalteco, Simón Bergaño y Villegas, arrivò a comporre in versi nientemeno che una Silva de economía política.
Le borghesie creole aderirono con altrettanto entusiasmo alle nuove idee sociali, politiche ed educative. Una sociatà ibrida e percorsa da un processo di integrazione doveva necessariamente rivedere le tesi illuministiche relative all’uguaglianza umana ed alla condizione dell’indio e del negro. Le idee di Villava e di Moreno sulla situazione degli indigeni, pur avendo alcuni precedenti nella cultura spagnola, erano ispirate alle tendenze umanitarie e filantropiche proprie dell’illuminismo. Tali idee influenzavano anche la riflessione sui poveri e sui mendicanti ma, in questo caso, l’interpretazione si faceva più complessa. Fernández de Lizardi poneva in bocca al nobile che voleva proteggere Periquillo Sarniento, quando questi mendicava fingendosi cieco, alcune riflessioni significative riguardo al problema dei poveri ed in particolare di quelli che popolavano le città. Nonostante il personaggio esordisse con un significativo « non spetta a me formulare progetti economici generali», era ovvio che la sua interpretazione dei fatti implicasse l’adesione ad uno di tali progetti: «Se qualcuno mi dicesse che, benché vogliano lavorare, molti non riescono a trovare un’occupazione, io gli risponderei che alcuni di questi casi potrebbero essere collegati alle carenze dell’agricoltura, del commercio, della marineria, dell’industria, etc.; tuttavia questi casi sono meno di quanto non si creda. Se costui ritenesse il contrario lo inviterei a posare gli occhi sulla moltitudine di vagabondi che si incontrano distesi per le strade, ubriachi, appoggiati alle cantonate, dediti agli imbrogli ed ai giochi di carte, senza contare tutti coloro, uomini e donne, che vivono nelle osterie e nelle taverne; se domandassimo troveremmo che molti di loro conoscono un mestiere e che molti altri e molte altre godono di salute e vigoria fisica sufficienti per andare a servizio. Lasciamoli per il momento in sospeso e andiamo in giro per la città a vedere se vi siano artigiani che abbiano bisogno di lavoranti e case nelle quali manchino servi e serve e, siccome troveremo che vi è molta necessità dell’una come dell’altra cosa, dovremo concludere che il gran numero di vagabondi e di viziosi (tra cui molti mendicanti) non ha origine nella carenza di lavoro che costoro lamentano, ma dalla natura di scansafatiche che si portano dietro».
L’amore per il lavoro e per l’educazione erano secondo i riformisti le strade attraverso cui era possibile la redenzione di chi, a causa delle proprie origini, non aveva risorse ereditarie e ciò era tanto più vero quanto più era evidente che si trattava di strade valide anche per chi si trovasse ad essere benestante. Una vivace polemica si scatenò a proposito delle «arti meccaniche». In base alla mentalità nobiliare descrittaci, a proposito di Lima, da Simon de Ayanque:
il vagabondo e il giocatore
il rissoso e il protettore
si ritiene abbian più onore
di qualsiasi professione,
poiché anche il più scelto lavoro
non si addice ad un signore.
Su questo punto Fernández de Lizardi faceva ruotare in Messico tutte le controversie relative all’educazione di Periquillo Sarmento: «Un cavaliere senz’arte né parte è accolto e trattato meglio in ogni luogo decente che un altro cavaliere che sappia fare il sarto, il battifoglia o l’imbianchino». A queste parole della madre il padre replicava facendosi sostenitore del punto di vista illuministico: «Il sarto e persino il calzolaio godranno ovunque di maggiore stima rispetto al nobile che sia accattone, ozioso, piantagrane e straccione, cioè proprio tutto quello che io non voglio che mio figlio diventi».
L’educazione era dunque necessaria, e lo era tanto più quanto più era istruzione cioè apprendimento di nozioni moderne e di cose utili che comportavano l’acquisizione dei principi illuministici che dovevano subentrare ai dozzinali pregiudizi del volgo. Solo in questo modo era possibile che l’individuo potesse essere utile alla società e che soprattutto potesse diventare un uomo migliore ed occupare in essa una posizione di preminenza dovuta ai suoi meriti ed alla sua virtù. Se inoltre egli voleva essere un buon suddito e un buon cittadino era suo dovere essere progressista ed esserlo però entro i limiti imposti dal riformismo. Di fronte agli abusi di un funzionario era lecito gridare: «Viva il re e morte al malgoverno!»; di fronte ad un ordine del re che non si condividesse era possibile: «Far cenno di sì e poi fare ciò che si vuole». Oltre questi limiti, però, il riformismo non poteva andare senza trasformarsi in rivoluzione.
Non vi è dubbio che il progetto riformistico contenesse implicitamente quello rivoluzionario: fu il presentarsi di una opportunità favorevole a spingere le borghesie creole a rompere gli indugi e a scegliere quest’ultimo, accettando la sfida e scatenando in alcune città processi rivoluzionari di spiccato carattere urbano; attraverso queste agitazioni vennero compiuti alcuni passi irrevocabili che costrinsero i creoli a lasciare la via vecchia e ad intraprendere la nuova. Ciononostante non vi fu alcun cambiamento ideologico e, anzi, ci si limitò ad estendere e, talvolta, a radicalizzare le posizioni ideologiche alle quali ci si era mantenuti fedeli fino ad allora. Per estensione si intende che vennero accettate alcune altre idee che appartenevano alla cultura illuministica ma che non facevano parte del modello ideologico spagnolo. Alcuni, e particolarmente i giacobini, assimilarono le idee politiche francesi nelle loro forme più radicali, mentre altri vi si rifecero sulla base di modelli moderati, ma questa assimilazione del pensiero politico liberò, con le sue conseguenze pratiche, i borghesi creoli dal ritmo estremamente ridotto che l’atteggiamento riformista aveva imposto ai processi di trasformazione. Ora tutto poteva procedere più rapidamente, senza pastoie e senza il timore di travalicare i limiti imposti dalla tradizionale struttura della società, ma gli obiettivi che si perseguivano erano ancora quelli formulati dal progetto riformista. Dopo le rivoluzioni urbane la condotta delle borghesie creole continuò ad essere ispirata dalle medesime idee economiche, sociali e pedagogiche.
La cosa grave fu che queste rivoluzioni urbane, che nelle intenzioni erano soltanto politiche, distrussero la corazza che sosteneva il complesso della vecchia struttura urbana e rurale, lasciando così le sue varie componenti libere di cercare un nuovo equilibrio. Ciò era inevitabile dato che erano sempre state le città a garantire la tenuta del sistema. Risultò allora evidente che la società creola che si era lentamente formata era ormai pronta a liberare le proprie forze, superando gli schemi tradizionali ed incominciando a pensare alla riorganizzazione, anche se i vari gruppi stavano ancora lottando tra loro per la conquista delle posizioni chiave. I tradizionalisti e tutti coloro che nel corso di un gioco aperto e forse feroce diventarono tali non riuscivano a vedere altro che una lotta per il potere e percepirono e definirono anarchia quella che era in realtà una situazione di crisi. La posta in gioco andava infatti molto al di là del potere: si trattava di definire quale dovesse essere il posto di ciascuno nella nuova struttura economica e sociale. La società creola, fino ad allora contenuta nelle sue manifestazioni, nonostante l’inequivoca presenza della sua capacità eruttiva, fece il salto di qualità con la crisi dell’ordine politico coloniale e il definitivo sgretolarsi delle basi strutturali della società tradizionale.
Le borghesie creole che misero in moto e diressero i movimenti rivoluzionari urbani cercarono di mantenere in vigore il progetto riformatore nella sua versione limitata e moderata in tutti quegli aspetti che avevano a che vedere con la struttura sociale ed economica. La congiuntura rivoluzionaria modificò la situazione così rapidamente che questa politica delle classi dirigenti finì per incontrare forti resistenze. L’oggetto delle riforme ed in particolare la società cambiò all’improvviso in modo autonomo, spiazzando completamente le borghesie creole. I vecchi problemi vennero sostituiti da altri nuovi, più gravi e più urgenti, intravisti ma non sufficientemente messi a fuoco per quanto riguardava la loro capacità eversiva nei confronti dell’ordine tradizionale. Le borghesie creole dovettero fare uno sforzo enorme per far fronte alla nuova situazione. Nel corso di questo sforzo i nuclei si disintegrarono e le diverse componenti della società creola si riaggregarono più e più volte dando vita ad inedite combinazioni che evidenziavano come fosse necessario rivedere il vecchio progetto per adattarlo ad una realtà nuova che poneva problemi del tutto originali.
Il più grave fu quello delle relazioni tra città e campagna, cioè tra le nuove società rurali e le borghesie creole concentrate nelle città e convinte di avere diritto all’egemonia dato che la città era secondo loro il simbolo della civiltà, mentre il mondo rurale rappresentava l’ignoranza, la tradizione e, in un secondo tempo, addirittura la barbarie. Lo scontro incominciò molto presto, a partire dal momento in cui le borghesie creole e urbane fecero appello alle popolazioni rurali per reclutare gli eserciti che avrebbero dovuto difendere in armi i diritti della rivoluzione, prima, e quelli delle varie fazioni che lottavano per il potere, poi. Con le armi in pugno, la nuova società rurale si inserì di forza nell’elenco dei personaggi che partecipavano al dramma: la sua presenza non era però stata prevista e finí quindi per rompere gli schemi predisposti dalle borghesie creole delle città. In considerazione della funzione economica svolta all’interno del processo produttivo e della composizione etnica e sociale, la comparsa sulla scena delle popolazioni rurali mise in questione il significato stesso della prassi rivoluzionaria. Le borghesie creole sapevano bene di essere state protagoniste di una rivoluzione politica per mezzo della quale il potere era passato dalle mani di un gruppo a quelle di un altro. Tuttavia esse sapevano anche di provenire dal gruppo che era stato rovesciato, di essere cioè un sottogruppo all’interno di una medesima classe; le classi popolari della città avevano anch’esse capito che questo era ciò che era realmente avvenuto ed erano soddisfatte delle prospettive che il mutamento al vertice avrebbe potuto aprire loro. Per contro la comparsa delle popolazioni rurali modificava la situazione e faceva dubitare che quanto accaduto fosse in realtà una rivoluzione sociale di portata ben più ampia di quella contenuta nei progetti di chi aveva promosso la trasformazione. Non vi è dubbio che di questo incominciassero a rendersi oscuramente conto gli stessi abitanti delle zone rurali, dato che venivano chiamati a difendere il nuovo regime. Le borghesie creole se ne resero ben conto e, a partire da questo momento, dovettero aggiungere questo problema alla lista di quelli totalmente nuovi che né il loro progetto riformista né il loro progetto rivoluzionario avevano saputo prevedere. Ben presto, raffreddatasi l’euforia iniziale, incominciarono a prospettarsi alcune soluzioni compatibili con il vocabolario ideologico dell’illuminismo. Moderati o giacobini che fossero, i borghesi creoli stabilirono i limiti del proprio cammino e decisero di contenere l’intero processo nei termini di una rivoluzione esclusivamente politica. Questa decisione fu presa, in nome delle società urbane, dai membri della nuova classe dirigente. Costoro si trovarono però a dover affrontare una rivoluzione sociale spontanea, sviluppatasi in origine senza ideologia ma divenuta ben presto espressione di un atteggiamento anti illuminismo che trovava le proprie basi nel romanticismo europeo che in uno dei suoi tanti aspetti rivendicava il valore del popolo in quanto tale, contrapponendo la sua peculiare natura ai rigorosi dettami universali della ragione. Ebbe così inizio un periodo che le borghesie creole, urbane ed illuminate, considerarono fondamentalmente anarchico.
Questo problema che l’ideologia illuminista non aveva previsto, dato che si era evidenziato a seguito delle tensioni interne della struttura socio-economica, ne portò con sé molti altri. Uno di questi, particolarmente concreto e determinante, aveva a che vedere con la legittimazione della sovranità, mentre un altro, più astratto, implicava una decisione circa la distruzione o il mantenimento dell’ordine coloniale. Il primo problema fu risolto di fatto dato che forse erano già penetrate in molte menti le linee fondamentali della codificazione napoleónica. Le borghesie creole costituirono un fronte compatto fecendo leva sulle istituzioni municipali per autonominarsi rappresentanti della volontà popolare, anche se dovettero far fronte al dissenso di coloro che non si sentivano minimamente rappresentati, cioè i rurali o, meglio, coloro che seppero mobilitare i rurali ed utilizzarli come massa di manovra nella lotta contro le borghesie urbane e le loro fazioni. Il secondo problema altro non fu che un tema di riflessione di lungo periodo, ma la sua presenza restò costantemente sullo sfondo nella mente di molti; nonostante la sua natura teorica, il problema comportava alcune conseguenze pratiche di decisiva importanza per stabilire la portata effettiva e il grado di realizzazione del processo di cambiamento. La tumultuosa crisi sociale e politica che seguì le rivoluzioni urbane mise però in crisi tanto la coerenza del processo riformatore, quanto quella del processo rivoluzionario e le decisioni prese non fecero che rispecchiare questa situazione.
Il primo e fondamentale punto relativo all’opportunità di mantenere o infrangere la continuità con l’ordinamento coloniale era costituito dalla questione dell’indipendenza politica, alla quale venne associata la disputa sulla scelta della forma di governo. Vi erano varie possibilità: l’indipendenza totale nel quadro di un sistema monarchico o repubblicano e le varie forme di protettorato, tra le quali vi era, non ultima, la possibilità di un protettorato inglese. In fondo ogni circolo della borghesia creola aveva una propria opinione ed espresse le proprie preferenze sulla base di un altro dilemma, a cui in genere si ritenne opportuno ridurre la questione, e cioè se doveva essere o meno mantenuta l’ideologia dell’illuminismo. Si trattava di scegliere tra ordine e anarchia, tra autoritarismo e libero gioco delle forze sociali. Non tutte le forze sociali avevano però le stesse caratteristiche, almeno dal punto di vista della borghesia creola, urbana ed illuminata. Una cosa era la «gente per bene», un’altra il «popolaccio», all’interno del quale era poi necessario distinguere tra le plebi urbane e quelle rurali. La prima scelta delle borghesie urbane favorì, ovviamente, l’ordine e la gente per bene; tuttavia, mano a mano che il tempo passava e le altre componenti prendevano forza e trovavano espressione, grazie alla mediazione di certi gruppi che facevano parte della stessa borghesia creola ma che ritennero opportuno avvalersi dell’appoggio rurale non rifiutandolo quando venne loro offerto o, addirittura, cercandolo, le borghesie urbane finirono per dividersi in fazioni che, nella loro lotta per il potere, interpretarono con maggiore elasticità la nuova realtà sociale.
Quanto al secondo punto, non meno importante del primo, si trattava di scegliere tra un regime centralizzato ed un altro nel quale sarebbe stata riconosciuta la personalità politica delle aree regionali che avevano ormai incominciato ad acquisire una propria fisionomia. Il centralismo presupponeva che venisse confermato il significato delle città e dei ceti borghesi e che, dunque, venisse mantenuta la rete urbana che aveva i proprii punti di convergenza nelle capitali, perpetuando in questo modo un ordine che ignorava il processo di effettiva differenziazione che era ormai avvenuto in ciascuna zona vicereale e mantenendo quella indistinzione che datava dai tempi della conquista e che il sistema delle intendenze non era stato capace di scalfire, almeno nell’area spagnola. Il regionalismo era invece l’antitesi di tutto questo, ignorava il principio uti posidetis e affermava, in modo puro e semplice, l’incontrovertibile realtà delle regioni che avevano raggiunto piena coscienza di sé ed i cui abitanti non riconoscevano altro ambiente che quello a cui sentivano di appartenere, al di là di ogni artificio istituzionale. Come era avvenuto nel caso dell’indipendenza e dei regimi politici, le borghesie creole, urbane ed illuminate, fecero propria la concezione centralista per poi frantumarsi sulla base delle momentanee esigenze imposte dalla lotta per il potere tra le varie fazioni.
Fu proprio l’atteggiamento pragmatico di quelle fazioni che non esitarono a cercare l’appoggio delle nuove forze sociali nate a seguito delle rivoluzioni urbane a produrre la crisi delle borghesie creole, in origine urbane ed illuminate e poi, gradualmente, sempre più divise tra coloro che continuavano a mantenersi fedeli alla propria ideologia originaria, rifiutandosi di riconoscere la nuova realtà sociale, e coloro che invece riconobbero tale realtà e vi si avventurarono, alcuni dimenticando le proprie radici ideologiche ed altri perché non erano mai stati veramente convinti della validità di quella ipotesi, altri ancora perché, nonostante appartenessero socialmente alla borghesia urbana, erano ancora legati ad una concezione del mondo pre-illuministica. Divisa, la borghesia creola smise di monopolizzare i ruoli dirigenti della nuova società per lasciare posto ad una nuova élite, anch’essa creola, ma legata più ad una situazione che ad una ideologia: l’élite patrizia.
5.
Le città patrizie
Consolidatasi l’indipendenza nel corso delle prime decadi del secolo XIX, varie circostanze intervennero a modificare sostanzialmente la fisionomia delle città creole. Il cambiamento non si verificò tanto nell’aspetto fisico, che fino alla fine del secolo restò praticamente lo stesso, quanto nella struttura sociale. Le borghesie creole formatesi negli ultimi decenni del secolo XVIII lasciarono il posto ad un nuovo patriziato che si forgiò nelle lotte per l’organizzazione delle nuove nazioni e che costituì la classe dirigente urbana che prendeva le decisioni su una massa multiforme alla quale andarono sempre più incorporandosi nuovi elementi di provenienza rurale. Indubitabilmente creolo, in quanto nato spontaneamente da una società che cercava una nuova élite, il nuovo patriziato accettò, sia pure in un modo tutto suo, le responsabilità implicite nell’incerto destino che attendeva ciascuna delle nuove nazioni; sia pure attraverso accesi conflitti, le varie fazioni di questo ceto tracciarono un primo abbozzo di ciò che ciascun paese sarebbe diventato. Le città divennero patrizie perché al loro interno si svilupparono le parti fondamentali del processo costitutivo di ciascun paese e perché nel loro ambito la nuova classe dirigente si temprò ed acquisì uno stile di vita e di pensiero del tutto peculiare.
L’Indipendenza aveva, di fatto, creato le nuove nazioni, ma, identificandole, aveva posto loro il non facile problema di tracciare urgentemente il profilo della propria originale personalità, disegnando con anticipo un possibile itinerario per il cammino futuro. Tuttavia, dato che l’indipendenza aveva tolto le pastoie alla società creola, restò aperto il problema di quali gruppi dovessero farsi carico della missione sopra citata. Le borghesie creole, adagiatesi sui vecchi schemi illuministici ed incerte di fronte alla nuova società che si profilava, subirono una radicale trasformazione dopo essere entrate in contatto con i gruppi di potere che si stavano formando; dall’una e dall’altra parte, o, meglio, dal loro incontro emerse il nuovo patriziato, al tempo stesso urbano e rurale, illuminista e romantico, progressista e conservatore. A questo ceto toccò di dirigere ed incanalare la nuova società entro i confini, incerti e privi di tradizione, dei nuovi stati, anche se fu proprio svolgendo questo compito che la classe dirigente diventò effettivamente tale. Essa non esisteva infatti prima e fu, nella fase iniziale, tutt’altro che omogenea. Gli interessi in conflitto, le ideologie in lotta e le alternative offerte da un processo sociale assai confuso interferirono ripetutamente con i progetti che, di volta in volta, venivano formulati dalle diverse fazioni che aspiravano ad una posizione egemonica. L’Indipendenza fu quasi ovunque seguita da un lungo periodo di lotte che culminarono, di solito, in lunghe e sanguinose guerre civili. La società creola aveva assunto la direzione ma non il controllo di una società i cui confini erano messi in discussione dall’apparizione di nuovi gruppi che fino ad allora erano rimasti inoperosi perché prigionieri dell’antico ordine sociale. Per quanto riguardava il futuro vi era un solo progetto esplicito e certo, e si trattava di quello delle borghesie creole che avevano promosso l’indipendenza. Ciononostante la realizzazione di questo progetto presupponeva una società che ormai non esisteva più, dato che gli eventi ne avevano modificato la struttura, determinandone una trasformazione rapida e continua. Per questa ragione il progetto creolo divenne, perlomeno temporaneamente, irrealizzabile. Era dunque necessario trovare nuovi orientamenti, forse meno definiti, ma, indubbiamente, più idonei alla nuova situazione.
Il nuovo patriziato prese forma dalla ricerca di questi orientamenti e dal gioco d’azzardo rappresentato dall’imporre, come valido, uno di essi. Alcuni dei nuclei patrizi manifestarono una certa lucidità intellettuale, ma la maggior parte di essi agì spontaneamente, mossa da interessi particolari ed immediati, talvolta economici e talaltra politici, senza preoccuparsi troppo della coerenza, della legittimità e delle implicazioni ideologiche delle proprie azioni. In sostanza agire era la cosa più importante per tutti coloro che erano appena usciti da una posizione di marginalità, dato che le aspirazioni di potere erano legate al successo di un’azione fortunata, che, da sola, poteva offrire una posizione vantaggiosa per molte persone, quando fosse giunto il momento di negoziare i termini del nuovo ordinamento; di questo costituendo equilibrio soltanto pochi si preoccupavano in modo sistematico, cercando di collegarlo ad un progetto più vasto che facesse riferimento a principi politici, economici e sociali ben definiti; la maggior parte dei protagonisti aspettavano semplicemente che il nuovo scenario emergesse dal rapporto di fatto tra le varie situazioni reali. La lotta fu continua e le città si trasformarono molto spesso in agitati luoghi di riunione, nei quali la discussione ideologica veniva dopo il sollevamento militare o la mobilitazione di massa. Assemblee e congressi riunivano tutti i principali attori del dramma, anche se i vari protagonisti erano forse coloro che svolgevano le loro riunioni all’interno delle caserme. I giornali facevano circolare le idee e in tutti i circoli politici la disputa dottrinaria si mescolava al brusio polemico con cui veniva commentato l’agire dei vari personaggi pubblici. Non di rado tutto questo fu accompagnato da scontri violenti nelle strade e i morti, dovendo essere vendicati, esasperavano, nella memoria, l’odio e le passioni di parte.
Verso la metà del secolo le tensioni si allentarono dato che quasi ovunque le situazioni di fatto resero evidente il nuovo equilibrio. Ogni gruppo, ogni settore, ogni regione aveva messo a nudo non solo le proprie aspirazioni ma anche la propria capacità di imporle agli altri. Ebbe coì inizio una fase di passaggio che portò dall’anarchia verso un certo grado di organizzazione, basato, talvolta, sulla forza egemonica di un gruppo particolare o su quella di un’ampia coalizione nata dal compromesso. La stessa instabilità sociale finiva infatti per attribuire un valore taumaturgico ai patti che venivano solennemente ratificati. Ciò che pareva essere la fine di un conflitto, coincideva spesso con l’inizio di un altro. La lotta per le costituzioni fu rabbiosa e il premio per i vincitori consisteva in genere nell’imporre il proprio progetto giuridico. Tuttavia, verso il 1880, le nuove generazioni patrizie, costituite dai figli e dai nipoti dei padri delle nazioni, avevano ormai completato il proprio radicamento economico, stabilizzato i propri interessi e scelto obiettivi compatibili con i mezzi disponibili. L’attitudine al compromesso divenne più marcata e portò, in alcuni casi, ad un ordinamento costituzionale basato su un consenso assai largo tra gruppi di potere, mentre in altri si arrivò a riconoscere un potere personale più forte degli stessi princìpi costituzionali.
Certamente il lungo processo locale che si sviluppò in ogni zona, nel periodo compreso tra l’indipendenza e il 1880, cioè nel periodo delle città patrizie, coincise con i grandi mutamenti economici che modificarono la situazione in Europa e negli Stati Uniti. La rivoluzione industriale, avviatasi in Inghilterra, era andata estendendosi ad altri paesi e la pressione economica sull’America latina divenne quindi sempre più forte. I mercati vennero pressati dai finanzieri che contrattavano prestiti e dai commercianti che vendevano manufatti ed acquistavano materie prime; la pressione fu però anche militare e politica. Le grandi potenze ritennero legittimo conquistare mercati con la forza, ragion per cui a volte bloccavano i porti, come avvenne a Valparaíso, a El Callao e nel Rio de la Piata, in altri casi scatenavano guerre, come avvenne in Brasile, in Paraguay e sul Pacifico, e altre volte ancora cercavano di imporre regimi stranieri, come accadde in Messico con la folle avventura imperiale di Massimiliano. Si arrivò al punto che persino uno strambo avventuriero nordamericano, William Walker, potè credere di impadronirsi impunemente del potere in America centrale.
La campagna subì l’urto della trasformazione industriale e la forza vapore fece la sua comparsa nei vecchi impianti di raffinazione dello zucchero. Poco dopo incominciarono a circolare battelli a vapore e venne intrapresa la costruzione delle ferrovie. La produzione veniva così a concentrarsi nelle città, cosicché in esse, ormai illuminate a gas, si registrò un incremento di attività, più accentuato nella seconda parte del secolo. Il commercio con l’estero, di importazione e di esportazione, e le filiali delle banche straniere diedero impulso alla vita urbana e lentamente i discendenti dell’antico patriziato, ormai stabiliti in ambienti urbani che aspiravano a riprodurre quelli europei, scoprirono che la miglior opportunità era rappresentata per i nuovi paesi dalla possibilità di mettersi a traino dello sviluppo delle grandi potenze industriali.
Città e campagna
L’Indipendenza sciolse i lacci che impedivano alla società creola di svilupparsi e le guerre di Indipendenza e quelle civili offrirono l’occasione favorevole che consentì ai diversi gruppi che componevano il mondo creolo di irrompere sulla scena della vita sociale, affermando la propria personalità, le proprie tendenze e le proprie aspettative. Oltre alla borghesia creola, anche la plebe urbana riuscì talvolta ad affacciarsi alla ribalta; il quadro fu tuttavia alterato in modo sostanziale dalla comparsa di quella società rurale che si era formata alla fine del XVIII secolo e che nella situazione prerivoluzionaria aveva subito potuto trovare una propria missione, cogliendo, attraverso di essa, opportunità fino ad allora mai sospettate. Chiamata per la prima volta a partecipare, questa società si trovò ad essere incoraggiata a competere per il potere e l’egemonia ideologica; rispose accorrendo al richiamo e chiedendo in cambio il ruolo che la sua forza sembrava giustificare.
In origine l’America latina era stata un mondo fatto di città, ma la campagna fece rapidamente la sua comparsa e sommerse tutte queste isole. La campagna era il nucleo più compatto della società creola e divenne dunque il centro propulsore del regionalismo creolo. La società rurale scoprì le proprie carte e mise in evidenza che non solo al suo interno si produceva la ricchezza necessaria alla sopravvivenza dell’intero sistema, ma anche che in essa si amalgamava quella popolazione radicata che era l’unica che avrebbe potuto trasformare ogni nucleo coloniale in una nazione indipendente dai caratteri ben definiti. La campagna affermava insomma il proprio ruolo di crogiuolo della nazione ogni volta che si trovava sui campi di battaglia o calava sulle città impaurite con valorose truppe di cavalleria con alla testa capi improvvisati, che sembravano non sapere ciò che volessero. Quest’ignoranza era, però, soltanto un’illusione dei gruppi colti della città. Al pari dei loro soldati, i terratenenti, che si autoproclamavano colonnelli e generali, partecipavano di un vasto sistema ideologico che era tipico del mondo rurale: il creolismo; si trattava di una filosofia di vita che aveva le proprie radici in un’esperienza quotidiana ormai secolare e quindi più forte dal punto di vista emotivo che da quello teorico. Era un’ideologia spontanea i cui termini incominciarono a diventare precisi soltanto quando si confrontarono con quelli dell’ideologia delle città; la formulazione compiuta di questo schema era un modo di vivere supportato da un illimitato patrimonio di idee e da un insieme di comportamenti accumulati sulla base dell’esperienza. In quanto ideologia spontanea il creolismo mescolò un sistema di vita e una mentalità e non arrivò mai a separare troppo chiaramente quest’ultima cosa dall’altra. Per questo il creolismo non si oppose ad una specifica ideologia, tra le tante che dominavano la vita cittadina, ma si oppose al loro insieme, caratterizzandosi come fenomeno antiurbano, anche se occorre riconoscere che mostrava una certa inclinazione per tutti quegli atteggiamenti che comportavano un certo attaccamento a forme di vita e di pensiero legate alla tradizione. Centro propulsore del nativismo regionalista, la campagna finì per assediare le città, dapprima con una forza cieca e apparentemente involutiva, ed in seguito con sempre maggiore moderazione fino ad essere completamente coinvolto dalla complessa rete dei problemi di questo altro mondo, anch’esso reale, del quale facevano parte le città che, a forza di analizzare l’intricato rovescio della trama mercantile, avevano imparato a rapportarsi con il proprio retroterra.
In quanto espressione di un sistema economico, o meglio, di un sistema produttivo che vedeva nelle città il laborioso luogo dell’intermediazione, la società rurale fece la sua comparsa come fattore politico, ma fu ben presto chiaro che il suo vero obiettivo non consisteva nel distinguere le città ma nel prenderne possesso, forse nella speranza di poterle sottomettere alle proprie direttive, come, in parte, effettivamente avvenne. Le città, infatti, si ruralizzarono parzialmente, anche se solo in apparenza, cioè nei costumi, nelle abitudini e nella sistematica esibizione di usi regionalistici. Dietro questa facciata, la società rurale venne però riportata, gradualmente, agli schemi della mentalità urbana. Col tempo persino gli usi e i costumi tornarono ad essere spiccatamente urbani, indipendentemente dal fatto che la città fosse politicamente controllata da Páez o da Rosas. Nel frattempo la società rurale vera e propria, quella cioè che produceva ricchezza, finì per riadattare nuovamente i propri meccanismi alle esigenze del complesso sistema di intermediazione di cui le città erano amministratrici talmente sagge che l’influenza e il potere della campagna si manifestarono soltanto attraverso l’incorporazione nel mondo della città, condividendone la tradizione con gli esperti gruppi che, nonostante si fossero temporaneamente avvicinati alla concezione rurale del potere, avevano lentamente recuperato le proprie posizioni, conquistando coloro che li avevano momentaneamente vinti con il semplice fatto di introdurli nel gioco dei complessi meccanismi di cui erano arbitri.
In ogni caso, dopo l’indipendenza le città smisero di avere il monopolio delle decisioni politiche ed economiche. Continuarono certamente ad essere i nuclei sociali più organizzati e, proprio per questo, recuperarono pian piano il proprio originario potere, anche se, per farlo, dovettero sostituire le antiche classi dirigenti con altri gruppi più adatti a mediare con il mondo rurale. A sua volta, anche la campagna si trasformò in un centro di decisioni e le città furono costrette ad accettare questa bipolarità. Solo in casi eccezionali le decisioni prese dalla società rurale si rivelarono prive di prospettiva. La campagna infatti accettò a sua volta la crucialità del ruolo delle città e volle controllarle nella speranza di poter in questo modo controllare coloro che le controllavano. In pratica la classe dirigente rurale si urbanizzò altrettanto o più di quanto le città non si fossero ruralizzate e, nel volgere di poco tempo, finirono, quindi, per integrarsi alla nuova società ed alle sue norme. Vicente Pérez Rosales, parlando della capitale cilena, scriveva: «Gli abitanti di Santiago sono sempre i registi e i direttori di scena del dramma tragicomico della nostra vita pubblica». Tuttavia anche gli abitanti di Santiago, al pari di tutti i ceti urbani del tempo, avevano modificato la propria fisionomia. Continuavano a mantenere il controllo della propria regione e di tutto il paese, ma intrinsecamente, come gruppo sociale erano talmente integrati che la loro rappresentatività era assai maggiore di quella delle antiche borghesie creole, dato che della nuova classe dirigente facevano ormai parte alcuni elementi provenienti dalla società rurale.
Le città cambiarono ma anche le campagne si trasformarono. L’Indipendenza, certamente, non modificò il sistema produttivo. Come era avvenuto ai tempi della colonia continuarono a sussistere le antiche forme della proprietà e del possesso e per parecchi decenni restò in vigore anche il maggiorasco. Continuarono ad essere applicati anche i tradizionali sistemi di reclutamento della manodopera e non vi furono sostanziali modifiche in quelli della produzione. Molte imprese agricole continuarono ad essere controllate dalle stesse famiglie; un esempio di questo fenomeno può essere fornito dalla proprietà «Canada Seca», le cui vicende sono descritte da William Henry Hudson in Alla lejos y hace tiempo; altre proprietà passarono tuttavia di mano nel periodo della rivoluzione e delle guerre civili. Fecero la loro comparsa imprenditori stranieri che sottoposero la terra ad uno sfruttamento intensivo, come fece per esempio il tedesco che Pal Rosti incontrò, nel 1857, sulla proprietà «El Palmar»; costoro si dedicarono alla produzione del caffè nella vallata venezuelana di Aragua, mentre i nordamericani concentrarono i propri interessi nello sfruttamento zuccheriero delle isole dei Caraibi, e gli inglesi penetrarono nella pampa argentina dove Hudson li ricorda fra i suoi vicini. Soprattutto però fecero la loro comparsa nuovi proprietari e nuovi appaltatori che si fecero forti, in molte delle antiche proprietà, della propria influenza e del proprio potere, dato che per chi occupava i vertici della nuova gerarchia, nazionale o locale, non vi era niente di più facile che rovinare un antico proprietario per obbligarlo ad abbandonare la propria terra e le proprie mandrie. In questo modo nacquero nelle campagne molti nuovi ricchi, il cui potere risultò irrobustito ed accresciuto grazie alle fortune così acquisite ed al gran numero di uomini che con esse era possibile mobilitare.
Nelle vecchie imprese agricole si continuava a lavorare nel modo tradizionale e tutte le fattorie, descritte dalla marchesa Calderón de la Barca nel suo libro La vida en México, somigliano nei loro tratti fondamentali alle tradizionali fazendas brasiliane e a quelle che compaiono nei romanzi di Jorge Isaacs e William Henry Hudson. Ciononostante le cose incominciarono a cambiare. Sicuramente cambiò l’atteggiamento dei proprietari. Come nel caso di Mauá e dei piantatori di caffè paulisti, la mentalità tradizionale del fazendeiro o del proprietario che viveva nell’America spagnola incominciò ad essere modificata da comportamenti apertamente imprenditoriali. Il produttore capì che non poteva perdere di vista i meccanismi dell’esportazione, poiché ad essi erano legate le nuove possibilità offerte dal mercato internazionale, la cui domanda era stimolata dallo sviluppo industriale dell’Europa e degli Stati Uniti. Il proprietario capì anche di dover accettare ed utilizzare le innovazioni tecniche che, in quel periodo, stupivano tutto il mondo, anche perché non facendolo c’era il rischio di mettere in crisi la propria attività con conseguenze sempre più gravi sul problema della manodopera. Nei primi decenni del secolo i produttori più innovatori incominciarono ad introdurre le macchine a vapore, in special modo nella raffinazione dello zucchero a Cuba; mano a mano che l’esperienza si sviluppò superando la polemica sui vantaggi e gli svantaggi della meccanizzazione, l’uso delle macchine si estese ad altre regioni e ad altri settori produttivi. Un’ulteriore evoluzione tecnica venne successivamente introdotta su imitazione di modelli stranieri.
Le nuove tecniche agricole, zootecniche e minerarie furono la risposta alla domanda internazionale che alimentava i flussi di esportazione. I mercati stranieri richiedevano maggiori quantità di prodotti ma volevano uno standard qualitativo uniforme e i produttori più sensibili si sforzarono, specie dopo la metà del secolo, di migliorare la propria produzione. Gli allevatori cercarono di selezionare le proprie mandrie incrociandole con capi da riproduzione inglesi e francesi, mentre i piantatori incominciarono a controllare le proprie coltivazioni eliminando le malattie, ottimizzando i sistemi di irrigazione ed introducendo nuove varietà, allo scopo di ottenere un prodotto in grado di essere competitivo sul mercato internazionale; tutto ciò avvenne in un primo tempo su scala ridotta, ma si estese sempre più nel corso della seconda metà del secolo XIX, in parallelo con il raggiungimento di un equilibrio relativamente stabile.
Alcuni prodotti godettero di particolari cure, dato che offrivano nuove possibilità di sfruttamento. Le lane avevano in Argentina ottime prospettive, ma si cominciava a vedere la possibilità di vendere carni fresche in Europa, qualora si fosse riusciti a migliorarne la qualità grazie ai risultati di una politica degli incroci allora appena avviata. La domanda era forte e, in rapporto alle scarse possibilità di farvi fronte che l’Europa aveva, divenne importante la disponibilità che il Perù aveva di fertilizzante naturale. Il peruviano Luis Esteves, facendo la storia dell’economia del suo paese nel secolo XIX, scriveva nel 1882: «Le isole deserte di Chincha risultano essere un ricco deposito di nitrati: la terra ipersfruttata dell’Europa, ormai condannata alla sterilità, riceve grazie a questi fertilizzanti nuova linfa vitale; l’Inghilterra di Malthus, dove la popolazione aumenta più che in proporzione rispetto ai mezzi di sussistenza, trova grazie al guano la possibilità di ribassare il prezzo del pane e di tornare a produrre carne. Quanto dovrebbero essere grate tutte le nazioni del mondo per una simile risorsa e quanto, di conseguenza, dovrebbe essere felice il futuro del Perù?». I riconoscimenti, in verità, giunsero ad un punto tale che la Spagna, pur senza riuscirci, mandò, nel 1863, un contingente militare perché tentasse di impadronirsi delle isole. Il guano rappresentò per un certo periodo il principale prodotto di esportazione del Perù. Nel frattempo anche un altro tipo di fertilizzante, il salnitro, sembrava promettere enormi profitti a causa della forte domanda europea. Questa risorsa fu contesa tra il Perù e il Cile e dopo la guerra del Pacifico, nel 1879, quest’ultimo finì per prevalere e controllare i giacimenti nitrici di Tarapacá. Metalli di uso industriale vennero ossessivamente ricercati in molte regioni e alcuni di essi incominciarono a trovare profittevoli spazi di mercato. Il caffè dello stato brasiliano di San Paolo, che già a metà secolo era diventato il principale prodotto di esportazione, continuò ad essere coltivato ad un ritmo sempre più intensivo, specialmente a partire dagli anni intorno al 1870 quando la coltivazione del caffè acquisì carattere industriale.
Come era già accaduto a Cuba per i produttori di zucchero, furono proprio i nuovi produttori di caffè coloro che più chiaramente manifestarono una certa evoluzione della mentalità che, per altro, si sarebbe imposta solo più tardi in tutte le altre regioni e nei restanti settori dell’economia. Informati sul mercato mondiale, i nuovi imprenditori sapevano che non era sufficiente controllare a dovere il processo di produzione e che era invece necessario influenzare anche i meccanismi commerciali, dato che si produceva, principalmente, a scopo di esportazione. Tuttavia per molti decenni continuò a prevalere anche dopo l’indipendenza il modello di sfruttamento agricolo e minerario basato sull’abitudine e sulla tradizione per quanto riguardava la gestione dell’intero processo. Le preoccupazioni dominanti delle classi proprietarie erano ben altre; essi si preoccupavano infatti dell’influenza che riuscivano ad esercitare e a convertire, a volte, in potere militare e politico. L’esistenza era patriarcale e ricalcava l’immagine di quel Joaquín Gómez che la marchesa Calderón de la Barca definì «monarca di tutto ciò che gli riusciva di vedere attorno a sé». Talvolta questi proprietari risiedevano nelle città dove, in ogni caso, avevano una abitazione, anche quando passavano la maggior parte del tempo nelle loro terre dove vivevano secondo i costumi ed i principi che più gradivano, a stretto contatto con le operazioni agricole, vigilando sulle innovazioni dei processi di produzione. Alcuni, in omaggio a gusti particolarmente primitivi, si accontentavano di vivere nei vecchi edifici che avevano ereditato e che non di rado erano semi diroccati. Non mancava tuttavia chi si comportava come Lavalle che, secondo quanto scrive Flora Tristán, che nel 1834 ne visitò lo zuccherificio in Perù, «si era fatto costruire una delle case più eleganti, senza economizzare per quanto riguarda la solidità della struttura e le parti decorative. Questo palazzotto di industriale è arredato con gran ricchezza e con notevole gusto: tappeti inglesi, mobili, orologi e candelabri provenienti dalla Francia; incisioni e curiosità cinesi e, per finire, tutto ciò che si trova lì riunito e che può contribuire a rendere più comoda l’esistenza ».
In questo stesso stabilimento situato vicino a Lima il proprietario disse alla sua ospite: «Signorina, lei parla dei negri come una persona che non li conosce se non per tramite dei bei discorsi dei suoi filantropi da salotto; tuttavia è invece disgraziatamente vero che è impossibile far fare loro qualcosa senza frustarli». Costui stava parlando degli schiavi che costituivano la manodopera della sua azienda, cioè di quattrocento uomini e delle relative donne e bambine. In altre zone, per esempio in Messico, la manodopera era costituita da indigeni e da meticci e non erano poche le aziende, specialmente zootecniche, nelle quali era possibile incontrare creoli a cavallo che, alle volte, avevano persino qualche goccia di sangue indigeno nelle vene. Nelle piantagioni la disciplina era severa e la punizioni erano a volte crudeli: gli schiavi venivano marchiati a fuoco e le donne si vendicavano abortendo e gli uomini lavorando il meno possibile. In posizione di più accentuata subalternità, gli indios erano costretti a sopportare con pazienza la propria condizione. Soltanto gli addetti all’allevamento potevano conservare una relativa indipendenza, alla quale non rinunciavano se non per il rispetto che ritenevano di dovere al valore ed alle attitudini che il padrone dimostrava per la vita rurale. Quest’ultimo, a sua volta, pur senza rinunciare all’esercizio di un’autorità dispotica rispettava i propri dipendenti. Il capitano inglese Andrews offrì una volta una sigaretta ad un gaucho e si trovò poi a scrivere nei suoi appunti: «Benché si offra da fumare ad un manovale della campagna, il gesto deve essere compiuto con un’aria cavalleresca di stile spagnolo, altrimenti perde metà del suo valore». Cosa assai curiosa, Darwin avrebbe scritto poco tempo dopo nel suo Viaggio di un naturalista: «Se un gaucho vi dovesse tagliar la gola, lo farebbe sicuramente da gentiluomo».
L’attività di allevamento aveva bisogno di pochi addetti, dato che gauchos, vaqueros, huasos, morochucos e llaneros sapevano abilmente controllare mandrie composte da numerosi capi, grazie alla loro abilità di cavalieri; per questa ragione la manodopera non mancò mai e fu garantita sia da coloro che permanevano stabilmente presso una fattoria, sia da coloro che vagabondavano per la campagna offrendosi di volta in volta all’uno o all’altro secondo le necessità. Per contro, nelle piantagioni e nelle miniere il problema della manodopera si fece sentire con tutta la sua gravità. Il prezzo degli schiavi di colore aumentava mano a mano che il loro numero diminuiva sia per la crisi della tratta, sia per le epidemie, per la poca natalità e per l’elevata mortalità infantile. Inoltre aumentava sempre il numero degli affrancati, che non sempre decidevano di restare presso le imprese in cui avevano lavorato fino ad allora; le condizioni delle fattorie rurali peggiorarono quando nei vari paesi venne definitivamente stabilita la abolizione della schiavitù: il Messico prese la decisione nel 1829 e tutti gli altri paesi lo fecero nel periodo successivo, fino al 1888 quando la schiavitù venne soppressa anche in Brasile. Nel frattempo era sparito quasi dappertutto l’obbligo fiscale di prestazione personale per gli indigeni. Fu dunque necessario che le aziende rurali si riorganizzassero sulla base dell’utilizzo di manodopera libera.
Inoltre varie circostanze offrirono alla plebe rurale la possibilità di modificare il proprio destino. Le guerre in special modo aprirono una via per l’integrazione dato che gli addetti al reclutamento non facevano distinzione di casta. Alcuni sostenevano la necessità di rompere subito e fino in fondo con l’ordine stabilito; Coto Paul gridava eccitato, nel 1811, a Caracas: «Anarchia! Questa è la vera libertà, quando per sottrarsi alla tirannia ci si slaccia la cintura e ci si sciolgono i capelli. Anarchia! Se gli Dei dei deboli, lo sconforto e la paura, la maledicono, io invece mi inginocchio alla sua presenza. Signori: che l’Anarchia con la torcia delle Furie in mano ci porti fino al Congresso, e che il suo fumo possa ubriacare i fautori dell’ordine e possano anch’essi seguirla per le strade e per le piazze al grido di libertà! Siamo qui per ridare vita al mar Morto del Congresso, siamo qui sull’alta montagna della santa demagogia; quando questa avrà distrutto il sistema presente e gli spettri insanguinati saranno venuti a noi sul campo di battaglia arato dalla guerra, allora sorgerà la libertà». Negri, mulatti, indios e meticci accorsero a questo richiamo e vennero arruolati negli eserciti delle guerre di Indipendenza, tanto che San Martín potè dire che i migliori soldati del suo esercito erano proprio i negri. Tuttavia furono le guerre civili quelle che offrirono maggiori opportunità di integrazione e di ascesa alle plebi rurali. Esse non solo vennero chiamate a partecipare a grandi imprese da capi che svolsero un ruolo importante in politica e che, per esempio, portarono i ribelli a Buenos Aires nel 1820, a Messico nel 1855 e a Lima nel 1865; ogni proprietario ebbe in alcune occasioni bisogno di intervenire in una qualche questione politica sorretto dal suo esercito personale e, nel corso di questa lotta, i migliori si distinsero e non tornarono più alla propria umile condizione originaria. La consapevolezza che loro costituivano « il popolo in armi » andò generalizzandosi e su questa sensazione si formò una rudimentale democrazia che, sia pure con estremo gradualismo, avrebbe trovato in un successivo periodo la propria espressione politica. Indubbiamente dovette anche accadere che qualche proprietario arrivasse a rendersi conto che i suoi schiavi erano esseri umani e quindi gli prestasse ascolto come avviene nel romanzo di Jorge Isaacs, dove uno schiavo racconta l’ancestrale fiaba afro-americana della negra Feliciana.
Questo esercito di contadini, comandato da un luogotenente del padrone o dal padrone stesso poteva essere utile non solo per scontrarsi con altri eserciti simili nel corso delle lotte politiche, ma anche perché la quasi permanente crisi di potere creava una situazione di fatto, nella quale vi era per ciascun proprietario la necessità di organizzare la propria difesa. Il banditismo, inteso come creazione di bande, fu un’espressione tipica e, forse, la più importante dell’esplosione del problema della plebe rurale e della crisi che il sistema tradizionale si trovò ad attraversare nel periodo successivo all’indipendenza. Le strade si riempirono di banditi che depredavano i viaggiatori e che non avevano paura di assaltare le fattorie. Quando facevano la loro comparsa nessuno poteva sapere chi fossero, anche perché non era raro che costoro si confondessero con le pattuglie degli eserciti irregolari che combattevano la guerra civile. Banditi e soldati erano insomma due facce della stessa moneta, anche se una rudimentale uniforme, per esempio un cappello o un colore di riconoscimento, potevano in alcuni casi consentire l’identificazione dei secondi; tuttavia nessuno poteva permettersi di dare credito a questa debolissima credenziale, specie di fronte alla concreta prospettiva di vedere la propria casa occupata, il proprio bestiame razziato, le proprie ricche suppellettili rubate. I banditi, eccetto per il fatto che avevano un minore rispetto per la vita umana, non avrebbero potuto fare di peggio. Il proprietario poteva in genere riconoscerli per il loro comportamento e, spesso, per il fatto di avere identificato alcuni membri della banda. Per rispondere all’attacco egli doveva armare i propri uomini e trasformare in fortezza la propria casa. Sapendo di non poter fare nessun conto sulla legge, doveva accogliere a schioppettate i suoi aggressori.
Più grave era il problema delle strade che, oltre ad essere cattive di per sé, diventavano anche pericolose nei tratti più sinuosi, tra le montagne e nelle zone boscose. I banditi si appiattavano in silenzio e aspettavano che passasse una diligenza, una carovana di carri da trasporto o della gente a cavallo; approfittando della sorpresa costoro prendevano possesso di tutti i beni dei viaggiatori e uccidevano senza pietà chiunque si azzardasse ad opporre resistenza. Per far fronte a queste circostanze, ogni proprietario non poteva che contare su una scorta privata, armata fino ai denti e fornita di buoni cavalli. Se necessario, un caporale o un fattore era in condizioni di mettere in pratica una tattica che aveva appreso nell’esercito o maturata per una lunga esperienza di scaramucce. Nel momento cruciale si arrivava così ad uno scontro frontale tra due bande e i rapinatori ed i contadini dirimevano, con alterna fortuna, quello che era in realtà un conflitto simbolico che opponeva la società regolare a quella ribelle.
La marchesa Calderón de la Barca, una donna scozzese maritata al console generale di Spagna in Messico, dopo aver vissuto nel paese tra il 1840 e il 1841, offriva una spiegazione semplicistica al fenomeno del banditismo: «Questa peste dei ladroni, che ammorbano la repubblica, non ha mai potuto essere estirpata. Di fatto sono un retaggio della guerra civile. In alcuni casi, sotto la protezione degli insorgenti, hanno partecipato attivamente all’indipendenza e hanno devastato, con assoluta indipendenza, il paese, depredando tutti coloro che hanno incontrato sul loro cammino. Con il pretesto di estromettere gli Spagnoli, queste bande armate, occupando le strade tra Veracruz e la capitale, hanno rovinato completamente il commercio e, mettendo da parte le questioni politiche, hanno propagato ovunque il furto e l’omicidio. Nel 1824 venne presentata al Congresso una legge in virtù della quale tutte le squadre armate di ladroni avrebbero dovuto essere giudicate in base alla legge marziale per rendere più spedite le procedure, dato che la maggior parte di questi banditi finiva per trovare il modo di evadere il carcere mentre la causa era ancora pendente, tanto che molti erano stati imprigionati quattro o cinque volte per lo stesso delitto, senza mai essere stati portati davanti alla giustizia. In questa legge venivano inclusi sia i ladroni di professione che quelle bande di insorti che non erano altro che frutto di un momentaneo opportunismo. Tuttavia, quali che siano state le misure prese nelle diverse epoche per far fronte a questa calamità, le sue cause permangono inalterate e sia i vagabondi che i senza morale non possono che trarre dallo stato di disorganizzazione in cui si trova il paese un continuo profitto e un incentivo per ottenere con la violenza ciò che invece dovrebbero guadagnarsi con un lavoro onorato».
«Vagabondi e senza morale» o, come altrove si disse, «vagabondi e gente di malaffare» erano considerati, a rigor di termini, coloro che si sottraevano, come potevano, allo stato di soggezione che la plebe rurale aveva sopportato per lungo tempo. Le guerre e l’anarchia offrirono a costoro un’occasione e, mentre i loro padroni lottavano per il potere, i contadini trasformati in truppe di cavalleria cercarono di sopravvivere e, se possibile, di arricchirsi con il furto e il crimine. La cosa più importante era ovviamente sottrarsi allo sfruttamento padronale ed alla dipendenza, godere cioè della selvaggia libertà che caratterizzava la terra senza padrone e della facile ricchezza che consentiva di emulare i signori.
Fu probabilmente in Messico che il fenomeno del bandolerismo si protrasse più a lungo e raggiunse la massima intensità. Tuttavia la sua presenza altrove non fu né breve né marginale. In Perù, vicino a Lima, i bandoleros di Piedras Gordas e della Tullada de Lurin spadroneggiavano. In Colombia battevano la planura partendo da Cota, dove divenne celebre il bandito Juan Rojas y Rodríguez. In Cile i banditi scendendo da Portazuela de Colina, da La Dormida e da altri luoghi segnalateci da Pérez Rosales arrivarono a minacciare, poco dopo l’indipendenza, la stessa capitale; lo stesso autore ricorda che le bande controllavano, nel 1847, la zona dei Cerrillos de Teno, risiedendo nei boschi di Chimbarongo dove erano detti «pelacaras». Pérez Rosales che li combattè dice nei suoi Requerdos del pasado: «I miei più attivi collaboratori furono i più ricchi proprietari della regione; i residenti si armarono e, capeggiati dai rispettivi padroni, resero possibile perseguire ovunque i banditi».
Fu però in Messico che la guerra civile, l’anarchia e, di conseguenza, il bandolerismo durarono più a lungo. Le descrizioni di Manuel Payno, autore de Los bandidos de Río Frío sono più o meno contemporanee alle inquietanti esperienze della marchesa Calderón de la Barca, mentre per quanto riguarda gli avventurosi anni di Juárez, dal 1861 al 1863, la fonte principale è costituita da El Zarco di Ignacio Manuel Altamirano, compiuto ritratto di un bandito spinto all’azione dal suo temperamento, almeno secondo l’opinione dell’autore. Se il personaggio fosse stato reale ci si sarebbe forse resi conto che ben altre e profonde avrebbero dovuto essere le motivazioni del suo comportamento. Altamirano invece creò un simbolo e finì comunque per rivelare molti retroscena del banditismo; tra i tanti non si possono dimenticare gli elementi che pongono il fenomeno in relazione con la rete di protezioni e di complicità di cui i banditi godevano presso gruppi di maggiore influenza. Un signorotto rurale, indignato da queste insinuazioni, organizzò la spedizione che riuscì a catturare ed uccidere Altamirano.
Erano probabilmente le stesse persone a militare ora nelle bande che si dedicavano alla rapina lungo le strade, ora negli eserciti rivoluzionari di ciascuna delle tante sollevazioni, liberali o conservatrici, che scoppiarono un po’ dappertutto nel corso di questi anni. I conservatori a volte arruolavano un esercito regolare, ma molto più spesso si formavano guerriglie locali combattute da truppe irregolari, le cosiddette montoneras (ammucchiate), il cui comportamento mescolava alcuni caratteri della guerra con altri tipici del banditismo. Il fenomeno era frutto dell’esplosione sociale di parte della plebe rurale. Coloro che percorsero questa strada appartennero infatti quasi tutti al mondo della gente a cavallo, cioè alle pampas del Rio de la Piata e del
Perù, agli altopiani del Venezuela, agli stati messicani di Veracruz, Morelos e Guerrero, alla regione brasiliana del Rio Grande del Sur e alla zona delle valli cilene. Il cavallo costituiva, in queste regioni, un bene necessario, anche se il suo uso ebbe caratteri di lusso e di sport. Gli equini venivano allevati con grande cura. William Henry Hudson che, verso la metà del secolo, rievocava la vecchia pampa argentina ci parla di un tale Gregorio Gándara che aveva nella sua fattoria «La Tapera» ben mille giumente da riproduzione. A ciò aggiungeva: «Dal più povero al più ricco tra i gauchos possessori di terre e di mandrie, tutti avevano, in quel periodo, il vezzo di far sì che i propri cavalli da sella fossero tutti di un unico colore». Chi non poteva permettersi questo lusso poteva però avere un proprio seguito, con cui muoversi nella pianura, dando convegno ad altri presso qualche fattoria per uno scambio di capi o finimenti e mantenendo così la propria condizione di uomo libero. Per ornare il proprio cavallo l’uomo delle pianure spendeva tutti i suoi soldi e non era soddisfatto fino a che non riusciva ad avere i finimenti d’argento. Il cavallo non era la sola garanzia di libertà; un ruolo importante spettava anche al coltello ed alla determinazione che spingeva questi uomini a difendere ad ogni passo la propria indipendenza con un coraggio che sconfinava a volte nell’arroganza e nella provocazione. Provocatorio e arrogante era, per esempio, il lacho guapetón (individuo particolarmente abile nella cattura degli animali sbrancati); Pérez Rosales ne parlava, intorno al 1880, definendolo «figura tipicamente cilena e oggi quasi scomparsa, ma che era, una volta, con il suo mantello e i suoi stivali di cuoio viva incarnazione del cavaliere errante del medioevo, sia per il suo modo di vivere che per i suoi comportamenti e punti di vista. Come il cavaliere medioevale egli andava in cerca di avventura, sfidando altri come lui, raddrizzando torti, facendo soprusi e corteggiando donzelle a volte in modo cerimonioso e altre volte senza fare complimenti, dato che alcuni di costoro erano privi di rispetto e spudorati. Come i cavalieri erranti del medioevo non perdevano occasione per partecipare a tornei dove potesse brillare la gagliardia e l’irresistibile forza della loro lancia, così era più facile che il sole si dimenticasse di sorgere piuttosto che un lacho guapetón rinunciasse a partecipare ai mercati, alle mietiture, alle corse dei cavalli ed a qualsiasi altra occasione nella quale fosse possibile trovare fanciulle da fare innamorare, bevande fermentate con cui ubriacarsi, canzoni da ascoltare, cicaloni da ossequiare, occasioni per manifestare generosità e stile, per saldare e contrarre debiti e per dare e ricevere coltellate sulla base di futili motivi come, per esempio, il rifiuto di riutilizzare il medesimo bicchiere». Caratteristiche analoghe avevano il gaucho argentino e il charro messicano; tuttavia a margine di questi personaggi caratteristici si muoveva una stragrande maggioranza di tranquilli lavoratori dediti alle quotidiane ed abitudinarie occupazioni dell’allevamento e della vita campestre.
L’irruzione della componente rurale sulla scena caratterizzò, per alcuni decenni, le vicende e la fisionomia delle città. Centri di potere e nodi del mondo commerciale e finanziario, esse costituirono l’obiettivo di tutti coloro che cercarono di imporre la propria autorità sull’agitata società dei nuovi stati che si erano formati con l’indipendenza. Le capitali risultarono in modo particolare al centro degli interessi dei gruppi in lotta. Il sistema coloniale ne aveva fatto le sedi tradizionali del potere politico e dell’amministrazione pubblica, ragion per cui, nessun movimento insurrezionale poteva pensare di aver raggiunto il proprio scopo prima di essere riuscito ad occupare la capitale. Era infatti da essa, o, meglio dal «palazzo», che si potevano controllare tutti i fili della vita pubblica, ottenendo un’investitura simbolica che rafforzava notevolmente le possibilità di esercizio dell’autorità.
Le capitali e, in misura minore, tutti i centri urbani continuavano ad essere, secondo le proprie dimensioni, i principali centri della vita economica. Il commercio era un’attività caratteristica delle città ed era più o meno intenso a seconda del raggio di azione di ciascuna ed è per questo che la bancarotta di compagnie ricche e forti, come quelle di Judas Tadeo Landánez, fallita nel 1841 a Bogotá, o quelle del visconte di Mauá, crollate nel 1869 a Montevideo, e nel 1875 a Rio, ebbe tante ripercussioni. Le città si limitavano a volte a soddisfare il proprio mercato interno, mentre in altri casi, erano diventate per diverse ragioni, centri di distribuzione di rilevanza regionale o nazionale, acquistando il controllo del settore più importante e profittevole, cioè del commercio di esportazione e di importazione che, dopo l’indipendenza, si era notevolmente incrementato. Merci inglesi, francesi e tedesche arrivavano nei porti e dopo avere superato varie dogane esterne ed interne, che erano particolarmente numerose lungo alcune strade, riuscivano finalmente a raggiungere i centri urbani. La vendita di certi prodotti continuava ad essere caratterizzata dal regime monopolistico, ma molti altri godevano di libero mercato e, una volta giunti nelle mani di grossisti, venivano distribuiti nei vari mercati chiusi e aperti, stabili e ambulanti, presso i quali potevano recarsi i compratori. Anche i prodotti nazionali dovevano pagare le dogane interne spostandosi dalla campagna verso le città; sia le merci straniere che quelle locali subivano dunque un aumento di prezzo a causa delle difficoltà del trasporto e dei rischi che derivavano dalla perdurante mancanza di sicurezza.
Una domanda in crescita determinò l’aumento del volume delle importazioni. Le classi benestanti aspiravano al possesso ed al consumo di molti prodotti francesi ed inglesi: mobili, tappeti, stoviglie, tele, ricami, ornamenti, capi di vestiario, vini, olii e dolciumi. L’ossessione di mantenersi al passo con la moda europea alimentava un fiorente flusso commerciale, ma la necessità di ottenere strumenti, utensili e macchine divenne sempre più forte. Le macchine a vapore, originariamente utilizzate nelle raffinerie zuccheriere, vennero successivamente impiegate anche in altri settori; la Compagnia Inglese le impiegò in Messico nelle miniere di Real del Monte, dando origine a forti investimenti. Tuttavia ciò che fece crescere l’ammontare del debito estero in modo consistente fu l’acquisto di battelli a vapore e, soprattutto la costruzione delle reti ferroviarie che ebbe inizio nel 1851 con l’apertura della prima linea ferrata latinoamericana in Perù; questo comportò una consistente importazione di locomotori, vagoni e binari; un’ulteriore impennata del debito fu determinata dalla generale estensione, dopo il 1850, dell’illuminazione a gas. Tutte queste necessità, create dalla penetrazione del modello di vita industriale, resero più forte la domanda di capitale. Fin dal primo periodo dei governi indipendenti incominciarono ad essere ottenuti e gestiti prestiti di notevole entità. Le esigenze della modernizzazione intensificarono successivamente il bisogno di capitali, mentre la maggiore stabilità che il sistema raggiunse, dopo la metà del secolo, incentivò le grandi potenze straniere a dare credito all’America latina.
Gli strumenti tipici di questa azione finanziaria furono le banche. I primi governi indipendenti avevano creato istituti nazionali del credito che però, duramente penalizzati dall’instabilità politica e dai disastri economici provocati dalle guerre civili finirono ben presto per dichiarare fallimento. A partire da metà secolo si costituì così un sistema finanziario privato amministrato da capitalisti che riuscirono a raccogliere fondi sufficienti per intraprendere i propri investimenti; nacquero così la banca Edwards di Valparaíso, la banca Ossa a Santiago del Cile e la banca Mauá a Rio de Janeiro, con filiali nelle capitali del Rio de ,la Piata. Ciononostante l’organizzazione bancaria si sviluppò in modo vigoroso soltanto dopo che vennero aperte le filiali delle grandi banche straniere. Nel 1862 venne fondata a Rio de Janeiro la Banca di Londra e del Brasile; nel 1863 la Banca di Londra e Rio de la Piata a Buenos Aires; nel 1864 la Banca di Londra e del Sudamerica in Messico. Altri istituti di credito fecero rapidamente la loro comparsa in queste ed in altre città, in corrispondenza con gli interessi dei diversi paesi investitori.
A Messico il ministro Lucas Alamán fondò il Banco del Avío. Una commissione, formatasi nel 1831, aveva consigliato alcune misure atte a promuovere lo sviluppo industriale e la banca di Alamán avrebbe dovuto servire a questo scopo. Ministro conservatore di vari governi e industriali egli stesso, Alamán fu direttore della Compagnia Unita delle Miniere, nonché fondatore di vari stabilimenti per la fabbricazione di filati e tessuti di cotone. A Città del Messico vi furono anche altri istituti di credito e la capitale non fu l’unica città nella quale le nuove attività raggiunsero una certa importanza. La marchesa Calderón de la Barca scriveva nel 1841: «Anticamente Puebla faceva concorrenza a Città del Messico, sia dal punto di vista demografico che da quello industriale. La pestilenza, che spazzò via cinquantamila persone fu seguita dalla ancor più grave epidemia della guerra civile e Puebla decadde così al ruolo di una città del tutto secondaria. Ora però si parla molto delle sue fabbriche di filati e di tessuti, nonché delle macchine, degli strumenti e degli artigiani venuti dall’Europa per dare vita ad un settore che offre attualmente lavoro a trentamila persone». La marchesa raccontava di seguito gli ostacoli affrontati da uno dei più intraprendenti industriali del settore, don Esteban Antuñano, per mandare avanti la sua fabbrica, significativamente denominata «La costanza messicana». Ci fu infatti bisogno di molta perseveranza per superare le ristrettezze finanziarie ed i contrasti a cui fu necessario far fronte per la formazione del personale e per importare dagli Stati Uniti i macchinari necessari. Alla fine, la fabbrica potè incominciare a produrre nel 1835: «La sua posizione era magnifica e vista da lontano sembra più una residenza estiva che uno stabilimento industriale. E un piacere vedere l’ordine e la felice esposizione e ventilazione di cui gode l’edificio, con una grande fonte di acqua purissima che scorga in mezzo al cortile. Uno scozzese che ha lavorato qui per qualche tempo» – dunque un conterraneo della marchesa – «dice di non aver visto nulla di paragonabile, pur avendo lavorato per sei anni negli Stati Uniti». Puebla aveva una tradizione nobiliare, ma la nuova borghesia rivelò un grande spirito di iniziativa: non solo vi furono fabbriche di filati e tessuti ma anche di ceramica smaltata e, a partire dal 1860, persino un impianto per la fabbricazione della birra.
Nelle città la disputa tra protezionisti e libero-scambisti avrebbe, di lì a poco esacerbato gli animi. I primi volevano favorire le industrie e l’artigianato locali, ritenendosi minacciati dall’ondata delle importazioni straniere che, secondo loro, costituiva la base delle loro difficoltà. Tuttavia Vicente Pérez Rosales, che nel 1830 fondò una distilleria e dovette affrontare gravi difficoltà, osservava, alcuni anni dopo, che l’esito di molte iniziative era stato negativo soltanto a causa dell’improvvisazione e della fretta, dopo di che passava in rivista i tentativi di industrializzazione fino ad allora intrapresi: «L’industria della terracotta naufragò in Cile perché commettemmo l’errore di cominciare con la produzione di porcellane fini, quando ancora non ci eravamo tirati fuori dalla brocca e dal piatto di Talagante. La vetreria fece fallimanto perché, invece di cominciare dalla produzione di bottiglie in vetro comune, si è avuto la pretesa di cominciare dalle lastre e dalle cristallerie di pregio. L’industria dello zucchero di barbabietola andò in malora perché il fabbricante dovette essere anche agricoltore e il prodotto, per il solo fatto di essere cileno, si riteneva che dovesse essere anche raffinato. L’industria laniera langue perché, invece di cominciare dai mantelli, dai ponchos e dagli abiti da lavoro, ci venne l’estro di cominciare dalle lane fini. La mia stessa fabbrica di acquaviti andò in rovina perché invece di accontentarmi mi spennai per migliorare l’alambicco di condensazione; invece di usare i tradizionali boccioni volli cimentarmi con l’elegantissimo alambicco francese e invece di fare il miglior distillato che mi riuscisse volli per forza fare il cognac, il pernod e l’elisir. Da tutto questo si può desumere un triste assioma: ogni industria specializzata che si cerchi di avviare in un paese che manca delle industrie di base porta con sé un sicuro presagio di rovina per l’imprenditore». Certamente, per una ragione o per l’altra le iniziative di questo nuovo settore attraversarono continui alti e bassi. Un imprenditore di grande volontà e fantasia come il barone di Mauá potè avviare numerosi progetti, ma dovette chiudere la sua carriera con un’umiliante bancarotta. Tuttavia qualcosa di queste prime esperienze restò. Poco a poco incominciava a svilupparsi un primo nucleo di città industriale. Benché i movimenti operai incominciassero a penetrare in alcune città, la nuova classe sociale non riuscì in questo periodo ad imporsi come una forza importante.
Perlopiù dominava l’idea generale che la cosa importante per l’artigiano e per l’operaio fosse riuscire ad ottenere individualmente il diritto ad una scalata sociale. María Nieves y Bustamante, scrittrice di Arequipa, descrive nel suo romanzo Jorge, el hijo del pueblo la vita di un artigiano e la sua frustrazione di fronte all’abisso che separava la «triste sfera» della sua classe dal mondo delle classi alte di cui aspirava ad essere parte. Ogni sforzo sembrava poter essere giustificato da questa aspirazione. Certamente non si trattava di un comportamento generalizzato, dato che nella sua Historia de Chucho el Ninfo José T. de Cuéllar si compiaceva di descrivere un archetipo opposto dell’artigiano messicano, descrivendolo ubriacone e scansafatiche. Coloro che si davano tenacemente da fare per migliorare la propria situazione erano soliti farlo all’interno della propria città ed utilizzando le possibilità preesistenti; vi furono però altri che preferirono accordarsi a qualcuna delle nuove iniziative che le trasformazioni economiche avevano avviato, mentre altri ancora presero la via dell’emigrazione, affascinati dalle luminose prospettive offerte, per esempio, dal settore minerario. In questi luoghi di avventura i nativi venivano a contatto con gli stranieri e pareva che fossero spinti da una specie di appuntamento con il destino. Coloro che di lì a poco sarebbero precipitati nella miseria camminavano fianco a fianco con quelli che invece sarebbero diventati ricchi, come voleva la sorte. Pérez Rosales descriveva in questo modo il clima teso che, nel 1846, caratterizzava Copiapó: «Copiapó aveva in comune con il resto del Cile soltanto la costituzione politica, che per altro non sempre era osservata, e le leggi, che non di rado venivano infrante; a Copiapó non è possibile trovare il bandolo di nessuna matassa, dato che il bandolo Copiapó sta alla matassa Cile come un uovo sta ad una castagna. Era molto difficile se non impossibile che in una riunione casuale di venticinque persone si trovassero più di quattro cileni; parlo naturalmente degli uomini, perché, quanto alle donne succedeva il contrario [… ] Copiapó era dunque un villaggio cosmopolita, anche se la maggior parte degli abitanti provenivano da Rioja, e ciò era possibile perché in quella città arrivavano di continuo Inglesi, Francesi, Cileni, Tedeschi ed Italiani senza contare tutti coloro che arrivavano dalle repubbliche sorelle […] cioè dal resto dell’America latina. Lì non si parlava, né si poteva e doveva parlare d’altro che di miniere e, allo stesso modo che Valparaíso era ormai un’enorme casa commerciale, così Copiapó era un’immensa bocca di miniera». Era possibile incontrarvi gente della più varia estrazione, uguale agli altri solo nello spirito d’avventura; i più poveri erano coloro che potevano contare soltanto sulle loro braccia, ma che speravano, nonostante tutto, di costruirsi con esse un luminoso futuro.
C’era però un ampio settore popolare che si dibatteva in una dipendenza abitudinaria, vuoi per mancanza di iniziativa vuoi, più spesso, per lo scoramento causato dalla miseria. I poveri perdigiorno non solo attirarono l’attenzione di tutti i viaggiatori che percorsero l’America latina in questo periodo, ma anche quella dei cittadini per i quali costituivano uno spettacolo quotidiano; nelle relazioni di viaggio, negli articoli di costume, nelle incisioni, negli acquerelli e nei disegni è sempre presente questo gruppo che costituiva la parte più popolosa delle città. Il fenomeno risultava più evidente ai viaggiatori stranieri nelle città in cui nei settori popolari predominava la popolazione di colore: a Veracruz, a Cartagena e, in particolare, nelle città del Brasile. Pérez Rosales, parlando di Rio, nel 1825, la definiva «città negra», anche se già in altre zone aveva avuto modo di sorprendersi per il gran numero di meticci e di indigeni. Pancho Fierro, pittore attento e raffinato, lasciò una visibile testimonianza di questo strato della società creola di Lima che, come accadeva in tutte le altre città, diventava palesemente visibile nei giorni di festa e nella piazza del mercato. I viaggiatori inglesi, Parish, Robertson, ed Hutchinson, si sorpresero nel vedere, a Buenos Aires, mendicanti a cavallo, tutto sommato meno vili dei questuanti messicani, «patetici cumuli di stracci che si avvicinano ai finestrini delle carrozze e questuano con voce lamentosissima, facendo finta di piangere o che, gettati sotto gli archi dell’acquedotto, soddisfano la loro pigrizia prendendo il fresco oppure stendendosi al sole». Inoltre non tutti erano mendicanti, alcuni, sicuri di non poter uscire dalla povertà, rifiutavano il lavoro per mancanza di stimoli. Pal Rosti, il viaggiatore ungherese che, nel 1857, attraversò il Venezuela, domandò ad «un ragazzo del colore del caffè» che vide appoggiato ad una parete vicino al mercato di Caracas perché non andasse a lavorare. La risposta fu: «Perché dovrei? Il cibo necessario per vivere si può trovarlo su qualsiasi albero; non devo far altro che allungare una mano e prenderlo; se mi manca un riparo per la notte o un coltello o un po’ di acquavite mi è sufficiente portare al mercato un po’ di banane e qualche altro frutto per ottenere ampiamente tutto ciò che desidero; perché dovrei fare di più? Non me la passerei meglio neanche se fossi ricco come il signor Tizio o il signor Caio. Tutti in Venezuela la pensano e la vedono come me».
Il popolo, nonostante questo, svolgeva cento mansioni e cento mestieri; nessuno di questi consentiva però di uscire da una miseria che a lungo andare uccideva ogni stimolo. Questa situazione era una conseguenza della struttura stessa della società. Su questo tema sono stati scritti tre libri particolarmente significativi: Ensayo sobre el verdadero estado de la cuestión social y política que se agita en la República Mexicana, scritto da Mariano Otero e pubblicato nel 1842 in Messico, La miseria en Bogotá, scritto da Miguel Samper, pubblicato nel 1867 e Sociología de Lima, scritto da Joaquín Capelo e pubblicato nel 1900. Nonostante la momentanea apertura successiva alla rivoluzione, la possibilità di migliorare la propria condizione sociale, sia pure per portarla al livello della sussistenza, era per molti praticamente inesistente; era poi quasi impensabile muovere qualche passo verso una reale ascesa sociale ed economica, nonostante i benefici indiretti connessi con la rivoluzione industriale.
Meno profondo era invece l’abisso che divideva le classi medie dalle classi alte. Tra quasti due strati c’era una forte tensione determinata proprio dal fatto che continuava a sussistere un certo grado di mobilità, nonostante gli sforzi che i settori più elevati facevano per apparire irraggiungibili. Chi, pur appartenendo alle classi medie, si impegnasse per cercare di simulare le forme di vita e i costumi dei gruppi più in vista veniva definito pacchiano o parvenu. Tuttavia la perseveranza e la riuscita finivano per infrangere tutte le barriere a partire dal momento in cui qualcuno riusciva ad ammonticchiare una rispettabile fortuna. In alcuni casi l’ascesa fu determinata dal caso: una vena mineraria, un settore merceologico particolarmente favorito dalla dinamica delle importazioni e delle esportazioni, una fortunata congiuntura agricola che trasformava in cittadino il titolare della fattoria, e, insomma, qualsiasi affare fortunato poteva mettere il nuovo ricco in condizioni di affrontare lo scontro sociale necessario per entrare a far parte dei circoli più esclusivi. Questa speranza spingeva il commerciante e l’impiegato a tener duro dato che se anche non riuscivano a conseguire il massimo risultato, potevano comunque cercare di fare un po’ di carriera all’interno della complessa scala gerarchica che regolava la stessa classe media.
Alcuni testi documentano la presenza di questa classe sociale, ancora non del tutto formata, all’interno del tessuto sociale di alcune città; in ciò l’osservatore attento poteva intravvedere la nuova forza in grado di dissolvere gli ultimi relitti della concezione nobiliare del mondo, nonostante il nuovo patriziato avesse creduto di poter restaurare un sistema di vita aristocratico, evocando con nostalgia l’epoca passata dei suoi massimi fasti e splendori. Il verismo regionale (costumbrismo) non si lasciò sfuggire le possibilità offerte da questo tema; se ne occuparono tra gli altri: il cileno Jotabeche, l’argentino Alberdi ed il colombiano Vergara y Vergara. Romanzieri incominciarono per parte loro a sfruttare questo filone: il messicano Juan Díaz Covarrubias lo seguì meticolosamente nel suo libro La clase media, mentre il peruviano Luis Benjamín Cisneros usò questo scenario per ambientarvi il suo Julia. In tutte le sue descrizioni è possibile vedere la vita di alcuni centri urbani nei quali la società si muoveva lentamente, sforzandosi di infrangere la propria struttura tradizionale. Fu tuttavia il cileno Alberto Blest Gana a fornire il panorama più completo e più significativo. Dalle classi medie trasse personaggi particolarmente rappresentativi della nuova situazione che si veniva pian piano determinando e che sarebbe successivamente giunta a maturazione; in Martín Rivas egli abbinò magistralmente i ritratti delle due società parallele che si muovevano all’interno dell’ambiente sociale di Santiago. Esperto osservatore, egli sottolineò il ruolo decisivo svolto dal denaro all’interno di una struttura sociale fluida, in cui gli strati superiori non disponevano degli strumenti necessari per chiudere i canali di accesso ai propri ranghi.
Nonostante i successi ottenuti in alcune città, le classi medie non erano ancora riuscite a fine secolo a colmare il fosso che le separava dai gruppi dell’antica società nobiliare. Il processo di infiltrazione continuava anche se la resistenza della struttura sociale era molto forte. La marchesa Calderón de la Barca vide per la prima volta una società creola arrivando, nel 1839, a L’Avana e, in quell’occasione, disse: «Il rapido passaggio dalle colonie inglesi a questa terra spagnola, piena di negri e di militari, avviene come in un sogno». Queste sensazioni oniriche dovevano ripetersi assai spesso in Messico, dove la nobildonna scozzese annotò in ripetute occasioni il forte contrasto che le capitava di percepire tra il mondo delle classi alte e quello dei settori popolari: «Non c’è quasi anello intermedio tra il raso ed il panno peloso»; queste parole chiudono un curioso passo nel quale la viaggiatrice descrive la variopinta società che nella capitale messicana era solita frequentare il Paseo de la Viga.
Le classi alte dovettero patire violenti sussulti a causa dell’indipendenza e vi furono molti che dovettero rinunciare al proprio prestigio mentre altri lo acquisivano. Tuttavia, nell’insieme, questi alti e bassi non ebbero una particolare incidenza sui costumi, poiché ogni volta che le condizioni oggettive lo resero possibile costoro tornarono ad essere arroganti ed esibizionisti come lo erano stati i gruppi nobiliari della colonia, approfittando della situazione nei limiti che a ciascuno erano consentiti dalle proprie fortune. Questo fu almeno ciò che tutti cercarono di fare, vestendo secondo i dettami della moda europea ed importando dall’Europa tutto ciò che parve necessario per sostenere il proprio prestigio. Le disponibilità economiche costituivano dunque i soli limiti di questo processo. Alcuni avevano ereditato terre e miniere e continuavano dunque la tradizione dei propri antenati dell’età coloniale. Era possibile vederli nelle capitali, ma era ancor più facile identificarli negli antichi centri dall’atmosfera aristocratica: Popayán, Trujillo del Perú, Guadalajara, Puebla, Olinda e Bahía. Altri godevano di fortune più recenti, nate in molti casi all’ombra del potere politico per mezzo di cariche pubbliche e di soprusi, oppure con l’esercizio del commercio, i cui profitti consentirono ad alcuni di emulare i fasti tradizionalmente legati alla proprietà fondiaria. L’alto clero ed i vertici delle gerarchie militari facevano parte delle classi alte per diritto acquisito, indipendentemente dal fatto che molti appartenevano ad esse per nascita, poiché le classi alte erano naturalmente portate a cooptarli, data l’estrema incertezza dei tempi e tenuto conto del fatto che essi rappresentavano una reale forma di potere. All’insieme delle classi alte locali vennero ad aggiungersi commercianti stranieri che erano molto ricchi e che, di conseguenza, erano parte integrante dell’aristocrazia per il solo fatto di essere inglesi o francesi, di avere molto denaro e, soprattutto, di occupare posti chiave, da cui potevano aiutare gli altri ad arricchirsi. Costoro furono arbitri del gusto e della moda e tutto quel che facevano finiva per diventare un modello di comportamento per quelli che sognavano gli irraggiungibili paradisi di Londra e di Parigi. Chi poteva mai superare in eleganza una stilista francese? Chi poteva essere più ricco di un importatore inglese? Entrambe le figure avevano un posto di riguardo nei circoli aristocratici dove non si parlava, in genere, che di moda e di affari. Uomini come Dreyfus e Meiggs trovarono spalancate le porte dei più esclusivi e prestigiosi salotti di Lima e di Santiago del Cile ed a nessuno passò mai per la mente di svolgere indagini sulle origini sociali di queste persone.
La sovrapposizione di tradizione coloniale, stile patrizio e sviluppo mercantile cominciò a dare alle città una fisionomia nuova. Una delle caratteristiche principali fu rappresentata dal fatto che, una volta assorbita l’ondata rurale, i notabili tornarono a manifestare il loro disprezzo, talvolta estremo, per la vita dei campi. Dopo l’allarme iniziale, le nuove società urbane, che pure avevano incorporato sostanziosi contingenti di origine rurale, tornarono dunque ad affermare la propria superiorità e cercarono di riportare il mondo contadino alla sua precedente condizione di subalternità. Il contadino dell’epoca dell’Indipendenza e delle guerre civili, abituatosi troppo e troppo in fretta alla libertà, venne considerato un potenziale destabilizzatore e parve dunque necessario tornare a sottometterlo all’autorità dello stato, o, meglio, a quella dei proprietari terrieri che, più e meglio di chiunque altro, avrebbero potuto reinserirlo nel sistema produttivo.
Nel corso di questo periodo divenne percepibile un certo grado di contrapposizione tra città e campagna; ciò era probabilmente dovuto al fatto che il mondo rurale aveva subito una notevole crescita e, per un certo periodo, potè credere di sfidare apertamente quello urbano. Questo scontro si risolse però molto presto a favore delle città, e tutto ciò che rimase di queste aspirazioni fu un certo grado di risentimento reciproco, o, semplicemente, la netta sensazione che a ciascuno dei due mondi corrispondeva un modo di vivere completamente diverso.
Gli eserciti rurali entrarono spesso nelle città e le genti urbane li guardarono con diffidenza e con terrore, come se questi non obbedissero che ai propri istinti elementari. Le città avevano il timore di diventare appetibili prede di guerra per gruppi che, secondo un’opinione diffusa nelle zone urbane, provavano un forte risentimento nei confronti di ogni forma di civiltà e di ricchezza: Buenos Aires tremò di fronte all’avanzata dei caudillos López e Ramírez e Lima si spaventò quando il capobanda di colore León Escobar entrò in città alla testa dei suoi e potè occupare per un giorno la poltrona presidenziale. Di certo, se la gente di campagna non provava un vero e proprio odio per i cittadini, aveva quanto meno un forte risentimento nei loro confronti, come è possibile desumere dai vocaboli dispregiativi che venivano usati per designare i signori delle città: cachacos, catrines, currutacos. Persino chi, provenendo dalla campagna, aveva ottenuto i propri gradi in battaglia, aveva una certa ostilità nei confronti dei «dottori» coi quali era costretto a negoziare la pace ed a spartire i benefici della guerra. Nei sobborghi, dove la convivenza imponeva un’omologazione dei comportamenti, il cittadino e il campagnolo entravano in contatto l’uno con l’altro e colui che veniva da fuori era solito diffidare degli osti imbroglioni che cercavano di approfittare della sua inesperienza rispetto ai complicati meccanismi dello scambio commerciale.
Sia il Facundo di Sarmiento, sia il Martín Fierro di José Hernández, due opere argentine particolarmente rappresentative di questo periodo, rivelarono la portata di questo scontro tra la campagna e la città. Quest’ultima voleva infatti recuperare il ruolo che aveva avuto durante il periodo coloniale, facendo leva sulla convinzione di rappresentare la civiltà. A ben guardare la città era diventata più forte proprio grazie all’incorporazione di alcuni gruppi di proprietari terrieri ed è forse per questo che le plebi rurali si sentirono ancor più abbandonate, dato che contro di loro si coalizzavano tutte le forze disponibili, con l’evidente intento di riportarle all’antica condizione di dipendenza; dopo la metà del secolo, il «gaucho malo», il ribelle, giocò in completa solitudine la sua ultima carta e perse la sua partita contro la civiltà urbana. Martín Fierro non fu altro che l’espressione di un lamento disperato.
Lo scontro divenne palese nella contrapposizione tra le differenti forme di vita. Bartolomé Hidalgo, cantastorie delle province orientali all’epoca dell’indipendenza, aveva cantato l’ingenua ammirazione che un gaucho di Guardia del Monte aveva provato assistendo alle feste con cui Buenos Aires celebrava l’anniversario della Rivoluzione di Maggio. Alcuni decenni più tardi il cileno Jotabeche avrebbe dedicato un intero romanzo a El provinciano en Santiago, mentre il venezuelano Daniel Mendoza avrebbe descritto El llanero en la capital, creando, con il suo Palmarote, un personaggio tipico ed un paradigma delle reazioni che il campagnolo provava trovandosi di fronte ad un mondo che sentiva estraneo. Questo stesso tema fu sviluppato, negli anni succesivi, dall’argentino Estanislao del Campo che nel suo Fausto raccontò una storia in cui il gaucho Anastasio el Pollo offre non solo una sua ingenua versione della trama di Goethe, ma anche alcune sue impressioni sulla vita di Buenos Aires.
Città e campagna, mondo rurale e mondo urbano, sono espressione dei due poli che si evidenziarono con l’esplodere della società creola entro gli schemi, ancora esistenti, del mondo coloniale. La città avrebbe finito per trionfare, ma lo avrebbe fatto a prezzo di profondi cambiamenti nella propria fisionomia sociale, dato che fu costretta a far convergere le forze dell’antica borghesia e quelle dei nuovi patriziati.
Borghesie e patriziati
Pochi decenni dopo la rivoluzione, la trasformazione avvenuta nelle classi dirigenti era palese. La marchesa Calderón de la Barca, parlando di una grande dama messicana, scriveva, nel 1840: «Costei e i suoi contemporanei, ultimi del periodo vicereale, stanno sparendo molto in fretta. Al loro posto si è ormai sviluppata una nuova generazione che sia nei modi che nell’aspetto ha ben poco a che vedere con la vecchia corte; questa nuova generazione è formata, a quanto si dice, in gran parte dalle mogli dei militari che sono diventati importanti nel periodo delle lotte rivoluzionarie; ignoranti e pieni di pretese come ogni parvenu, hanno tutte le caratteristiche di chi è arrivato ai vertici della società per opera di un’improvviso colpo di fortuna e non in virtù dei propri meriti, come parrebbe opportuno». La nuova generazione che scalzò le tradizionali aristocrazie, non ebbe, ovviamente, una composizione tanto semplice ed omogenea. In molte zone ne fecero parte anche alcuni membri delle vecchie aristocrazie che si erano trasformati in fautori, più o meno convinti, del sistema repubblicano. Nonostante questo la marchesa scozzese non andava troppo lontano dal vero. I nuovi quadri militari costituivano davvero la parte predominante della nuova élite, anche se non mancavano in essa borghesi e latifondisti vecchi e nuovi. I gruppi rurali e quelli urbani, dapprima disuniti e contrapposti, finirono infatti per trovare, nel corso di pochi decenni un’intesa basata su una formula politica nuova ed originale. Lo scossone generale che la società aveva subito dopo l’indipendenza aveva prodotto i cambiamenti più profondi proprio nella struttura delle classi dirigenti.
Indubitabilmente le borghesie creole avevano conservato buona parte del loro potere. Ripetutamente contestate, a causa del loro desiderio di mantenere le posizioni occupate prima e subito dopo l’indipendenza, esse dovettero ripiegare, scendere a patti con i nuovi gruppi di potere che avevano fatto e facevano la loro comparsa sulla scena e talora persino offrire la propria opera di rappresentanti e procuratori, quando non furono addirittura costrette a limitarsi ad un’interessata forma di appoggio. Tuttavia, come gruppo, cioè prescindendo dalle vicende personali di alcuni membri, il ceto borghese creolo continuò a mantenere una notevole influenza economica, occupando gran parte delle cariche amministrative e in genere anche di quelle politiche.
Vicente Rocafuerte in Equador e Diego Portales in Cile occuparono posizioni politiche decisive in rappresentanza, il primo, della borghesia portuale di Guayaquil e, il secondo, di quella di Valparaíso. Il dottor Borrero abbandonò il commercio delle telerie per ricoprire l’incarico di ministro degli esteri della Colombia e soltanto dopo la conclusione del proprio mandato, ritornò alla sua attività privata. Nicolas de Piérola in Perù, Fiorentino González e Manuel Murillo Toro in Colombia poterono, in quanto titolari di dicasteri economici, dare spessore istituzionale ai progetti ed agli interessi delle borghesie dei rispettivi paesi. Nonostante che alcuni dei propri membri ricoprissero cariche ufficiali, le borghesie continuarono però ad esercitare il proprio potere dagli sportelli delle banche, dagli uffici commerciali, dalle scrivanie dei loro studi e dalle loro sedi professionali. Questo potere era a volte molto forte, come per esempio, nel caso del visconte di Mauá che controllava, in Brasile, l’intera economia del paese. Ciononostante è indubbio che le borghesie creole avevano perduto una parte della loro forza e che la recuperarono soltanto in virtù del crescente dinamismo e della sempre maggiore influenza di un nuovo settore che, inserendosi nella vita urbana, ne modificò la fisionomia: quello dei grandi commercianti stranieri.
Il loro numero era notevole in molte città e la loro influenza effettiva era anche più grande. Un residente inglese ebbe a scrivere, intorno al 1825, a proposito di Buenos Aires: «I commercianti britannici sono tenuti in grande considerazione: il commercio di questo paese è concentrato in gran parte nelle loro mani». Subito dopo nominava ben quaranta sedi commerciali britanniche presenti a Buenos Aires ed aggiungeva: «La maggior parte di queste ditte ha succursali a Rio de Janeiro, a Montevideo, in Cile ed in Perù, e tutte insieme queste imprese danno vita ad una rete commerciale di importanza non trascurabile per gli interessi britannici». Gli inglesi di Messico si riunirono, nel 1840, per celebrare il matrimonio della regina Vittoria con il ballo che si tenne a loro spese nel palazzo dove avevano sede gli affari delle miniere; in quell’occasione fu palese che costoro erano tanti e tanto importanti che la festa finì per raccogliere la crema della città e dello stato, dato che c’era tra gli invitati il Presidente della Repubblica. In ogni città era presente un consistente gruppo inglese, che controllava in genere tutte le principali attività, compreso persino il commercio al dettaglio.
Oltre agli inglesi erano presenti anche commercianti stranieri di altre nazionalità. I francesi, che pure erano presenti anche Sull’Atlantico, erano però più numerosi nelle città della costa Pacifica. Flora Tristán ci parla della comunità francese di Arequipa: «Arequipa città dell’interno, non offre al commercio che risorse limitate. Anche il numero degli stranieri è scarso. L’unica compagnia commerciale francese è quella di monsieur Le Bris. Costui si stabilì in Perù circa dieci anni fà e i suoi affari hanno prosperato fino a raggiungere i vertici dell’economia. Prima che il Perù venisse rovinato dalla concorrenza e dalle guerre civili, monsieur Le Bris aveva guadagnato molti milioni e si era fatto una grandissima fortuna. In seguito però le sue agenzie di Valparaíso e di Lima andarono incontro ad enormi perdite, a causa del comportamento troppo corretto che tennero nella conduzione degli affari. Fu dunque necessario che la casa madre di Arequipa venisse in soccorso delle proprie filiali. Monsieur Le Bris è un abile uomo d’affari e si trasferì temporaneamente per andare a dirigere ciascuna delle due agenzie, in modo che, in pochi mesi, tutto venne rimesso a posto. Ad Arequipa i francesi non sono più di una decina. Oltre a quelli che ho già nominato vi sono infatti monsieur Poncignon de Burdeos, che è proprietario del più bel negozio di moda della città ed i fratelli M. M. Cerf, ebrei di Brest e titolari di un emporio nel quale è possibile trovare ogni sorta di merci. Molti altri francesi che pure sono domiciliati ad Arequipa, non vi risiedono abitualmente. La loro attività nel settore dei trasporti di cui si occupano, li costringe infatti ad essere sempre in viaggio in ogni parte del Perù ».
I nordamericani ed i tedeschi concentrarono la propria presenza nelle città dei Caraibi, mentre nel Rio de la Piata si trasferirono individui di tutte le nazionalità, tra cui vanno segnalati gli italiani e i portoghesi. Molti di costoro avevano umili origini e generalmente avevano, in una certa misura, le caratteristiche degli avventurieri. Uno scrittore peruviano, parlando di Dreyfus, che nell’epoca del presidente Balta aveva ottenuto in Perù il monopolio del guano, ebbe a dire: «Al pari di molti altri che indubbiamente non riescono a soddisfare nel proprio paese d’origine le grandi ambizioni di ricchezza che li divorano, ragion per cui decidono di espatriare per cercare all’estero il modo di far fortuna in modo facile e rapido, monsieur Dreyfus venne a crearsi in Perù quella ricchezza che in Europa non avrebbe potuto trovare». A fianco di questi imprenditori avventurieri fecero la loro comparsa anche persone di diverso stile come coloro che si dedicarono alla costruzione delle reti ferroviarie: Meiggs in Perù e in Cile, Wheelright in Cile e in Argentina, Buschental che a Paranà, capitale della Confederazione Argentina, faceva parte dell’entourage di Urquiza e che si occupava di ogni genere di affari. Ovviamente erano le capitali ad attrarre gli stranieri più ambiziosi e in special modo quelli che cercavano di godere dei favori del potere. Ciononostante anche nelle piccole città, come Arequipa o Veracruz, le comunità commerciali straniere costituivano «l’anima della popolazione» per usare le parole che proprio parlando di. Arequipa aveva scritto il viaggiatore francese Eugène de Sartiges.
Questo stesso autore segnalava però anche l’esistenza di alcuni contrasti: «In molti casi sono state presentate alle Camere del Perù petizioni che chiedevano l’espulsione dal paese dei commercianti stranieri, onde impedire alle risorse monetarie di uscire dal paese; ogni volta che aumenta la tensione politica viene immancabilmente ripresentata questa richiesta». In termini analoghi si esprime un viaggiatore che, firmando il proprio scritto con lo pseudonimo «un inglese», ci parla di Buenos Aires: «A volte i creoli manifestano una certa invidia nei confronti degli inglesi. Credono che la comunità britannica detenga il monopolio degli affari e faccia uscire la moneta dal paese. Questi inesperti e malfidati principianti dell’economia politica non riescono a capacitarsi del fatto che in ogni forma di commercio gli obblighi ed i benefici sono reciproci e che noi siamo costretti a fare continui acquisti di materia prima a prezzi disastrosi». In ogni caso il prestigio e l’ascendente dei commercianti stranieri rafforzava in modo significativo il settore commerciale nel suo complesso e creava tra i vari gruppi una serie di vincoli che furono talvolta sereni, profittevoli e dinamici. All’inizio della sua autobiografia, intitolata Exposição do Visconde de Mauá aos credores de Mauá and C., stampata a Rio de Janeiro nel 1878, il geniale impreditore brasiliano scriveva: «Nella primavera della vita io avevo già accumulato, grazie ad un lavoro onesto ed infaticabile, una fortuna che mi assicurava la più completa indipendenza. Uno dei migliori modelli umani possibili, un commerciante inglese di nome Richard Carruthers, famoso per la completa e proverbiale onestà tipica della vecchia scuola della morale positiva, dopo che io avevo fornito sufficienti prove delle mie qualità lavorando alle sue dipendenze, mi accettò come socio e mi diede in gestione la sua compagnia commerciale quando io ero ancora giovanissmo e, in questo modo, mi avviò così per tempo alla carriera commerciale che mi trovai nelle migliori condizioni per poter dare libero sviluppo alle qualità che, per mia fortuna, albergavano nel mio spirito ». Quest’intesa non costituì un caso unico; vincoli analoghi vennero creandosi con l’andare del tempo sulla base di una sostanziale coincidenza di interessi tra i settori creoli e quelli stranieri della società borghese.
Nascoste nei meandri dell’amministrazione e naturalmente inclini alle sottili mediazioni dell’economia e della politica, le borghesie urbane, rinnovate dai rivolgimenti sociali ed economici che emersero dai sobbalzi e dai disordini della guerra civile, finirono per imporre la propria egemonia. Coloro che avevano occupato il potere con le armi dovettero infatti rivolgersi ai borghesi delle città per ottenere da loro consiglio e consenso e per piegare in modo efficace il potere che si erano conquistati alla realizzazione dei propri progetti ed alla promozione dei propri interessi. In questo gioco le borghesie finirono per integrarsi ai nuovi gruppi dominanti e per costituire il nuovo patriziato.
L’integrazione si realizzò anche con un’altra procedura; pragmatici e partecipi del quotidiano, i ricchi banchieri ed i potenti uomini d’affari ispirarono e finanziarono vari movimenti rivoluzionari, nel tentativo di imporre con la forza i propri punti di vista o, perlomeno, di modificarli quel tanto che era necessario per renderli compatibili con le opinioni di chi controllava il potere, ogni volta che non era possibile agire diversamente. Certamente alcuni prosperarono e altri si trovarono in difficoltà, ma i ceti borghesi nel loro complesso non si tirarono mai indietro e non abbandonarono mai il campo di battaglia.
Il pragmatismo influenzò anche la visione del mondo dei proprietari terrieri più ricchi ed influenti che, trovandosi ad essere coinvolti nella lotta, scoprirono, in molti casi, il gusto del potere. Anche i latifondisti dovevano infatti cercare di sopravvivere in qualche modo nel vuoto d’autorità provocato dalle guerre civili. Il liberale Altamirano fa dire al presidente Benito Juárez queste parole, mettendole in bocca ad uno dei suoi personaggi: «Che vossignoria, signor Presidente, non si fidi di questi proprietari, poiché essi ottengono parte dei bottini e in questo modo si arricchiscono. Da queste parti c’è un signore che pur essendo ricco, rispettabile e stipendiato dalla giustizia, compare ogni mese anche sulla lista paga dei banditi della regione. Costui concede ai proprietari terrieri licenze, grazie alle quali i carichi di zucchero e di distillato possono traversare il paese senza problemi, naturalmente non senza avere pagato una forte somma». Latifondisti, banditi e ribelli formano dunque un sistema sociale piuttosto fluido nel corso di molti decenni, durante i quali i proprietari terrieri mobilitarono spesso veri e propri eserciti privati, i cui membri erano soliti staccarsi, talvolta in modo saltuario, talaltra in modo sistematico, da questo nucleo, per formare, insieme ad altri come loro, bande autonome con le quali lavorare per proprio tornaconto nei periodi in cui era possibile compiere operazioni di saccheggio.
Vi furono certamente proprietari fondiari che si tennero ai margini della politica, ritirandosi nelle loro fattorie o nei loro palazzi di città. Costoro finirono però per condannarsi ad una certa marginalità, dato che soltanto la loro ricchezza continuava a mantenerli legati alle posizioni di privilegio. Vi furono altri che, al contrario, decisero di partecipare attivamente alle trasformazioni sociali e politiche da cui, tra l’altro, avevano molto da guadagnare. Costoro si misero di solito alla testa dei movimenti regionali e federalistici, senza per questo rinunciare, una volta giunti al potere, a modificare la propria posizione, diventando centralisti e ponendo al centro del negoziato i propri interessi personali e regionali. Per poter far questo cercarono di prendere il potere nelle capitali, da dove era possibile estenderlo ad intere aree nazionali. Le spettacolari incursioni dei montoneros per le strade dei grandi centri ebbero in questo senso un valore simbolico, ma furono anche un dato di fatto, specialmente nei casi in cui non furono accompagnate dal drammatico e pittoresco spettacolo delle minacciose ed incontrollate cavalcate delle bande rurali lungo le vie della città. I soggetti politicamente più attivi furono, senza dubbio, i nuovi latifondisti, che acquisirono il loro patrimonio proprio mediante l’attività politica, usando il potere per appropriarsi dei beni dei loro avversari e accumulando, nel periodo delle guerre civili, ingenti e spesso illegali fortune grazie alle quali poterono comperare, sul mercato, le terre necessarie alla loro nuova condizione. Se le bande dei ribelli poterono talvolta sconfinare nel banditismo, i capi di queste subirono non di rado il fascino dei beni altrui e presero con la forza terre e mandrie. Era questo il compenso dovuto all’ascendente di cui godevano sulla popolazione rurale che mobilitavano ed insieme alla quale giocavano la propria carta sul terreno politico.
Nell’ambiente che caratterizzò il periodo successivo all’indipendenza non era pensabile una politica che non fosse appoggiata dalla forza. Un segno caratteristico di questa situazione fu, con ogni probabilità, la trasformazione dei civili in militari. Manuel Belgrano fu il tipico esempio di come un intellettuale borghese di Buenos Aires potesse trasformarsi in generale di un esercito regolare. Tuttavia, mano a mano che il processo maturò e le lotte civili entrarono nel loro apogeo, la distinzione tra esercito regolare e truppe irregolari si fece sempre più confusa. Gli eserciti rurali erano soliti mantenere uno statuto ibrido, nel quale le promozioni ed i gradi venivano ottenuti di fatto e sul campo in base ad un reale esercizio del comando, legato in genere alle regole che ogni banda armata si dava spontaneamente, quando non addirittura, legato semplicemente ad una sorta di autopromozione da parte di chi veniva a trovarsi in una situazione favorevole. Il viaggiatore francese Marmier diceva, nel 1850, parlando del gaucho rioplatense: «Quando è riuscito a domare un cavallo, ad attraversare a nuoto i fiumi più impetuosi, a manovrare con pieno controllo il lazo e il coltello, soltanto allora può dire di essere diventato un vero uomo. La sua sopravvivenza è assicurata e, per scarse che siano le sue ambizioni, le sue qualità di gaucho finiscono per collocarlo in una posizione di privilegio. Così hanno incominciato tutti i grandi colonnelli e generali della Confederazione Argentina, cioè gli eroi immortali, come li definisce Rosas che è il più grande di tutti loro e che ha cominciato anch’egli in questo modo, rivelando ai popoli del Rio de la Piata il proprio genio di provinciale». Di origini più o meno simili furono quasi tutti i capi delle bande di ribelli, compresi quelli che in seguito avrebbero finito per occupare importanti cariche pubbliche. Don Jacobo Baca che partecipò alla rivoluzione messicana e la cui carriera venne ironicamente descritta, nel 1869, dallo scrittore costumbrista José T. de Cuéllar, nel suo libro Ensalada de pollo, terminò la propria vita con i gradi di colonnello.
I gradi di generale venivano infatti solitamente concessi dalle autorità pubbliche dominanti, mentre chiunque avesse alle proprie spalle cinquecento uomini a cavallo poteva impunemente autoproclamarsi colonnello. Colonnello era insomma definito il capo politico che si era autonominato tale e che si trovava nelle condizioni di rendere effettiva la sua arbitraria posizione di autorità avvalendosi della forza militare. Il periodo delle guerre civili fu caratterizzato dalla presenza di questi militari-politici, dato che era molto difficile che potesse continuare a svolgere attività politica chi non aveva questo doppio ruolo. Eugène de Sartiges che conobbe le autorità di Arequipa scrisse: «Il Prefetto, che è stato appena nominato generale dal Presidente Gamarra, ripete spesso che il miglior governo è quello della sciabola». In una società che ogni giorno ratificava coi fatti questa situazione, la classe dominante non potè che essere composta da colonnelli e generali. Per questo la marchesa Calderón de la Barca potè sostenere con arguzia e non senza ironia, che la nuova generazione che le sembrava dominare il Messico era composta da « mogli di militari» cioè, naturalmente, da militari che, come le loro mogli, non erano altro che «parvenus travolti da un colpo di fortuna».
Ciascuno cercò, pur tenendo sempre le armi alla mano, gli appoggi che nel corso del periodo successivo gli parvero più opportuni. Alcuni manifestarono inclinazioni conservatrici mentre altri furono liberali, senza per questo rinunciare alla possibilità di cambiare partito ogni qualvolta ve ne fosse la convenienza. Alcuni, come Belzu in Bolivia, cercarono l’appoggio delle masse popolari, sia rurali che urbane, mentre altri, come Melgarejo, che uccise Belzu, preferirono mettersi al servizio delle classi privilegiate e degli interessi stranieri. Tutti dovettero però ricorrere ai buoni uffici delle borghesie cittadine per consolidare il proprio governo e regolarizzare in qualche modo il proprio potere. Da questa sovrapposizione nacque il patriziato urbano-rurale che dominò la vita politica del continente per un periodo di oltre mezzo secolo, a partire dall’indipendenza.
Si trattò di una nuova classe dirigente, dotata di caratteri originali e nata, spontaneamente, dalla nuova società di cui era un’adeguata espressione. Tutte le contraddizioni sociali trovarono nel nuovo patriziato la propria collocazione, così come tutti i progetti e tutte le aspirazioni trovarono eco all’interno del nuovo ceto dirigente che, indubbiamente, era costituito da un gruppo che desiderava con forza il potere e la ricchezza e che, al contempo, aspirava anche a manovrare e dirigere la nuova società, sulla base di comportamenti pragmatici e congiunturali, cioè in modo piuttosto autonomo rispetto agli schemi ideologici che, per solito, si adattavano male alle necessità di fatto. La situazione stessa determinava, a breve, quali opzioni entravano a far parte dello scenario; dalle decisioni prese derivavano scontri e lotte di fazione che producevano un continuo rimescolamento tra gli interessi e le ambizioni personali da un lato e le opinioni di fondo, normalmente assai più radicali, dall’altro. Nel corso dello scontro ideologico presero lentamente forma alcune linee politiche, influenzate dalle opzioni di valore, ma sostanzialmente orientate ad assumere il ruolo di vigorose linee di tendenza, dietro alle quali, o, meglio, dietro ai nomi di coloro che ne erano sostenitori, era possibile intravvedere un complesso e multiforme contesto, non sempre esprimibile, ma destinato a sollevare in ogni paese, in ogni città ed in ogni regione, adesioni e rifiuti.
Per questo la nuova classe dirigente può essere davvero definita patriziato, quali fossero i vizi e le virtù di ciascuno dei suoi membri. Il nuovo ceto ebbe il compito di chiarire il destino collettivo delle nazioni nate dall’indipendenza e la sua purezza non fu diversa da quella di qualsiasi altro patriziato. La cosa veramente importante fu che la nuova società riconobbe in esso la propria aristocrazia e la propria classe dirigente. I membri di questi gruppi se ne resero ben conto e il patriziato, consapevole della propria eterogeneità, si mantenne sempre a metà strada tra la città e la campagna, la borghesia e la nobiltà. Rurale in campagna ed urbana in città la nuova classe divenne pian piano rurale in città ed urbana in campagna.
Nel corso del tempo il patriziato si rafforzò grazie alla continua azione delle sue successive generazioni, alle fortune ed al potere ereditati, alla simultanea e dinamica presenza nei vari settori della vita sociale ed alla politica delle alleanze economiche e matrimoniali. La ricchezza dei patrizi cominciò ad essere considerata antica e il patriziato iniziò a reputare se stesso e ad essere reputato una vera e propria aristocrazia che, come sempre accade, nascondeva o idealizzava le proprie origini. Andarono costituendosi vere e proprie dinastie con ruoli prestabiliti per i rami principali e collaterali nell’assegnazione dei patrimoni ereditari; la forza dei vari rami aumentava ogniqualvolta questi riuscivano a creare un legame di consanguineità con qualche altro casato risalente all’epoca coloniale e, possibilmente, possessore di un titolo nobiliare. L’ostilità per il passato coloniale andò col tempo indebolendosi, specie in alcuni settori della nuova classe dirigente. Per contro l’entusiasmo per l’egualitarismo che aveva animato i discorsi degli oratori giacobini venne ben presto accantonato. Le nuove dinastie incominciarono a rivendicare privilegi antichi e ad affermare con arroganza la propria presunta eccellenza. Chi riusciva a far sì che un membro della propria famiglia diventasse arcivescovo o presidente della repubblica si assicurava l’universale rispetto e l’intero casato poteva accedere alle più alte carriere, come accadde in Cile agli Errázuriz e in Colombia ai Mosquera. Un cronista della città di Cauca potrà dire in proposito: «Questa stirpe dei Mosquera affonda le proprie radici nella storia e vanta titoli di nobiltà ottenuti meritoriamente. A Popayán il casato si distinse e brillò come una stella di prima grandezza». Analoghi splendori toccarono ad Arequipa alle famiglie, tra loro imparentate, dei Goyeneche e dei Tristán dalle cui file provenivano non solo il vescovo ma anche le badesse degli aristocratici monasteri di Santa Rosa e Santa Catalina. Non vi fu città nella quale le nuove dinastie repubblicane non riuscirono ad imporre il proprio potere, rivestendolo con tutti i simboli che ritennero adeguati al proprio presunto prestigio gerarchico. Erano molti gli atti che nella vita delle grandi famiglie avrebbero potuto giustificare le conclusioni che la moglie del console generale di Spagna in Messico trasse, nel 1840, assistendo alla cerimonia di inaugurazione del Congresso: «Il Congresso aveva un aspetto così poco repubblicano che nessun’altra assemblea avrebbe potuto sembrarlo meno».
Le nuove dinastie fornivano anche la maggioranza dei giuristi che andavano ad occupare le più alte cariche del sistema giudiziario, preparavano le costituzioni, editavano le leggi ed i codici, assistevano il governo in tutti i più gravi problemi e spesso fungevano anche da consulenti agli agenti stranieri che offrivano prestiti e beneficiavano degli appalti delle opere pubbliche. Da questi gruppi uscirono anche scrittori di fama e poeti illustri, nonché, spesso, polemisti impegnati che alternavano l’attività letteraria alla politica attiva e, talvolta, persino alla vita militare, come avvenne nel caso del colombiano Julio Arboleda. Il patriziato fu insomma la crema della nuova società e si distinse per questo tanto nei grandi quanto nei piccoli centri, che pure conservavano intatta l’atmosfera coloniale.
La lotta ideologica
La conduzione della nuova società richiedeva che si immaginasse e si mettesse in pratica una politica. Un’esperienza delle trasformazioni, netta o vaga che fosse, presupponeva invece che si interpretasse in qualche maniera quella che era una realtà sociale del tutto originale, in modo da adeguare le scelte politiche alle situazioni reali, sia a breve che a lungo termine. Per questo l’immagine della società che ciascuno aveva finì per acquisire una straordinaria importanza; al di là di tutti gli aneddotici conflitti per il potere, la sfida che il patriziato latinoamericano dovette affrontare fu proprio dovuta ai vari tentativi di definire l’immagine della società; per tutta la nuova classe dirigente valeva, insomma, quello che disse Lucio V. López allorché, parlando del patriziato di Buenos Aires del 1850, insinuò che fosse composto da «baroni e bottegai» coalizzatisi con i militari che avevano il compito di organizzare la forza per favorire gli interessi di ciascun gruppo. Disporre di un’interpretazione della società divenne altrettanto se non più importante che avere una politica. Questi modelli interpretativi furono talvolta intuitivi e talaltra sistematici ed ispirati a criteri ben definiti. Tuttavia, persino quando la linea interpretativa traspariva dalle parole o dalle azioni di un caudillo più o meno carismatico in tutta la sua apparente immediatezza, era facile percepire che faceva al tempo stesso capo ad uno degli orientamenti ideologici allora predominanti.
In molti si mantenne, sia pure con varie sfumature ed aggiustamenti nel corso del tempo, la concezione della società elaborata dal pensiero illuminista e successivamente ereditata da quello liberale. La società era un insieme di individui razionali, liberi ed uguali che decidevano di dare origine ad un complesso organico. Ciascun individuo utilizzava la propria intelligenza e la propria volontà, al fine di rendere stabile e di custodire il patto sociale che lo legava agli altri. In questo complesso organico risiedeva infatti la sovranità nazionale che, proprio per questo, era sovranità popolare e fonte di ogni potere. Il venezuelano Antonio Leocadio Guzmán scriveva: «Il diritto divino che fa da fondamento in altre parti del mondo ad ogni forma di potere e di giurisdizione, non ha alcun significato in America; parimenti dicasi del diritto ereditario, che altrove legittima l’autorità del monarca; le congiure e le cricche aristocratiche non sono nient’altro che circoli terroristici. A tutte queste forme di legittimità, che sono tipiche del mondo antico, l’America ha sostituito il voto della maggioranza, espresso con procedure costituzionali».
I doveri dell’individuo verso l’organismo sociale nato dal patto erano rigorosi e stabilivano, anzitutto, l’inviolabilità di quanto stabilito. Ancor più rigorosi erano però gli obblighi che l’organismo, specie là dove era prevista la delega del potere, aveva nei confronti degli individui che ne facevano parte. Il sistema delle libertà individuali doveva essere tutelato con rigore, poiché in base a questa interpretazione della società l’individuo era la cosa più importante e le sue libertà non potevano avere altro limite che quello imposto dalle libertà altrui.
In pratica il problema sollevato dal mondo creolo era di stabilire quali individui facevano effettivamente parte dell’organismo sociale. Nella società coloniale non ci potevano essere dubbi, dato che era stabilito per legge quali erano gli esclusi, ma nella società successiva all’indipendenza si produsse un inevitabile scollamento tra teoria e prassi, dato che, da un lato, tutti partecipavano, in quanto uguali, alla costituzione della società e, dall’altro, tale diritto era di fatto riservato soltanto ad alcuni, nonostante la mobilità sociale tendesse di continuo a forzare e ad infrangere queste barriere. Di fatto risultò evidente, in base all’interpretazione liberale della società, che il sistema delle libertà e dei diritti individuali non era valido che per un individuo che fosse razionale e libero, il che, tradotto in termini reali, significava che non potevano accedere alle libertà ed ai diritti coloro che non erano proprietari, cioè economicamente indipendenti, dotati di un certo grado di istruzione e in condizione di identificarsi con coloro che, dato il loro livello di vita, potevano avere interesse a mantenere l’ordine instauratosi con il patto fondamentale, sentendosi quindi responsabili della sua difesa. In realtà non si trattò dunque di un’interpretazione ugualitaria della società, benché il principio dell’uguaglianza fosse apertamente enunciato in teoria e venisse, di tanto in tanto, agitato come spauracchio dai settori più radicali del liberalismo, per i quali restava però sottinteso che il vero obiettivo consisteva nell’incrementare in modo controllato e limitato il numero degli uguali.
Resti dell’antica concezione hidalga continuavano però ad agitarsi all’interno della coscienza liberale che, se da un lato soppiantò la distinzione tra le classi basata sulle origini, dall’altro inaugurò una nuova distinzione basata sulla proprietà e sulla cultura. Il gaucho ignorante era emarginato dalla società quanto lo schiavo e l’indigeno e, dunque, faceva parte di un’altra società, inferiore a quella ufficiale e caratterizzata da un ribellismo necessariamente sovversivo. La vera società si limitava, insomma, ai ristretti gruppi della «gente per bene».
Tuttavia l’esplosione sociale che, maturata durante il secolo XVIII, culminò nello scatenarsi dell’Indipendenza, finì per spostare i termini del problema. Coloro che appartenevano all’altra società fecero propria la teoria ugualitaria che si agitava sullo sfondo delle posizioni indipendentistiche, e ne approfittarono per reclamare, a loro modo, il ruolo che ritenevano gli spettasse. Si delinearono allora i poli di un conflitto tra due differenti interpretazioni della società, contrapposte l’una all’altra in base all’interpretazione della parola popolo così come compariva nella teoria della sovranità popolare. L’intera società o solo una parte di essa costituiva il popolo? Ancora una volta, l’interpretazione illuminista e liberale della società venne a trovarsi coinvolta nelle contraddizioni tra teoria e prassi.
Istintivamente, l’altra società e coloro che la rappresentavano risposero che la società era composta da tutto il popolo e, proprio per questo, doveva essere ugualitaria. Questa convinzione, profonda e spontanea, si fece chiara e difendibile nel corso di un lungo processo evolutivo. La società cominciò ad essere pensata non più come una somma di individui razionali e liberi, legati tra loro in un complesso organico basato su un patto, ma come un insieme autonomo, all’interno del quale gli individui perdevano importanza di fronte al significato complessivo; per questo il complesso poteva essere eterogeneo, instabile e fluido; in esso potevano così convivere, fianco a fianco, sulla base di un ideale ugualitario, tutti gli individui, indipendentemente dalle loro qualità: proprietari e non, intellettuali ed analfabeti, responsabili ed irresponsabili, «gente per bene» e «poco di buono». Una consapevolezza e uno spirito collettivo circolavano attraverso questo eterogeneo complesso e non si esprimevano razionalmente ma attraverso il sentimento e la volontà. Come scriveva, nel 1811, l’uruguaiano José Artigas: «A muoversi non erano soltanto i braccianti contadini o coloro che si guadagnavano la vita a giornata o come salariati; anche residenti ben sistemati, possessori di tutti quei beni e di quegli agi che questa terra offre, erano pronti a trasformarsi rapidamente in soldati, ad abbandonare i propri interessi, le proprie case, le proprie famiglie e a rischiare, spesso per la prima volta, la propria vita sui campi di battaglia, nonostante i tristi pianti delle mogli e dei figli, dato che, sordi ai richiami della natura, costoro non ascoltavano che la patria». Sulla base di un’esperienza analoga, prese forma nella coscienza di molti un’immagine globale della società.
Ad ogni interpretazione della società corrispondeva la scelta di un modo di esprimersi. Secondo la concezione liberale, la società si esprimeva attraverso le voci di ciascuno dei suoi membri, le cui opinioni e le cui decisioni, elaborate secondo i dettami della ragione, venivano trasmesse come istanze, ad un ristretto numero di rappresentanti, anch’essi in grado di agire razionalmente. Invece, in base alla concezione romantica, le opinioni e le decisioni razionali di ciascuno dei membri non contavano e, al loro posto, c’erano alcuni sentimenti che, pur essendo profondi, non si esprimevano attraverso formule e avevano perciò bisogno di qualcuno che li interpretasse, li razionalizzasse e li canalizzasse, trasformandoli in decisioni. In questo modo una concezione personalista, carismatica e caudillista venne opponendosi alla democrazia rappresentativa. Carlyle si rese ben presto conto della presenza di questo meccanismo nella vita politica latinoamericana e ne fornì una dettagliata analisi nel suo studio sul dittatore paraguaiano José Gaspar Francia.
Gran parte delle osservazioni e delle analisi dedicate alla società latinoamericana di questo periodo ruotarono proprio attorno al potere carismatico dei caudillos. Furono due argentini, Juan Bautista Alberdi e Domingo Faustino Sarmiento, a portare questo tipo di analisi alle sue estreme conseguenze, chiarendo definitivamente la questione, grazie alla pubblicazione, rispettivamente, del Fragmento preliminar al estudio del derecho (1837) e del Facundo (1845). Risultò per loro evidente che i caudillos erano rappresentativi della nuova società; entrambi giudicarono infatti urgente e necessario modificare le condizioni di vita di questa società; nonostante questa opinione sfavorevole, la lorodiagnosi fu profonda e la loro descrizione credibile e pertinente, Coltempo, si vennero accumulando molte altre analisi, talvolta frutto degli sforzi di pensatori liberali più o meno compromessi con il pensiero sociale del romanticismo, o prodotte da intellettuali di orientamento conservatore, quando non, addirittura, dai fautori del caudillismo. Tutti riconobbero, in qualche misura, la rappresentatività dei capi, più o meno carismatici, che conquistavano il cuore delle masse popolari urbane e rurali. Tuttavia, gli eccessi dell’autocrazia finirono per togliere forza alla concezione romantica della società o, meglio, per aprire la strada al cosiddetto romanticismo liberale; con questa trasformazione si finì per giungere ad una formale accettazione del sistema rappresentativo e, nei pensatori più radicali, alla formulazione di un progetto che intendeva accelerare l’inclusione dei gruppi emergenti nella società organicamente integrata. Questa società, di fatto e con la sola eccezione di pochi momenti di anarchia, continuava, infatti, a dirigere i destini regionali e nazionali e, alla testa di questo processo c’era e tornavano sempre di più ad esserci le società urbane.
L’interpretazione liberale e quella romantica della società avevano in America latina, nonostante la loro radicale contrapposizione, qualcosa in comune: erano la due facce di una stessa moneta, nate con la trasformazione, di cui entrambe si erano fatte specchio ed interprete. Tuttavia non scomparve del tutto neppure l’interpretazione più antica, anteriore ad entrambe, nata con la conquista e utilizzata come fondamento ideologico della società nobiliare. La trasformazione provocata dall’incremento dello sviluppo mercantile si era rivelata non meno profonda di quella determinata dall’emancipazione che l’indipendenza aveva garantito alle forze sociali; ciononostante il sistema della proprietà delle terre e delle miniere continuava ad essere lo stesso, nonostante i titolari fossero cambiati. Era dunque inevitabile che la vecchia concezione della società continuasse a sussistere e ad essere fatta propria da quanti, pur avendo partecipato al cambiamento, non erano disposti a trarne tutte le conseguenze e, per ciò, cercavano in ogni modo di contenere gli effetti, confidando, in molti casi, nella remota possibilità di riportare le cose alla situazione precedente.
Tre ideologie si sovrapposero dunque nella mentalità del nuovo patriziato e agirono talvolta in forma pura, ma, più spesso, variamente combinandosi tra loro. Questa battaglia ideologica venne combattuta nelle città ed in special modo nelle capitali, dato che era qui che, a poco a poco, avveniva l’integrazione degli eterogenei gruppi che lottavano tra loro per il potere. Tutti i movimenti di opinione che accelerarono o rallentarono i processi di stabilizzazione dei gruppi di potere ebbero, infatti, la loro sede naturale nelle città. Il potere veniva conquistato, a volte, da gruppi che avevano obiettivi palesi, mentre, in altri casi, gli stessi gruppi che lo conquistarono incominciarono a chiedersi che cosa avrebbero dovuto farne soltanto dopo che lo avevano preso. I compromessi fra questi gruppi furono almeno altrettanto frequenti quanto le loro ricomposizioni ideologiche. Nel corso di questi processi chimici di aggregazione e disgregazione, l’ambiente ambiguo e multiforme proprio delle città costituiva uno scenario davanti al quale bisognava per forza comparire se si voleva giungere ad una formalizzazione delle intese.
Lentamente le città assorbirono l’impatto della popolazione rurale, corrompendone o catechizzandone i portavoce ed i rappresentanti. Juan Facundo Quiroga, la «tigre delle pianure», comprò in Buenos Aires il ricco palazzo Lezica e vi si installò con la propria famiglia, mentre donna Barbarita, moglie del generale José Antonio Páez, offriva nei sontuosi saloni della sua residenza a Caracas, la famosa Viñeta, brillanti ricevimenti. In questo ambiente risorse a nuova e più moderna vita la vecchia tesi urbana del dispotismo inteso come strumento della libertà, cioè, in sostanza, la concezione che nel XVIII secolo aveva caratterizzato l’assolutismo illuminato. Ovviamente non tutti ne divennero seguaci, dato che molti preferirono rifugiarsi nel più rigido conservatorismo, proprio della tradizione rurale ispirata agli ideali della restaurazione. Della nuova ideologia si fecero invece portatori sia coloro che si sarebbero poi definiti liberali, sia coloro che facevano parte del gruppo dei proprietari vecchi e nuovi e che, avendo cercato e ottenuto l’appoggio del popolo, finirono per riconoscersi nell’etichetta di conservatori liberali. Da questa selva di orientamenti finivano, talvolta, per emergere le decisioni pratiche, connesse ai problemi urgenti di ciascuna congiuntura. Dietro ciascuna posizione era, tuttavia, possibile vedere un progetto, una tendenza ed un atteggiamento che rivelavano quale fosse in realtà il peso che ciascuna interpretazione aveva nel complesso gioco delle opinioni che andavano lentamente collocandosi entro la mentalità del nuovo patriziato.
Un volta avviata la trasformazione, fu necessario affrontare una questione fondamentale che stava alla base di tutte le decisioni che si dovettero prendere: occorreva scegliere se mantenere o modificare la struttura socio-economica del mondo coloniale. Questa opzione non risultò subito chiara a tutti dato che non tutti i più urgenti problemi avevano una loro sistemazione all’interno delle teorie e dei principi che venivano allora enunciati. I fatti finirono così per parlare da soli. Conservare il maggiorasco e il monopolio equivaleva a mantenere la struttura socioeconomica della colonia e, quindi, la contrapposizione tra conservatori e liberali si espresse attraverso il parere favorevole e contrario al sussistere di queste istituzioni. La costituzione liberale del Cile abolì il maggiorasco nel 1828, ma, dopo la rivoluzione del 1830, la costituzione conservatrice del 1833 lo reintrodusse; tutti gli sforzi del ministro Portales furono diretti a mantenere la struttura socio-economica della colonia; analogo fu, in Argentina, l’operato di Rosas. In Brasile, in uno stato di grande tensione, di sommossa e di polemica, il maggiorasco venne sospeso nel 1835 e ciò costituì un duro colpo per l’aristocrazia terriera che aveva sostenuto Pietro I. La riforma colombiana del 1848, liberalizzando la coltivazione del tabacco, mise fine ad una situazione di monopolio che i conservatori avevano fino ad allora difeso con accanimento. Le riforme proposte in Messico, nel 1823, da Gómez Farías e appoggiate con forza dai liberali vennero derogate da Santa Anna l’anno successivo e fu necessario attendere la costituzione liberale del 1857 e le Leggi di Riforma per vedere ristabiliti quegli stessi principi, a prezzo però di una guerra civile e di un’invasione straniera.
La minaccia più grande per la vecchia struttura fu, molto probabilmente, quella determinata dal problema della manodopera. Nonostante l’inclinazione teorica che tutti i governi rivoluzionari manifestarono per la liberazione degli indigeni dalla servitù rurale e per la progressiva abolizione della schiavitù, il dibattito che doveva portare alla ratifica legale di questi principi si rivelò particolarmente lungo e difficile. In Perù il presidente Castilla, dopo non poche opposizioni e tentennamenti, decretò la liberazione degli schiavi e la soppressione del tributo indigeno. Nella costituzione messicana del 1857 venne stabilita la libertà dei servizi rurali e il dibattito non fu solo difficile ma anche cruento, dato che i proprietari si mobilitarono a difesa dei propri interessi. In Cile, durante le discussioni che avrebbero dovuto portare, con la costituzione del 1823, all’abolizione della schiavitù, non solo i proprietari di schiavi difesero i propri interessi, ma arrivarono addirittura a mobilitare gli stessi schiavi, spingendoli a dichiarare di fronte al congresso che non desideravano mutare condizione. Ovviamente, le borghesie urbane che non erano danneggiate da queste misure si davano molto da fare per ottenere quelle riforme che, oltre tutto, finivano per liberalizzare il mercato della manodopera.
I conservatori antiliberali dovettero rassegnarsi a perdere questa battaglia, anche se continuarono a mantenere, al pari di molti liberali, un forte pregiudizio per quanto riguardava i rapporti tra le classi. Verso la metà del secolo era percepibile la sopravvivenza di un atteggiamento nobiliare che, di fatto, scavava un abisso tra le classi alte e possidenti e quelle popolari e nullatenenti. Vasti settori di quest’ultima fascia avevano, peraltro, fatto propria questa concezione delle relazioni sociali. In alcuni paesi come il Cile e la Colombia le corporazioni artigiane raggiunsero in questo periodo una certa consistenza e finirono per raggrupparsi in associazioni e ad intervenire nella negoziazione politica; non per questo arrivarono però a liberarsi del proprio complesso di inferiorità. Furono le classi medie delle città ad opporsi alla concezione tradizionale della società, in nome di una sua variante ispirata ai valori di un moderato carrierismo sociale. Questi gruppi non negavano la propria inferiorità, si limitavano a rivendicare il diritto di essere ammessi a far parte della classe superiore ogni volta che riuscivano a raggiungere determinate posizioni. La critica ai gruppi definiti aristocratici per la loro resistenza ad accettare i meriti e la fortuna, sulla base di una sorta di diritto di nascita, costituì un motivo ricorrente della letteratura realista e regionalista. La retorica ugualitaria sarebbe passata in politica mediante il dibattito sul suffragio censitario.
Fu proprio all’interno del confronto politico che la lotta ideologica si manifestò con maggiore chiarezza. Il primo ed il principale terreno di scontro fu rappresentato dal problema della nazionalità. Le nuove nazioni, con l’unica eccezione del Brasilo, erano nate da una divisione occasionale delle zone coloniali e si erano dunque costituite senza che vi fosse alle loro spalle una tradizione nazionale sufficientemente forte; nei decenni successivi all’indipendenza non era facile stabilire quali fossero i tratti specifici e peculiari di ciascuno dei nuovi paesi. Si manifestarono anche due tendenze contrarie alla definizione delle nazionalità. La prima fu la volontà di costruire grandi unità politiche, come la Gran Colombia di Bolívar, l’America centrale di Morazán e la Confederazione Peruviano-Boliviana di Santa Cruz. La seconda fu la tendenza a trasformarsi in nazioni che certe ragioni manifestarono.
I tentativi di creare grandi unità politiche fallirono. Contro la teoria di Bolívar insorsero i sentimenti e gli interessi nazionalistici che trovarono i propri esponenti principali in Páez, Santander e Flórez, i cui movimenti furono caldamente appoggiati da tutti coloro che volevano affermare la peculiare personalità politica di quelli che sarebbero diventati in seguito nuovi paesi indipendenti: il Venezuela, la Colombia e l’Equador. Le regioni del centro America mandarono in fumo il progetto di Morazán e i due paesi momentaneamente unificati da Santa Cruz si divisero ben presto di fronte alle resistenze di vasti settori e alla pressione esercitata in tal senso dal Cile. Ciononostante, prima, durante e dopo questo periodo continuò ad essere presente la tendenza a rafforzare la coesione di certe aree per mezzo di alleanze e, talvolta, persino di protettorati stranieri. Di contro, si svilupparono forti movimenti nazionalistici che considerarono tali appoggi stranieri alla stregua di un tradimento.
Coloro che trionfarono nelle guerre regionali di liberazione finirono, alla lunga, per imporre alle regioni un aspetto nazionale: tale fu il caso dell’Uruguay di Artigas, del Paraguay di Francia e, in una prima fase e in parte, anche quello dei paesi centroamericani e della Bolivia. Gli insuccessi furono però molti e numerosi paesi dovettero ripiegare su formule federali, rinunciando alle proprie aspirazioni nazionalistiche. Il caso più drammatico fu in questo senso, probabilmente, quello del Brasile nel periodo successivo all’abdicazione dell’imperatore Pietro I. A partire dal 1831 le insurrezioni regionali minacciarono l’unità dell’impero e in ogni regione, oltre che nelle grandi città, le opinioni si divisero determinando la nascita di due schieramenti, quello liberale e federalista da una parte e quello conservatore e centralista dall’altra. Il problema si pose in più di un’occasione in gran parte dei paesi. Centralisti e regionalisti, unionisti e federalisti furono al centro di una lunga polemica dottrinaria che si protrasse in parallelo con le tensioni politiche e le guerre civili che tormentarono la Colombia, l’Argentina, l’Uruguay, il Venezuela e il Messico. I conflitti scoppiarono là dove vi erano regioni ben distinte, con chiari interessi locali, talvolta incompatibili con quelli delle capitali: Yucatán, Cauca, Texas, Coro, Apure, Pernambuco, Río Grande del Sur; queste regioni, anche se non negavano il principio fondamentale della nazionalità, chiedevano però di avere diritto ad un certo margine di autonomia.
La forza dell’ideologia nazionalista, nel suo scontro con le concezioni sopranazionali ed infranazionali, si manifestò nell’opera di quegli storici che cercarono di mostrare geneticamente la formazione delle identità nazionali e di provare che queste esistevano ben prima dei sentimenti regionalistici. Si intendeva affermare, dimostrare e, forse, anche rivedere la nozione di una peculiarità nazionale che abbracciasse tutte le regioni comprese in una certa area, facendo leva sia su un comune passato coloniale sia su un comune destino nel momento critico dell’indipendenza. Più o meno esplicitamente, questo fu il significato dell’opera dei messicani Lucas Alamán e José María Luis Mora, del cubano José Antonio Saco, dei venezuelani Rafael María Baralt e Juan González, del colombiano José Manuel Restrepo, del boliviano Mariano Paz Soldán, degli argentini Bartolomé Mitre e Vicente Fidel López, dei cileni Diego Barros Arana e Benjamín Vicuña Mackenna; questa lunga lista dimostra quanto fu grande in America latina l’influenza esercitata dalla concezione romantica della storia, mossa proprio dal progetto di identificare per ciascun caso particolare le direttrici di un destino nazionale.
I movimenti regionalisti e federalisti, benché avessero tra i loro militanti ed i loro dirigenti molti proprietari terrieri, furono marcatamente popolari: un esempio tipico fu quello della rivoluzione farroupilha (degli straccioni) che scoppiò nel 1835 nella provincia di Río Grande del Sur, sotto la guida di Bento Gonçalves. Tutti questi movimenti espressero quanto di comune lo popolazioni regionali avevano da opporre alle pretese accentratrici delle capitali e delle classi borghesi, considerate superbe o avide. Pur senza avere un progetto politico chiaro, al di là delle rivendicazioni autonomistiche, i gruppi regionali avevano però una concezione positiva della vita di provincia e delle tradizioni locali che venivano opposte al sistema di vita delle grandi città, sottoposte all’influenza europea.
Dal punto di vista politico il regionalismo aspirava al decentramento amministrativo, ma la tradizione che voleva un governo centrale forte era molto diffusa e molti giudicarono che fosse l’unica soluzione praticabile per governare delle società palesemente instabili. Rosas, García Moreno, Páez, Monagas, Latorre e, alla fin fine, persino gli imperatori Pietro II e Massimiliano finirono, così, per esercitare un governo dispotico nel quale trovava espressione l’opinione di vasti settori conservatori, composti non soltanto dai membri della classe alta che vedevano nell’autocrate un tutore dell’ordine, inteso come ordine vigente, ma anche di alcuni settori popolari, che facevano propria una concezione paternalistica del potere. Per contro, i liberali, compresi quelli di orientamento conservatore, condannavano esplicitamente il personalismo e la tirannide e vi si opponevano con notevole violenza verbale, come fecero Sarmiento e Montalvo; le borghesie urbane appoggiarono infatti tutte le forme di democrazia repubblicana e rappresentativa, esaltando ciò che secondo i loro avversari non era altro che un inganno escogitato dai giuristi per continuare a godere del potere e dei vantaggi che ne derivavano.
Per questo gran parte delle lotte ideologiche si svilupparono attorno ai progetti costituzionali. Alcuni, come Rosas, ritennero che il loro paese non fosse pronto per godere di una costituzione, dopo il fallimento patito da chi, come gli avversari di Rosas, aveva cercato di regolare costituzionalmente la vita di alcune province che, però, avevano rifiutato di sottomettersi al dettato normativo. Rosas, al pari del dottor Francia in Paraguay, pensava di essere il portavoce fedele delle aspirazioni popolari e, comunque, era fermamente convinto che soltanto una personalità carismatica, individualmente caratterizzata, ricca di sfumature e particolarmente sensibile agli umori collettivi potesse dare espressione ai vaghi progetti di un popolo privo di esperienza politica. Ciononostante, nella maggioranza dei casi e dei paesi fu possibile trovare un accordo sulla necessità di redigere una costituzione, dato che il modello politico a cui si ispiravano i teorici delle nuove democrazie richiedeva che ve ne fosse una. La disputa fu, anzitutto, tra coloro che, seguendo uno schema razionalistico, aspiravano a modificare per mezzo della costituzione la realtà sociale e il sistema delle consuetudini, e coloro che invece ritenevano che la costituzione dovesse essere una pura e semplice codificazione degli equilibri raggiunti e, ovviamente, dei privilegi detenuti all’interno del sistema dai più antichi gruppi possidenti. In seguito, però, il quadro delle divergenze si fece più articolato, anche perché si tentò di ricomprendere nelle costituzioni anche i tentativi di rispondere ai nuovi problemi che si andavano delineando. La lotta, ispirata a progetti costituzionali marcatamente liberali o decisamente conservatori, finì a volte per determinare il trionfo di un testo compromissorio e di transizione. Si lottò per ottenere un sistema che garantisse al congresso ampi poteri o, al contrario, per un meccanismo che assicurasse vasti margini di manovra all’autorità esecutiva. Si lottò però anche per fare sì che la costituzione mettesse in chiaro alcune concrete questioni, relative al sistema doganale, alla navigazione fluviale, alla politica economica, e alla condizione delle classi subalterne. La lotta fu particolarmente accanita quando si trattò di regolare, in una direzione o nell’altra, le relazioni tra stato e chiesa, il potere economico di quest’ultima e la condizione sociale del clero. Se la Convenzione di Rio Negro finì per dare alla Colombia, nel 1863, una costituzione nella quale si faceva a meno della tradizionale invocazione a Dio, García Moreno diede all’Equador, nel 1869, una costituzione teocratica, Conservatori e liberali non erano più gli unici parametri di definizione degli schieramenti politici, dato che in tutto il continente incominciarono a formarsi gruppi ultraconservatori da uni parte e gruppi radicali dall’altra.
Opinioni generiche e sentimenti collettivi funzionarono spesso come molle dell’azione politica. Nell’inquieta e fluida situazione sociale e nei passionali interstizi della lotta politica vi era sempre chi sollevava una bandiera e la seguiva fino alla morte, senza sapere bene perché lo aveva fatto e senza mai fermarsi a considerare quali potessero essere le conseguenze ultime delle sue azioni. Ciononostante, per una via o per un’altra, queste generiche opinioni e questi infuocati sentimenti di appartenenza finivano per concentrarsi e per trovare un indirizzo comune, dato che a monte c’erano ben definiti schemi intellettuali e di principio che funzionavano da modelli e da catalizzatori. Questo processo di trasformazione che finiva per ridurre un patrimonio ideale diffuso entro i termini di un chiaro sistema di idee fu, essenzialmente, lungo ed urbano. Nell’ambito delle borghesie cittadine, tutti sapevano ciò che volevano e si andava dunque accumulando un vasto patrimonio di esperienze politiche, corredato da una formazione teorica abbastanza organica da riuscire a cogliere il significato di ogni manifestazione spontanea, di ogni opinione generica, di ogni sentimento diffuso. Il conservatore sapeva che cosa voleva conservare, sapeva fino a che punto poteva valere la pena di conservare ogni singolo aspetto di ciò che considerava degno di essere conservato e sapeva fino a qual segno poteva accettare che cambiasse tutto il resto. Il liberale, per contro, sapeva che cosa voleva trasformare e che cosa no e sapeva a quale ritmo avrebbe preferito che il cambiamento avvenisse. Né tutti i liberali, né tutti i conservatori potevano dirsi uguali fra loro; erano infatti divisi da sfumature più o meno profonde, pur avendo in comune alcuni fondamentali schemi di riferimento. Nonostante questa eterogeneità, venivano ugualmente stabiliti degli schieramenti ideologici contrapposti, ai quali, nei momenti decisivi, finivano per fare riferimento tutti coloro che, allarmati per il frenetico ritmo degli avvenimenti o per il timore di vedere compromesso il raggiungimento degli obiettivi prefissati, avevano pubblicamente manifestato un’opinione o che si erano esposti personalmente con un gesto che li aveva definitivamente collocati da una parte o dall’altra.
Tutto questo processo avvenne per gradi e nelle città, come era inevitabile in una situazione sociale e politica nella quale era frequente il contrasto tra le temerarie giocate degli impulsivi e la calcolata prudenza dei cauti. Fu proprio nelle città che, lentamente, avvenne il travaso tra teoria e prassi; gli ideologi modificarono infatti i propri schemi adattandoli ai nuovi contenuti portati da coloro che si erano mossi impulsivamente sotto la spinta di aspirazioni generiche e di sentimenti diffusi; costoro, da parte loro, impararono a moderare le proprie euforie emotive e a collocarle entro uno schema che permettesse loro di minimizzare i rischi e di massimizzare i profitti attesi da ogni singola azione.
Attraverso questo gioco vennero delineandosi con progressiva precisione i gruppi che sostenevano le diverse opinioni e che andarono acquistando il caratteristico aspetto di formazioni politiche di partito. I problemi venivano esplicitati al momento di dare una formulazione chiara al limitato numero di opinioni che ciascuna questione finiva per sollevare. Ogni opinione, analizzata sulla base dell’esperienza politica e dell’analisi dottrinaria, evidenziava quale fosse la sua portata, la sua possibilità di successo e le sue conseguenze ultime. I conservatori liberali si differenziarono dai conservatori reazionari ed antiliberali che facevano riferimento all’ideologia della conquista. Dal canto loro, i liberali andarono a più riprese assestando il proprio patrimonio teorico nel tentativo di armonizzare i problemi che dovevano affrontare ed i principi astratti che ricevevano dall’elaborazione analitica dei teorici europei ed in particolare dalle due scuole massoniche, quella scozzese e quella di York, e dagli intellettuali della generazione del 1848, le cui teorie facevano riferimento ad un’ondata rivoluzionaria che, nonostante avesse sconvolto l’Europa, non aveva avuto in America latina che una pallida eco. In questo modo i liberali moderati andarono differenziandosi da quelli radicali ed entrambi i gruppi presero le distanze da coloro che, proprio allora, incominciavano ad ipotizzare la necessità di una politica autonoma per le classi popolari.
I due grandi partiti, liberale e conservatore, cominciarono a diventare più coerenti, a ricevere le idee nate spontaneamente nel corso dell’azione ed a cooptare gli uomini che le esprimevano. Il patriziato si divise, per l’appunto, in patriziato liberale e patriziato conservatore, ma, nell’attimo stesso della divisione, ciascuno dei due partiti si divise a sua volta in ali ideologiche, dando origine, nel confronto con le situazioni reali, alle più diverse alleanze. Le conversioni dottrinarie furono frequenti e quelle pratiche furono addirittura all’ordine del giorno. Tomás Cipriano de Mosquera in Colombia e José Tadeo Monagas in Venezuela divennero liberali dopo avere incominciato come conservatori; sempre in Colombia, i due gruppi fecero blocco unico quando, nel 1851, il generale Melo cercò di sfruttare politicamente l’insoddisfazione popolare.
Quello di Melo fu certamente un tentativo di tipo militare puro. I militari, però, lo rovesciarono, facendosi manovrare dai civili. Il ruolo dei militari nella politica latinoamericana divenne così evidente nel corso di quest’epoca che, più di una volta, l’opposizione tra liberali e conservatori venne sostituita da quella tra fautori del potere militare e sostenitori del potere civile, il che però non impedì che vi fossero dittature civili di rigore paragonabile a quelle delle giunte militari. Nonostante il gioco politico dei partiti e la teorica vigenza delle carte costituzionali, si può ben dire che la lotta ideologica abbia finito per favorire una tendenza spontanea all’esercizio fattuale del potere, forse legata al destino politico delle società instabili. Le borghesie urbane si preoccuparono di garantire a questo potere effettivo un legalismo apparente e formale che, in realtà, era espressione di un compromesso tra gli ideali teorici del patriziato e la terribile necessità di riportare le masse rurali alla subalternità economica, contenendo una mobilità sociale che minacciava ormai di infrangere gli argini e gli schemi predisposti dalle classi privilegiate.
Panoramica urbana
I numerosi viaggiatori europei che, per interesse commerciale, per sottrarsi alle agitazioni politiche o per soddisfare un romantico spirito d’avventura, visitarono in questo periodo le città dell’America latina ne riscoprirono la fisionomia coloniale, o, meglio, notarono, in esse, un’aria stanca ed invecchiata. Chiusi dentro le città, come in un ridotto della civiltà, costoro osservarono con una certa sorpresa un mondo tutt’altro che nuovo. Era una specie d’Europa, forse un po’ primitiva, ma caratterizzata da un esotismo moderato, curioso e, al tempo stesso, tollerabile. I viaggiatori osservavano una natura leggermente smisurata e delle città leggermente semplificate. Chi proveniva da una delle grandi capitali sorrideva tra sé con ingenua sufficienza. Verso il 1850 a Montevideo e a Veracruz gli alberghi non potevano competere con quelli di Parigi, ma lo spettacolo era comunque tale da distrarre i viaggiatori. Alcuni scrissero le loro impressioni di viaggio, mentre quelli che sapevano disegnare o dipingere finirono per cercarsi un buon punto di vista per schizzare una panoramica della città.
Nonostante l’atteggiamento di leggera sufficienza, molti viaggiatori, trasformandosi in scrittori e in pittori, osservarono con cura le città dell’America latina nel corso del mezzo secolo successivo all’indipendenza. La loro attenzione si concentrò indubbiamente sugli aspetti di più forte contrasto. E ovvio che le loro osservazioni si collocavano in un momento particolare dello sviluppo dell’America latina, dato che le società del continente stavano sperimentando una profonda trasformazione che avveniva però senza riflettersi a livello immediato in un’alterazione dell’aspetto esteriore. L’organizzazione urbanistica e quella architettonica erano ancora in prevalenza coloniali, anche se le società urbane erano creole e si stavano freneticamente modificando. Raramente chi era appena arrivato aveva modo di rendersi conto di quanto fosse intensa la trasformazione della vita delle città; le osservazioni degli stranieri coglievano dunque soltanto un momento del processo in sviluppo. Tuttavia costoro fissavano nei loro diari o nei loro disegni un’immagine permanente del complesso urbanistico ed architettonico cioè delle chiese, delle balaustre e delle balconate dei vecchi palazzi, e di tutto il tranquillo complesso di edifici che circondava la piazza Maggiore.
Indubbiamente il viaggiatore straniero doveva trovare curioso lo spettacolo offerto da queste città che, indipendentemente dai loro tratti caratteristici, funzionavano esattamente come i centri urbani dei paesi da cui gli osservatori provenivano. Questa duplicità fu percepita del resto anche dai nativi che videro le loro città da un lato come nuclei architettonici e dall’altro come centri sociali destinati a svolgere un ruolo peculiare, non soltanto nella vita del paese, ma anche nel mondo, dato che erano ormai parte dell’universo interrelato ed urbano che l’economia mercantilista aveva creato e che quella industriale incominciava proprio allora a sfruttare. Questo aspetto dinamico e funzionale venne colto tanto dal romanziere influenzato dall’estetica realistica, quanto dal sociologo, sorpreso dal confronto con una realtà inattesa, e dallo storico che era invece interessato al succedersi delle trasformazioni. Benjamín Vicuña Mackenna scrisse con metodo a proposito di Valparaíso e di Santiago del Cile, ma al pari di lui, molti altri raccolsero materiali ed esposero quanto sapevano circa lo sviluppo della loro città.
Ovviamente, i centri urbani erano allora oggetto di curiosità e di studio. Le città europee crescevano grazie alla spinta garantita dalle trasformazioni economiche e il sistema industriale modificava il costume, le condizioni di vita e gli oggetti d’uso. L’accelerazione del ritmo delle innovazioni tecniche finì per rendere più spigolosi i contrasti. Sia l’osservatore straniero che quello indigeno che avesse visitato l’Europa erano in condizioni di analizzare e giudicare le città sulla base di modelli predeterminati e tali da denunciare chiaramente il progresso o la stagnazione. La città fu dunque un fedele indicatore dei cambiamenti e tutti incominciarono a guardare ad essa per cercare di capire se la società di cui facevano parte era o no in grado di integrarsi al processo di trasformazione che si era avviato in Europa.
Tuttavia, in America latina, molte città che avevano incominciato a trasformarsi verso la fine del XVIII secolo interruppero ora il loro modesto sviluppo a causa delle cesure prodotte dall’Indipendenza, prima, e dalle guerre civili poi. I circuiti commerciali si spezzarono e le relazioni che legavano i centri urbani alle regioni circostanti si modificarono, dato che le città furono ripetutamente occupate dagli eserciti più o meno regolari delle parti in conflitto, che distrussero o requisirono sistematicamente i beni d’uso e di produzione. In queste condizioni il timido processo di sviluppo iniziatosi poco prima finì per subire una battuta d’arresto, e restò percepibile soltanto nelle città che restarono protagoniste delle nuove correnti economiche, cioè di quei centri che ricevevano e distribuivano i prodotti stranieri e concentravano le materie prime destinate all’esportazione. Apprezzabile fu anche lo sviluppo di alcune capitali che seppero trarre beneficio dalla presenza del potere politico. Furono tuttavia molto pochi i casi nei quali il mantenimento o il miglioramento dello sviluppo economico seppero tradursi in una trasformazione del panorama urbano abbastanza vasta da colpire la fantasia del viaggiatore che si accingeva a ritrarre il panorama della città o a descriverne la vita sulla pagina. Un attento geografo, Agostino Codazzi, dopo avere passato in rassegna le trasformazioni avvenute nella città venezuelana di Barinas, tra il 1787 e il 1810, spiegava così le cause della sua apparente decadenza: «Si è già detto che la guerra la distrusse; l’incendio ed i ripetuti saccheggi non le consentirono di risollevarsi altrettanto facilmente di altri centri. I ricchi ed i potenti che davano lustro a Barinas fuggirono abbandonando le proprie residenze, oppure morirono insieme ad esse; la guerra li disperse comunque un po’ dappertutto ed i pochi che tornarono lo fecero solo perché erano precipitati nell’indigenza. Il denaro era finito, il patrimonio agricolo e zootecnico si era estinto nell’abbandono. Barinas restò dunque spopolata, le sue pianure rimasero deserte, i suoi campi desolati, pieni di erbacce i terreni delle fattorie e semidistrutte le case. Ebbe inizio una nuova era contrassegnata dalla libertà e dall’uguaglianza e ciascuno potè credersi libero poiché effettivamente lo era e, per questo, cominciò a sentirsi padrone delle proprie azioni e non volle più sottostare a nessun altro. Questo processo in forma più o meno acuta dovette ripetersi in molte altre città. L’argentino Sarmiento descrisse nei suoi Recuerdos de provincia il destino della città di San Juan e in Facundo quello di altre città. Il brasiliano Joao Lisboa annotò i torpidi languori di San Luis de Marañon. La marchesa Calderón de la Barca ebbe a dire, parlando del Messico: «Nessun’altra città di questo paese è decaduta dopo l’indipendenza quanto Morelia», anche se era assai più significativo che, a causa delle sorti della guerra, il porto di Veracruz avesse perso il suo antico vigore e apparisse ora come lo scalo di una città in crisi. Anche altri porti, che durante il periodo coloniale avevano avuto grande importanza, come El Callao, Panamá e Cartagena, ebbero a soffrire un analogo declino.
Inoltre erano numerose le città che non avevano ancora avuto uno sviluppo significativo e che quindi potevano essere aggiunte alla lista di quelle che erano declinate, in modo da completare un quadro di stagnazione generale. A Cuzco, a Quito, a Ouro Preto, a Tacna, a Cochabamba, a Monterrey, ad Asunción, a Guatemala e a Valdivia il secolo XVIII continuava a sopravvivere: la piazza, la fontana, la chiesa, le strade e le case erano le stesse di allora. Chi avesse letto un’antica descrizione della città avrebbe scoperto che niente era cambiato.
Sotto la spinta del nuovo sistema economico vennero fondati altri centri e alcuni antichi villaggi si trasformarono in città: Bahía Bianca e Rosario in Argentina, Tampico in Messico, Colón a Panamá, Barranquilla in Colombia. Parlando di quest’ultima e del suo rapido sviluppo, Miguel Samper la definì, nel 1872: «Frutto spontaneo del commercio», e aggiunse: «Vi sono forse più stranieri che in tutto il resto della repubblica; si sente parlare inglese negli uffici, nel porto, nella stazione ferroviaria, sui vapori; il movimento commerciale, il brulicare dell’attività, il fischio della macchina a vapore contrastano violentemente con la quiete che domina le città degli altipiani».
Ciononostante l’aspetto prospero di queste città coesisteva con un’immagine di estremo primitivismo. L’urbanistica era irregolare, le costruzioni erano, per la maggior parte, capanni di legno e paglia piuttosto che edifici di mattone e anche quei pochi che c’erano erano estremamente sommari, costruiti nell’urgenza di risolvere il problema del tetto; i terreni incolti arrivavano in pieno centro e tutte le attività erano di solito concentrate lungo due o tre vie, oppure in un’agglomerazione costruita nei dintorni del porto o della stazione ferroviaria. Qualcosa di simile accadeva anche nelle città e nei villaggi della frontiera, nonché negli insediamenti che nascevano lungo il tracciato delle ferrovie, crescendo attorno ad un precario emporio, solitamente collocato di fronte alla stazione.
Grazie alla spinta della nuova economia e delle nuove situazioni sociali, le città che modificarono maggiormente la propria fisionomia, nell’intenso mezzo secolo successivo all’indipendenza, poterono progredire. L’economia regionale andò concentrandosi in alcune città, in alcune capitali amministrative e in alcuni porti. Le capitali che erano, al tempo stesso, porti, come Buenos Aires, Montevideo e Rio de Janeiro, godettero dei maggiori vantaggi. Univano infatti dinamismo economico e influenza politica, concentrazione della ricchezza e, almeno in alcuni casi, aspirazioni modernizzatrici alimentate da particolari gruppi. I porti riprodussero l’immagine dell’incremento del traffico commerciale. Panamá incominciò ad uscire dalla sua prostrazione quando, nel 1855, si trovò ad essere collegata per ferrovia al porto atlantico di Colón e, ben presto, cambiò faccia grazie al folto contingente nordamericano che vi si installò. Guayaquil e El Callao crescevano lentamente, benché quest’ultimo disponesse, fin dal 1851, di un collegamento ferroviario con Lima.
Tuttavia, il porto del Pacifico che crebbe maggiormente e che più rapidamente si trasformò in una città moderna fu Valparaíso che raccolse i frutti dell’attivazione economica resa possibile nell’area pacifica dalle scoperte aurifere della California e dell’Australia. Santiago, che pure era complessivamente più grande, non nascose mai il proprio risentimento per il porto che, come avrebbe detto Blest Gana, voleva «essere più importante e considerato della stessa capitale della Repubblica»; ciononostante, mano a mano che l’anfiteatro montuoso che delimitava la baia andava popolandosi, Valparaíso assumeva un’aria sempre più vivace e pittoresca. Le descrizioni della città di Wood, Fisquet e Lafond de Lurcy evidenziavano soprattutto questo aspetto, anche se le prime fotografie preferivano restituire l’immagine di una città in via di modernizzazione, con l’aristocratico hotel Aubry nella calle de la Aduana, quasi altrettanto elegante dell’hotel Pharoux di Rio de Janeiro. Intorno al 1856 Valparaíso aveva ormai cinquantamila abitanti e vent’anni dopo raggiungeva i novantasettemila. Un’intensa attività commerciale dava lavoro a molta gente. Max Radiguet scriveva, nel 1847: «La piazza della Dogana, aperta sul litorale, è il centro di questa attività e di questa frenetica animazione che evidenzia quanto siano numerose ed importanti le transazioni commerciali: solamente lì si possono trovare enormi cumuli di merci coperte ed imballate, barili di ogni forma e dimensione, grandi casse vistosamente dipinte e piene di segni strani ed ineguali, frutto della paziente fatica di un pittore cinese». Nonostante questa vitalità Valparaíso si trovava allora soltanto all’inizio delle proprie fortune. Le esportazioni di grano, specialmente in direzione della California, avevano rinvigorito il commercio della città, determinando una parallela crescita delle importazioni e quintuplicando le entrate della dogana nel periodo compreso tra il 1841 e il 1870. Il viavai delle merci cresceva in porto e anche il commercio interno divenne più intenso e più snello con l’inaugurazione, avvenuta nel 1863, della ferrovia che univa Valparaíso a Santiago. Una notevole trasformazione urbana accompagnò questa fase di splendore economico. La zona del porto aveva mantenuto il proprio collegamento con il quartiere del Almendral (mandorleto), dando origine ad un compatto fronte di edifici. Alcune nuove costruzioni modificarono l’aspetto del centro, mentre El Almendral si trasformava in un quartiere di belle case, abitate in prevalenza da commercianti stranieri. Alberghi, agenzie d’affari e banche trovarono la loro sede lungo la stretta calle della Dogana, oggi calle Prat, attorno alla quale si conservavano a mala pena poche vestigia dell’antica città coloniale.
Rio de Janeiro fu la prima città latinoamericana a subire importanti trasformazioni nella propria fisionomia, a cominciare dai primi decenni del secolo. L’improvviso arrivo del reggente del Portogallo Giovanni VI, che giunse nel 1808 fuggendo i Francesi e ponendosi sotto la protezione della flotta britannica, trasformò repentinamente la sonnolenta capitale vicereale in una vera e propria corte, senza che questa fosse naturalmente pronta per una simile eventualità. Dare alloggio alla famiglia reale e alle quindicimila persone del seguito fu un problema difficile che potè essere risolto soltanto grazie ad una trasformazione funzionale del centro cittadino. Il palazzo vicereale, il convento delle carmelitane e il carcere furono adibiti, senza altre modifiche che quelle imprescindibili, a residenze della corte; tuttavia a partire da questo momento tutto incominciò gradualmente a modificarsi. I nobili portoghesi imposero le proprie necessità e contribuirono così a dare inizio al cambiamento. Senz’altro maggiore fu però il contributo dei commercianti inglesi e francesi che si dedicarono a soddisfare queste necessità, approfittando della apertura dei porti. Nel volgere di poco tempo, la Rua do Ouvidor divenne un ricco e vario espositore ed una vetrina di prodotti stranieri davanti alla quale si riunivano in improvvisati capannelli i più eleganti esponenti della classe alta.
Ben presto l’aspetto edilizio di Rio incominciò a cambiare. Il reggente ricevette in dono una lussuosa residenza campestre nei dintorni della città e trasferitovisi, la denominò Boa Vista (belvedere) e dispose che si migliorassero le strade che la collegavano alla città. La strada di collegamento, denominata Aterrado finì per dare il proprio nome al quartiere che, a poco a poco, incominciò ad essere caratterizzato dalla costruzione di nuovi palazzi che traevano il proprio prestigio dalla prossimità di quello reale. Nacque così la Cidade Nova, grazie alla quale il perimetro urbano si estese fino alla zona di San Cristoforo. Non fu però questa l’unica direttrice di espansione. Una fabbrica di polvere da sparo costruita in prossimità della laguna da Rodrigo de Freitas e il giardino botanico che il reggente fece nascere in prossimità di questa finirono per creare un altro polo di espansione che, con la progressiva urbanizzazione, originò i quartieri di Lagoa e Gávea. L’iniziativa dei nuovi residenti stranieri, diplomatici e commercianti, determinò la creazione di nuovi quartieri, sia lungo la costa, dove nacquero Glória, Flamengo e Botafogo, sia verso l’interno dove sorsero Laranjeiras e Tijuca.
Durante il periodo imperiale Rio de Janeiro raggiunse un certo splendore. Il suo sviluppo fu spontaneo, anche se in alcuni aspetti la sua trasformazione fu il risultato del lavoro urbanistico dei Francesi che si dedicarono con cura all’edificazione della città, grazie soprattutto all’opera di Auguste Grandjean de Montigny e di Auguste Glaziou. Costoro aprirono o ritracciarono strade, piazze e giardini e, ormai influenzati dall’opera del barone Haussmann a Parigi, arrivarono addirittura a pensare ad una modificazione della città tanto radicale da far sparire completamente l’originaria struttura coloniale. Qualcosa in questa direzione si era già fatto. La piazza del mercato, terminata nel 1841, rinnovò l’aspetto dell’intera zona, collegandosi alle opere che si stavano allora realizzando vicino al porto; la piazza dell’Acclamazione, precedentemente nominata Campo di Sant’Anna, si trasformò in un giardino francese. Durante il periodo imperiale vennero costruiti molti edifici, sia pubblici che privati, come il Teatro Reale di piazza Tiradentes, il Teatro Lirico, la chiesa della Candelaria, la Casa de la Moneda, da un lato e dall’altro, come quelli che si costruirono lungo l’Aterrado, nei dintorni del palazzo di Boa Vista; tra questi faceva spicco la residenza dell’amante del sovrano, marchesa de Santos, oltre naturalmente alle sontuose residenze Itamarati e Catete, fatte costruire da facoltosi latifondisti, rispettivamente nel 1854 e nel 1866.
Capitale imperiale e porto nel medesimo tempo, Rio de Janeiro manifestava una certa vitalità commerciale. Il visconte di Mauá intraprese numerose iniziative e si devono a lui l’inaugurazione del primo .circuito di illuminazione a gas e della prima ferrovia, avvenute entrambe nel 1854. Nonostante questo egli si rendeva perfettamente conto di quanto la sua città fosse modesta e provinciale, simile cioè a quella che successivamente Machado de Assis avrebbe evocato, non senza malinconia, nel suo romanzo Don Casmurro, e a quella che appare nelle descrizioni dell’austriaco Varrone e del francese Jean Baptiste Debret. Le prospettive di sviluppo erano legate al movimento che avrebbe potuto essere determinato dalle ferrovie che il Mauá sognava di costruire e che avrebbero dovuto spingersi fino alle zone produttive dell’interno. Inaugurando, in presenza dell’imperatore Pietro II, il primo ramo di collegamento egli ebbe a dire: «Per allora Rio de Janeiro diventerà un centro commerciale, industriale e finanziario dal quale si irradieranno energia e civiltà e che non avrà nulla da invidiare a nessun altro luogo del mondo».
Anche Messico fu, sia pure per pochi anni, capitale imperiale, quando Massimiliano e Carlotta occuparono il trono. Si trattò però di un trono instabile, minacciato dalla resistenza armata dei Messicani che lo consideravano il simbolo stesso dell’invasione. Non si diedero dunque le circostanze favorevoli perché ci si occupasse di dare alla capitale un lustro imperiale e soltanto il viale che univa la città vecchia al castello reale di Chapultepec finì per ricevere una qualche attenzione. Ciononostantequesta direttrice, prima con il nome di Paseo del Emperador e poi con quello di Paseo de la Reforma finì per indicare la direzione di espansione della città.
A metà del secolo XIX anche altre capitali incominciarono a modificare la propria fisionomia. Una maggiore stabilità politica e una certa ricchezza permisero alle classi alte ed ai governanti di darsi da fare per fornire alle città un nuovo aspetto che si accordasse con la loro importanza e soprattutto con le loro pretese di lusso, ispirate al modello, ormai divenuto ossessivo, della nuova Parigi. Non vi furono importanti rivoluzioni nella traccia urbanistica, ma in tutti i quartieri occupati dalla classe alta incominciarono a fare la loro comparsa le residenze con pretese di palazzo, commissionate dai più ricchi commercianti, dai latifondisti e dai capitalisti delle miniere. La tendenza alla citazione che si manifestava in alcuni paesi europei, fece sorgere nelle città latinoamericane palazzi neogotici e moreschi. In generale si può dire però che lo stile architettonicamente dominante fu una sorta di eclettismo francesizzante che corrispondeva perfettamente alle dominanti influenze in materia di gusto e di costumi.
Grazie alla prosperità di cui il Cile beneficiò nel periodo compreso tra il 1840 e il 1870, la classe ricca di Santiago raggiunse il grande splendore che potè riflettersi nei palazzotti o petit-hotels che i più potenti si fecero costruire. Gli Ossa ebbero il capriccio di possedere una casa che imitasse l’Alhambra. Henry Meiggs, nordamericano arricchitosi con gli appalti dei lavori pubblici, volle avere una casa di stampo bostoniano. Tuttavia la maggioranza finì per subire l’influenza francese: i Blanco Encalada, i Larraín Zañartu, i Concha y Toro, i Subercaseaux, i Cousiño. Le vecchie vie si vestirono della nuova architettura, benché dall’Alameda dove già c’era la casa degli Amunátegui fosse possibile vedere l’apertura di una nuova strada residenziale oltre la quale, verso sud, avevano già inizio nuovi baraccati, forse ancor più miseri di quelli che occupavano l’altra sponda del fiume Mapocho. Collocato all’interno della città il parco Cousiño costituì un piccolo capolavoro di giardinaggio francese, mentre Benjamin Vicuña Mackenna, storico e sindaco di Santiago, trasformò il recinto di Santa Lucia in un delizioso viale destinato al passeggio pubblico.
Soltanto dopo il 1870 cominciò ad essere avviata la lenta trasformazione di molte altre città. Alcuni centri si dotarono di illuminazione a gas, introdussero i tram a cavalli, perfezionarono i sistemi di approvvigionamento, incominciarono a pavimentare alcune strade e migliorarono i servizi di sicurezza. La crescita della popolazione si tradusse in una dilatazione degli antichi sobborghi e nella costituzione di nuovi quartieri periferici. La stazione ferroviaria fu, al pari dei porti, un nucleo di singolare importanza per lo sviluppo della città, mentre il torbido mondo del gioco e della prostituzione finì per stimolare lo sviluppo di altri focolai di popolamento, ai margini della cerchia urbana. Mercati e macelli attrassero una composita popolazione in una zona vicino alla quale veniva di solito segnalato il limite che divideva la città dalla campagna. Questo piccolo mondo venne descritto nel 1858 dal cileno José Antonio Torres nel romanzo Los misterios de Santiago, palese imitazione della narrativa di Eugène Sue.
Alcune di queste città accelerarono la propria trasformazione. Caracas modificò in parte la propria fisionomia, all’epoca di Guzmán Blanco, grazie alla costruzione del Campidoglio, della facciata neogotica dell’Università e della ristrutturazione urbanistica di piazza Bolívar. Sarmiento incorporò alla città di Buenos Aires il parco di Palermo, tracciato sui terreni della residenza di Rosas. San Paolo incominciò proprio in questo periodo a subire una rapida trasformazione. Intorno al 1860, il viaggiatore francese Auguste Emile Zaluar rilevava il contraddittorio aspetto della città, dove, nonostante il crescente sviluppo commerciale che si avvertiva in conseguenza della ricchezza dovuta alle piantagioni di caffè della regione, lo spirito urbano sembrava essere incarnato dal mondo studentesco e dalla Facoltà di Diritto. Zaluar scrive: «Si tolga l’Accademia da San Paolo e questo centro morirà di abulia. Priva di lavoro e di grandi industrie, la capitale della provincia, smettendendo di essere ciò che è, smetterà anche di esistere». Ciononostante San Paolo ebbe una rapida evoluzione dopo il 1870. Smise di essere la città degli studenti per trasformarsi nella capitale del caffè. A dispetto dell’opinione di alcuni, la creazione della rete ferroviaria che unì San Paolo a Rio de Janeiro e al porto di Santos finì per rafforzare la posizione della città. Nel 1872 fece la sua comparsa l’industria tessile e i ricchi latifondisti dell’interno si installarono in città e costruirono delle buone residenze. La fisionomia delle strade e delle piazze incominciò a cambiare a tal punto che fu possibile parlare di una seconda fondazione della città; a differenza di quanto accadde in Caracas, il processo una volta avviato non si fermò.
Per quanto riguarda Lima, il viaggiatore francese Edmond Cotteau scriveva nel 1878: «Le fortificazioni di Lima sono state di recente demolite e sostituite da nuove strade; tuttavia tutti i nuovi quartieri vengono costruiti molto lentamente: la crisi commerciale e monetaria che il Perù sta attraversando paralizza infatti ogni iniziativa imprenditoriale». Il progetto di modernizzazione del presidente Balta, incoraggiato dalle iniziative dell’impresario nordamericano Henry Meiggs, determinò la distruzione delle fortificazioni nel periodo compreso tra il 1869 e il 1871 e stabilì la costruzione del ponte di ferro sul Rimac; le possibilità di sviluppo non furono tuttavia immediate e ancor meno vennero colte dopo la guerra e l’occupazione della città da parte delle truppe cilene. Qualcosa di simile era già avvenuto in precedenza a Montevideo. Distrutte le fortificazioni dopo il 1829, alla città vecchia era venuta ad aggiungersi la così detta città nuova, nella quale una piazza per il mercato e un’arteria principale, intitolata al 18 di luglio, davano ordine ad una scacchiera urbanistica progettata nel 1836 e destinata a riempire le zone inutilizzate dell’area urbana. Nel corso di pochi anni incominciarono ad essere costruiti in quella zona alcuni edifici, ma lo scoppio della guerra e la posizione della città la trasformarono in campo di battaglia per tutto il periodo compreso tra il 1843 e il 1851, rallentandone lo sviluppo. Altri nuclei urbani avevano nel frattempo fatto la loro comparsa in tutta la zona circostante: Villa del Cerro, la futura Cosmopoli, Villa della Restaurazione, poi ribattezzata La Unión, Cerrito de la Victoria e Buceo. Questi e altri centri incominciarono a collegarsi tra loro dopo la pace del 1851 e a svilupparsi grazie all’immigrazione. Non mancarono costruzioni di grandi pretese, come il teatro Solís, costruito nel 1856, e il Mercato dell’Abbondanza, inaugurato nel 1859. Tuttavia, ancora nel periodo successivo l’instabilità politica rallentò lo sviluppo urbano e i panorami della città dipinti da Théodore Fisquet nel 1836 e da Adolphe D’Hastrel nel 1840 continuavano dunque a riflettere abbastanza fedelmente la fisionomia tradizionale dell’area urbana.
Apertesi all’influenza straniera, le città latinoamericane incominciarono a trasformarsi non appena i processi sociali acquisirono un certa stabilità e la ricchezza incominciò a crescere: le società patrizie si preoccuparono molto per imprimere nelle nuove città la propria vocazione di legittima aristocrazia, radicata nella tradizione nazionale ed inserita nella cornice della civiltà europea, della quale venne imitata ogni cosa, dai modelli architettonici fino all’abitudine di prendere il té. Nonostante questo però, le forme di vita furono prevalentemente creole per tutto l’abbondante mezzo secolo che seguì l’indipendenza. Quando i costumi europei vennero definitivamente fatti propri dalle classi alte l’antico patriziato aveva ormai ceduto il posto ad una nuova generazione e ad una nuova classe.
Una convivenza creola
Centri di irradiazione delle madrepatrie, le città latinoamericane riprodussero per tutto il periodo coloniale le forme di vita ispanolusitane e le alternarono al ritmo dei cambiamenti subiti dalle rispettive società. Sia pure impercettibilmente, le forme di vita tendevano, nelle città, a diventare creole, a causa delle influenze indirette esercitate in tal senso dall’ambiente. Le convenzioni, gli usi e le forme della società nobiliare continuavano a persistere, ma molte cose alteravano l’artificiosa situazione dei privilegiati, specie attraverso quegli strati dell’antica élite che le circostanze allontanavano dal proprio microcosmo e mettevano a contatto con la nuova società. Ciò avvenne, in particolar modo, nel rapporto con gli schiavi e i servitori ed ebbe per questo un rilievo molto maggiore in campagna che non in città. Quando l’indipendenza spezzò i vincoli della società tradizionale, i gruppi urbani incominciarono a subire un processo di ruralizzazione ed inevitabilmente le forme di vita e di convivenza finirono per assumere l’aspetto creolo dei nuclei rurali che si andavano inurbando.
Il processo di ruralizzazione non fu omogeneo né per intensità né per ritmo. Le città di provincia, coinvolte assai presto nell’atmosfera campestre, percepirono a mala pena l’accentuarsi di questa influenza nel periodo successivo all’emancipazione. La cosa risultò molto più percepibile in quei centri che più avevano mantenuto viva la tradizione urbana peninsulare; in essi, subito dopo l’indipendenza, i gruppi rurali mobilitati dalla frattura politica si incontrarono con i gruppi, appena giunti, dei commercianti inglesi e francesi. I rurali sconvolsero da cima a fondo gli equilibri della società urbana: entrarono a far parte del potentato dei nuovi signori e in alcuni casi ricoprirono importanti incarichi politici e fecero fortuna; la maggior parte, tuttavia, si inserì all’interno delle classi popolari, dando loro alcuni caratteri che non appartenevano alla tradizione degli antichi ceti subalterni, formati da indios, meticci e schiavi di colore.
Queste trasformazioni risultarono evidenti nella Caracas di Páez e dei Monagas, oltre che nei casi di Montevideo, Città del Messico e Veracruz. Tuttavia, più che in qualsiasi altra città, il processo si manifestò a Buenos Aires, il cui ambiente ci viene descritto, per quanto riguarda l’epoca di Rosas, con passione politica, ma non senza tinte efficaci ed appropriate, dal romanzo Amalia di José Mármol. Le classi dominanti erano creole e campagnole, anche se subivano il fascino dei costumi europei. Questo strano contrasto fu colto e trascritto dal viaggiatore Marmier, nel corso del 1850; vale la pena di soffermarsi sul suo racconto: «Per aiutarmi ad esporre alcune immagini della vita quotidiana, il lettore potrebbe immaginare di accompagnarmi per un po’, nel corso di una passeggiata a piedi lungo le vie della città. Entriamo in via Perù: a destra e a sinistra si possono vedere il lusso e l’artigianato di Francia: mobili, gioie, botteghe di barbieri, sete da poco giunte da Lione, cinture di Saint-Etienne e, naturalmente, l’ultimo grido in fatto di vestiti e di cappelli. Dietro una finestra con le inferriate una ragazza prepara una ghirlanda di fiori finti che potrebbe benissimo fare la sua figura in un negozio del quartiere di Saint-Germain; un sarto sta mettendo in vetrina l’ultimo modello ritagliato dal Journal des Modes, arrivato proprio ieri col bastimento da Le Havre e che da domani sarà sulla bocca di tutti gli elegantoni; un libraio allinea con cura sui suoi scaffali una collana di libri e sarebbe certamente perplesso se qualcuno gli chiedesse le opere di Garcilaso de la Vega o di qualche altro storico spagnolo dell’antichità, dato che ha sempre sottomano i romanzi di Dumas e di Sandeau e le poesie di Alfred de Musset: si potrebbe credere di essere in un angolo di Parigi o in una stampa della Rue Vivienne. Infatti, è proprio così, anche se si tratta di una copia nella quale compaiono numerosi panciotti di colore scarlatto, simili a quelli che si potevano vedere a Parigi subito dopo la nostra famosa rivoluzione di febbraio».
«Ora svoltiamo e, fatto un giro, attraversiamo la zona del commercio inglese dove si trova la bottega dell’acuto Favier, che sa fare con la stessa delicatezza di tocco i ritratti ad olio ed i dagherrotipi. In questo modo arriviamo fino al municipio, al posto di polizia e alle carceri della città. La scena cambia all’improvviso. Eravamo in Europa ed ora siamo nel cuore di un’America primitiva, nella regione delle pampas: sotto i portici fanno capannello i soldati, che non somigliano per nulla a quelli europei; ce ne sono di negri e di bianchi, con e senza uniforme, dato che mentre qualcuno porta un poncho indigeno, qualcun altro comprime la propria corporatura entro una striminzita giubba inglese. Vi è chi si copre il capo con un fazzoletto, chi con un berretto a cilindro, chi con un cappello rotondo. Da questo punto di vista vi è la più completa libertà; se non vado errato vi è un solo punto dell’intera uniforme nel quale tutti paiono essere tenuti a rispettare un ordine stabilito, cioè nel portare i pantaloni senz’orlo e nell’andarsene in giro a piedi scalzi; mi pare che, per quanto riguarda le truppe di Rosas, sia possibile distinguere i gradi guardando le estremità inferiori del corpo: i soldati sono scalzi, i sergenti hanno gli stivaletti, gli ufficiali gli stivali di cuoio grezzo ed i generali gli stivaloni di vernice. Questo modo di distinguere la gerarchia militare mi sembra più rispettoso di quello in uso da noi; costringe infatti il subalterno a tenere gli occhi bassi, per sapere quale sia il grado del suo superiore».
«Sono assai curiose la trascuratezza e la poltroneria con la quale questi difensori della patria montano la guardia e portano le armi. Proprio mentre li osservo, si ode uno scalpitio dalla parte della strada e un cavallo giunto al galoppo, si ferma sotto l’imperioso comando della mano del cavaliere, proprio come se le sue zampe si fossero inchiodate al suolo. E un cavallo da fattoria ed è montato da un gaucho. Questi è infatti il vero soldato dell’America del Sud: un figlio della pampa di virile bellezza».
Il viaggiatore, dopo avere descritto accuratamente l’abbigliamento del gaucho e le sue abitudini, tratteggia il tipico ambiente delle piazze dei carri e ritrae il tipo del carrettiere, chiuso nella sua concezione della vita, immerso nel suo mondo rurale, nonostante viva ormai ai margini della città; a costui non capita mai di vedere «l’obelisco di piazza della Vittoria o le meraviglie di via Perù»; il narratore termina dicendo: «gauchos e carrettieri, ecco la parte più pittoresca del popolo di Buenos Aires, anche se, naturalmente, ci sono altri aspetti, dato che la città ha centoventimila abitanti, la metà dei quali è composta da stranieri di varia nazionalità». Questa era la Buenos Aires di Rosas, europea e gaucha nel medesimo tempo, modello estremo della trasformazione provocata dal periodo rivoluzionario, in forma più o meno accentuata, in un certo numero di città latinoamericane.
Allo sradicamento delle forme di vita e di convivenza tradizionali dovette seguire uno strano amalgama di influenze rurali e anglofrancesi. Vi furono, ovviamente, i sostenitori, a volte aggressivi e fanatici, delle une e delle altre. Vi furono però anche coloro che accettarono entrambe le influenze e che, facendole proprie, diedero origine a combinazioni curiose che colpirono gli osservatori e suscitarono, talvolta, la loro ironia; nonostante questo, passò proprio di qui il laborioso sviluppo della convivenza all’interno delle grandi città, delle capitali e dei porti, nel periodo in cui la tradizione peninsulare e ruralizzata dominava, senza incontrare ostacoli, le città che erano rimaste ai margini dell’influenzà e della penetrazione anglo-francesi.
A proposito del trascurato modo di vestire delle donne messicane, la marchesa Calderón de la Barca annotava: «Quest’indolenza sta certamente passando di moda, specie tra i giovani della buona società, probabilmente a causa del loro più frequente contatto con gli stranieri, benché è probabile che debba passare ancora molto tempo prima che la mattinata domestica possa smettere di essere considerata, per tempo e luogo, la sede più idonea per andarsene in giro mal vestite. Nonostante questo mi è capitato di fare molte visite nelle quali ho trovato l’intera famiglia assai ben sistemata e ordinata; ho potuto tuttavia rendermi conto che in questi casi i padri e, cosa ancor più significativa, le madri hanno viaggiato in Europa e al loro ritorno hanno instaurato un nuovo sistema di vita». A molti esponenti delle nuove classi alte pareva importante conservare la tradizione creola in materia di abbigliamento, di alimentazione, di devozione e di feste. Perché le nuove nazioni potessero consolidare la propria identità sembrava necessario conservare la tradizione jarocha (contadina) a Veracruz e quella gaucha a Buenos Aires. Sulle tavole del 1840, rievocate dall’argentino Santiago Calzadilla, tutto era ancora creolo e il menu «non lo si conosceva neanche di nome». A quei tempi «neppure si camminava alla francese […], ma si camminava alla creola», secondo un’abitudine che, dal canto suo, un personaggio del Don Casmurro di Machado de Assis criticava, parlando di Rio de Janeiro. Nonostante questo, Calzadilla stesso si compiaceva, altrove, di immaginare il quartiere meridionale come una specie di Saint-Germain, dicendo: «Mi piace, come è ovvio, il mate, ma ancor più mi va a genio il cognac, che mette a posto lo stomaco dopo che si è mangiato un arrosto di bue, cucinato secondo i costumi tradizionali di queste parti».
Da questa contraddizione non si sarebbe potuti uscire fino agli ultimi decenni del secolo, quando le usanze esterofile sconfissero quelle della tradizione creola, trasformandole in vezzose vestigia nostalgiche. Però, nel periodo compreso tra l’indipendenza e questi anni, le nuove società vissero all’interno della contraddizione, elaborando successive combinazioni. A Bogotá si era soliti distinguere tra uomini di mantello e uomini di livrea, secondo una partizione indubitabilmente sociale, ma legata anche a due diversi stili di vita. La contraddizione divenne più evidente dal punto di vista degli uomini di livrea che in alcuni casi erano stati uomini di mantello fino a pochissimo tempo prima. Se una certa ideologia nazionalista spingeva queste persone a conservare e ad accentuare le tradizioni creole, le condizioni di vita proprie della classe alta inducevano però all’adozione di mode e costumi stranieri. L’arrivo a Bogotá di Madame Gautron, prima modista francese, giunta nel decennio del 1840, rappresentò un fatto importante nella vita della città, anche se qualcosa di analogo era già avvenuto in molte città a partire da quando le prime sartorie francesi si erano stabilite a Rio de Janeiro in via Ouvidor. Il pensatore argentino Juan Bautista Alberdi si compiaceva di occuparsi di moda al punto che un periodico da lui fondato si chiamò proprio La Moda; con lo pseudonimo di Figarillo egli giunse al punto di diffondere le ultime novità provenienti da Parigi, che desiderava mettessero radici a Montevideo e Buenos Aires.
Pretenziose abitazioni, progettate a volte da architetti francesi, divennero la residenza delle famiglie che volevano ostentare la propria ricchezza. In esse avrebbe fatto la sua comparsa il lusso, fenomeno che attirò l’attenzione degli osservatori e la severa critica dei moralisti, anche se, per molto tempo, esso rappresentò un’eccezione nella cerchia delle famiglie tradizionali. Intorno al 1860, il romanziere peruviano Luis Benjamin Cisneros lo avrebbe condannato nelle sue opere, quando ancora il fenomeno era agli albori. Fino ad allora il modello di vita dominante era stato quello creolo che lo stesso Cisneros aveva, con acume, descritto nel suo romanzo Julia, con un lungo excursus moraleggiante: «La rapidità con la quale individui e famiglie intere raggiungono da noi la più stretta amicizia e la più completa confidenza è una qualità innata del carattere nazionale.
Ad essa lo straniero che giunga sconosciuto alla nostra porta deve la considerazione, le attenzioni e la benevolenza dalla quale viene immediatamente circondato. Da questa qualità hanno origine le più stupefacenti peculiarità della nostra vita sociale. Parlo dei tratti distintivi della nostra vita privata cioè delle nostre relazioni tra famiglia e famiglia, persona e persona. La necessità di mostrarsi espansivi, le simpatie istintive, gli attaccamenti improvvisati ma sinceri, le confidenze ingenue e reciproche, le sollecite attenzioni, il generale desiderio di far del bene, lo spirito di carità che caratterizza le famiglie, tutto questo insieme costituisce presso di noi il nucleo di una certa vita, per così dire, di cuore, che non sempre si trova in altri popoli della terra. Quelli di noi che, nati all’interno della nostra società, si sono trovati un giorno ad essere trasferiti nell’enorme e frenetico mulinare delle grandi città moderne, hanno potuto rendersi conto del vuoto che queste società lasciano per quanto riguarda i sentimenti più intimi, costringendo a viverli in solitudine e senza affetti disinteressati, con il cuore inaridito come un deserto; per questo siamo gli unici che possono veramente apprezzare tutta la dolcezza e tutto l’incanto della nostra vita affettuosa». In questa atmosfera, tipica delle città patrizie, incominciò a profilarsi, come un miraggio, non soltanto la tentazione delle mode e degli oggetti stranieri, ma anche un nuovo modo di intendere l’esistenza.
Gli autori del costumbrismo trovarono un nuovo e vasto campo di osservazione in queste società che cercavano la propria fisionomia tra il vecchio e un nuovo che era anch’esso vecchio, cioè tra la tradizione creola e le mode esterofile. Nel suo romanzo Las tres tazas José María Vergara y Vergara datava alcune trasformazioni apparentemente insignificanti ma, in realtà, significative avvenute nei caffè frequentati dalla società di Bogotá: nel 1813 si beveva il cioccolato, nel 1848 il caffè, nel 1865 il the. Il circolo da caffè era una forma tradizionale della vita associata latinoamericana, anche se nel suo seno andarono formandosi i nuovi usi, con tutte le loro conseguenze. Figarillo descriveva in genere i circoli di Buenos Aires e di Montevideo, ma furono pochissimi tra i romanzieri di quel periodo quelli capaci di resistere alla tentazione di descrivere i circoli della propria città, con i loro caratteristici personaggi, ben inseriti nelle convenzioni locali: Cisneros ritrae i circoli di Lima, Cuéllar quelli di Messico, María Nieves quelli di Arequipa, Blest Gana quelli di Santiago, differenziati tra loro a seconda delle varie classi sociali. Lo scrittore regionalista sottolineava i tratti caratteristici dell’ambiente, i piccoli dettagli del comportamento, il vestiario, le bibite e le prelibatezze che venivano offerte. La stessa procedura analitica veniva utilizzata per la descrizione delle feste. L’argentino José Mármol sottolineava in Amalia i tratti caratteristici della società che partecipava ad un ballo offerto dal governatore Rosas: «Si ballava in silenzio. I militari della nuova epoca, impiccati nelle loro giubbe coi bottoni, con le mani intorpidite dai guanti stretti, sudando di dolore a causa degli stivaloni nuovi, non potevano certo immaginare che ad un ballo si potesse partecipare senza essere molto tristi e molto tesi. I giovani cittadini, tipici prodotti della nuova gerarchia sociale creata dal Restauratore delle Leggi, pensavano, con tutta la buona fede del mondo, che non vi potesse essere nulla di più elegante e cortese che andarsene in giro distribuendo dolcetti e biscottini alle signore. Da ultimo, c’erano le dame, alcune delle quali erano lì per incarico dei loro mariti; erano le dame unitarias. Le altre apparivano infastidite per il fatto di non incontrare che persone della loro stessa cerchia; erano le dame federales, tutte di pessimo umore, chi per dispetto, chi per gelosia». Dal canto suo, il colombiano Cordovez Moure aveva un ricordo del ballo offerto a Popayán da José Maria Mosquera, «patriarca della città», in onore di Bolívar; in quell’occasione il Libertador obbligò una delle giovani patrizie a ballare con il colonnello Carvajal, negro degli altipiani, vestito da ussaro polacco; l’autore ricorda anche il ballo che alcuni nobili di Bogotá offrirono nel 1852, nel corso del quale venne introdotto, per la prima volta, « l’uso di predisporre delle sale da trucco fornite di tutto il necessario, a beneficio delle signore che potessero averne bisogno»; in questa occasione partecipò alla festa anche il Presidente della Repubblica e si dimostrò tanto brillante che Mister Goschen, ricco membro del parlamento inglese, di passaggio in città, disse che «gli sembrava di partecipare ad un ballo di corte offerto dalla sua regina». Cordovez Moure aggiunse che questa osservazione venne proferita «con la franchezza che è propria degli Inglesi».
Proprio gli Inglesi organizzarono, nel 1840, il ballo al palazzo delle Miniere al quale ebbe modo di assistere la marchesa Calderón de la Barca, che ebbe a scriverne: «Per quanto riguarda i gioielli, nessuna tra le dame straniere potrebbe azzardarsi a competere con le signore locali, anche se molti vestiti avevano un taglio eccessivo, difetto assai frequente in Messico, e molti altri, pur essendo stupendi, erano ormai fuori moda». D’altro canto in Cile fu un nordamericano, l’audace imprenditore Henry Meiggs, che, nel 1866, offrì il meraviglioso ballo che ebbe come scenario la sua lussuosa residenza, circondata da giardini e posta sull’Alameda di Santiago. Benjamín Vicuña Mackenna vide in quell’occasione una società senza macchia, ben diversa, certamente, da quella che, solo pochi anni prima, Blest Gana aveva tratteggiato nei balli da lui descritti nei suoi famosi romanzi El ideal de un calavera e Martín Rivas; in questi c’erano infatti i «sentimentaloni», i «pidocchiosi» e, soprattutto, i «gagá», ai quali «poche donne sanno resistere e che nei loro discorsi parlano nientemeno che di migliaia e migliaia di pesos. Sono andati o devono andare in Europa e non si tirano mai indietro se c’è da dire una stupidaggine», poiché, come maliziosamente osservava il narratore, « in ogni riunione di uomini è sempre possibile trovare esseri più curiosi che al giardino zoologico più fornito».
Il teatro e i luoghi di villeggiatura come, ad esempio, Chorrillos per gli abitanti di Lima, erano altri tipici ambiti di esibizione per le classi superiori. Come nei circoli da caffè e nei balli, era possibile osservare a teatro ciò che non sfuggì a nessun autore costumbrista, cioè la progressiva tendenza allo sfarzo. Per le società creole tale tendenza era tutt’altro che naturale ed era, anzi, un’imitazione delle forme di vita che incominciavano a costituirsi in Europa sotto la spinta dello sviluppo industriale e a causa della nascita delle prime grandi metropoli. In realtà, si trattava semplicemente di un’imitazione delle forme di vita proprie della nuova borghesia parigina, quelle stesse che si erano venute delineando ai tempi di Luigi Filippo e che avevano trovato la loro consacrazione con Napoleóne III. Tuttavia non ogni forma di lusso né ogni tipo di ostentazione aveva le stesse caratteristiche. Verso la metà del secolo permaneva in America latina l’antico lusso coloniale, che dominava la vita di molte famiglie più o meno nobili e che si esprimeva anche nelle forme che Flora Tristán potè osservare nel convento di Santa Catalina in Arequipa. Il lusso creolo del periodo successivo alla rivoluzione si collegò a questo stesso ceppo e, essendo modesto e un po’ rozzo, si collegò anche alle abitudini ed ai costumi patriarcali della vita rustica. Invece, il nuovo lusso che incominciò a diffondersi nelle città più ricche in questo periodo fu il risultato del deliberato intento del nuovo patriziato di mostrarsi come parte dell’opulento mondo delle nuove borghesie europee, percepite attraverso la mediazione del modello parigino. Si imitavano alcune abitudini ed alcune mode, ma dovette passare molto tempo prima che tutto questo modificasse l’immagine dello stile di vita creolo che si era sviluppato nel periodo successivo all’indipendenza. Si trattava dunque di un lusso privo di stile, incoerentemente ostentato mediante una forma di vita che, se pure aveva uno stile, manifestava col suo predominio la pura e semplice imposizione dell’elemento straniero.
Vecchi arricchiti, giovani eleganti e dame di facili costumi costituivano in alcune città un microcosmo frivolo che incominciava a crearsi uno spazio entro le strette maglie della società tradizionale. Erano questi «i figli del piacere», come li definiva in Ensalada de pollos José T. Cuéllar, riferendosi in particolare a coloro che incominciavano e finivano i propri stravizi al caffè di Fulcheri, celebre locale messicano nel quale il cibo sembrava essere tratto da una «cena», quasi pompeiana, del Café des Anglais di Parigi. Il tipo del «pollo» messicano, quello del cachaco a Bogotá e, in tutte le altre città, quello del «gagá» che aveva viaggiato in Europa e non poteva liberarsi dell’impressione provocatagli dallo splendore di Parigi, era tutt’uno, agli occhi del tradizionalista, con l’immagine dei giovani che cedevano all’irresistibile tentazione del lusso e che, come diceva Cuéllar, si comportavano come «le pazze parigine che sono solite passare dal palazzo al manicomio». Cercando le cause di tanta esterofilia, lo scrittore parlava « della straripante invasione della prostituzione parigina» e «del rimescolamento sociale dovuto al periodo di transizione nel quale ci si trovava». Dieci anni prima che Cuéllar scrivesse queste parole, il peruviano Luis Benjamín
Cisneros aveva diagnosticato, nel 1860, con il suo romanzo Julia, le cause del declino che sembrava incombere sulla società tradizionale: «Il lusso potrebbe ben essere definito la serpe dorata di questa società. Si è avviluppato al suo cuore e finirà per divorarlo. Non è più soltanto un’abitudine: è diventato una passione ed un vizio per le nostre famiglie. Il lusso inebria e attrae, provoca vertigine e febbre. La società nella quale viviamo è ormai giunta a questo punto. Non è più la passione per il lusso a dominare Lima, ma il desiderio di apparire».
Tuttavia, nonostante la sacrosanta indignazione dei moralisti, quel pericolo era allora soltanto agli albori. La società continuava ad essere creola anche se nelle nuove classi ricche di poche città incominciava ad essere percepibile la tendenza che avrebbe trionfato alcuni decenni più tardi. Lo stesso Cuéllar diceva: «Il velo è il più segreto specchio della donna messicana. Gli usi francesi sono andati tutti in mille pezzi di fronte all’uso di questo indispensabile ornamento, di fronte a questa accentuazione del carattere nazionale, di fronte a questo scialle delicato e caratteristico del Messico». Creolismo ed europeismo disputandosi il primato negli usi combattevano una lotta senza quartiere.
Il lusso europeizzante attrasse anche le classi medie, sia pure in minor misura. Se lo stile di vita creolo potè resistere al confronto con le influenze europee, ciò avvenne soprattutto grazie alla forza che ancora aveva presso le classi medie e popolari, anche se una società aperta, in cui i casi della politica e della fortuna permettevano l’ascesa di nuovi ricchi, finiva per fare delle classi medie una tappa di una possibile carriera, che, ad ogni gradino, si identificava con certe aspettative e, ancor più, con la loro parziale soddisfazione. Il siutico era, in Cile, il tipico rappresentante di questa situazione e Blest Gana ne fece una minuziosa analisi in Martín Rivas. Nel circolo del caffè frequentato dal personaggio, in via del Collegio, erano quasi tutti arricchiti «di mezza tacca», e avevano «quel non so che da cui ogni vero abitante di Santiago riconosce a prima vista gli uomini di mezza tacca». L’attento osservatore alternava nella sua descrizione i tratti di origine creola e quelli di importazione che la famiglia del protagonista, modesta e pretenziosa al tempo stesso, imitava guardando di continuo a coloro che avevano maggiori relazioni e ricchezze. In conclusione, descrivendo la fine della festa e il momento in cui erano ormai finite le bibite a base di volgare vinetta, l’autore commentava: «Alla messa in scena con cui, da principio, si erano accinti a copiare gli usi dell’alta società, subentrava ora un misto di confidenza e di lambiccato formalismo, cioè la tipica atmosfera di questo genere di riunioni. La gente che definiamo di mezza tacca, collocata tra una democrazia, che disprezza, e la gente bene, che di solito invidia e desidera imitare, presenta una curiosa mescolanza, nella quale i costumi popolari traspaiono adulterati dalla presunzione e accompagnati da una sorta di caricatura delle abitudini delle classi dominanti emulate nel tentativo di nascondere, con gli orpelli della ricchezza e delle buone maniere, una condizione ridicola».
Pochi anni dividono questo ballo da quello del colonnello e di donna Bartolita, che Cuéllar ritrae in Baile y cochino. Parlando della propria ambientazione lo scrittore ci dice di non averla scelta e aggiunge: «Esiste per disgrazia e non solo esiste, ma si moltiplica in Messico a causa della crisi della morale e dei buoni costumi. La crescente presenza del lusso tra le abitudini della classe media è infatti causa di sciagure». Subito dopo egli descrive il ballo del colonnello e di donna Bartolita, affollato di fanciulle del mondo dei nuovi ricchi, come le Machuca, e di «polli» eleganti, desiderosi di divertirsi e di ubriacarsi. Il lusso riesce però a mala pena a dissimulare il sostanziale primato delle antiche abitudini, che rifanno la loro comparsa non appena vien meno la trama convenzionalmente appresa. Non per nulla l’autore ci aveva avvertito, prima di dare inizio alla descrizione, che la padrona di casa era «assai sempliciotta e campagnola», mentre il marito era un colonnello che aveva appena «concluso un grosso affare». Si bevve cognac, ma vi fu anche chi scambiò l’acqua per pulque (alcolico fermentato).
In occasione delle feste pubbliche, patriottiche o religiose, tutti si incontravano; nelle città messicane c’era el día del Grito, in quelle colombiane si festeggiava il 20 luglio, in Brasile il 7 settembre, in Argentina il 25 maggio; dappertutto veniva festeggiato il giorno del Corpus Domini, quello del Signore dei Miracoli e quello della Vergine di Guadalupe. A proposito della moltitudine che si riuniva a Santiago per festeggiare il 18 settembre, Blest Gana ebbe a scrivere: «I vecchi costumi e le moderne usanze si assiepano per ogni dove, si sentono sorelle, si tollerano per le loro rispettive debolezze e raccolgono le proprie voci per Intonare gli inni della patria e della libertà». Si trattava però di casi eccezionali. Le classi alte e le classi medie benestanti erano solite stare alla larga dalle classi popolari, cioè dai miserabili che in Messico erano detti léperos, a Buenos Aires atorrantes e a Santiago rotos. Tutti costoro vivevano in quartieri separati e conservavano usanze proprie nelle quali era percepibile la grande forza della tradizione creola. Coloro che si ritenevano superiori vedevano nei quartieri popolari il covo dell’ignoranza, della rozzezza e, in sostanza, della povertà, anche se non mancavano di apprezzare la conservazione del patrimonio regionale. Le classi popolari continuavano infatti a praticare la cucina tipica, a vestirsi secondo la tradizione, a svolgere gli antichi mestieri e a pronunciare saggi proverbi nei quali veniva concentrata e razionalizzata una lunga esperienza della vita. Le feste popolari dei vari sobborghi venivano così frequentate dalle classi alte desiderose di ascoltare le canzoni del volgo e di assistere alle sue danze; benché nessuno di coloro che avevano una posizione sociale da difendere si sarebbe mai azzardato ad includere tali pezzi nel repertorio delle proprie feste, era tuttavia percepibile in questi una forza che mancava alle arie di moda delle opere italiane, alle polche e ai valzer che proprio allora andavano diffondendosi nei locali da ballo. E probabile che qualche sopravvivenza della tradizione peninsulare abbia funzionato da ponte tra questo passato ancor vivo e il fascino esercitato dall’altra Europa, cioè dal mondo non iberico.
Nelle città, le classi popolari passarono dalla miseria rurale a quella urbana, specialmente nei centri dove vi furono crescita demografica e incremento della ricchezza. Le classi popolari restarono confinate nei quartieri periferici e miserabili che finirono per costituire un mondo a parte, separato dal centro della città. A Buenos Aires ci voleva un certo coraggio per entrare nel quartiere negro del Tamburo. Percorrendo la strada che portava alla chiesa di Nostra Signora di Guadalupe, la marchesa Calderón de la Barca attraversò i sobborghi della capitale messicana e li trovò «poveri, diroccati, sporchi e con tali e tanti odori che, a malapena, possono essere cancellati dall’aroma dell’acqua di Colonia»; analoghe erano, nelle altre direzioni, le condizioni dei quartieri di San Pablo e di La Palma. Malambo a Lima, e Chimba a Santiago erano sobborghi tetri, costituiti da rudimentali baracche e sordidi tuguri, dove soltanto la convenzionale allegria dei postriboli e delle miserabili case da gioco interrompeva il generale quadro di miseria. Ad Otra Banda (Altra Parte) come era significativamente chiamato il quartiere popolare di Arequipa, o nel sobborgo di las Nieves a Bogotá, le classi più umili vivevano come se facessero parte di un mondo chiuso e separato. Sul ciglio dei dirupi e lungo i canali di scolo le classi popolari di Valparaíso costruivano le proprie capanne e nella Botafogo della Rio de Janeiro imperiale proliferavano i cortiços, cioè i dormitori. Uno di questi e, per cenni, un altro che gli faceva concorrenza, situato proprio di fronte, venne descritto da Aluizio de Azevedo nel romanzo intitolato, per l’appunto, O Cortiço: «Novantacinque capanne costituivano l’enorme complesso. Una volta terminate, Juan Román vi fece costruire davanti un muro alto dieci palmi, costellato nella parte superiore di frammenti di vetro e culi di bottiglia, con una grande porta centrale, dove venne collocato un lume coi cristalli colorati, posto sopra ad un’insegna sulla quale era possibile leggere il seguente messaggio, scritto con la vernice rossa e con qualche errore di ortografia: Affittacamere San Román, si fittano alloggi e tinozze da bagno». Azevedo aggiungeva, descrivendo i primi traffici della mattina: «In quel terreno fumigante e fangoso, in quell’umidità malsana e stagnante, un intero mondo incominciò a brulicare come un formicaio, a ribollire e a crescere come una cosa viva, una forma di vita che sembrava svilupparsi sua sponte in quel luogo, traendo le proprie energie da quel fango e moltiplicandosi come se fosse un lombrico in mezzo allo sterco». Italiani e Portoghesi vi si mescolavano con i Brasiliani fuggiti dalle fazendas formando famiglie ibride, all’interno delle quali confluivano tradizioni, usi e costumi assai diversi tra loro. Oltre che a Rio de Janeiro, la stessa cosa accadde anche in altre città del Brasile e dell’area spagnola: a Barranquilla, a Colón, a Panamá, a Veracruz. Peculiare fu il caso del quartiere della Boca di Buenos Aires, popolato quasi esclusivamente da genovesi che, per un lungo periodo di tempo, mantennero inalterati i propri usi e i propri costumi.
Anche i più poveri facevano però la loro comparsa nel centro delle città e nelle feste pubbliche, nelle corride dei tori e nelle areno dei galli, accostavano le persone per bene. Di norma però si riunivano tra loro nelle taverne e nelle osterie, chiamate, a seconda delle varie zone, chicherías (dal nome di una bevanda alcolica), picanterías o pulperías; questi locali erano disseminati in varie zone della città e se ne trovavano anche in centro, dato che le classi subalterne dovevano recarvisi per lavoro. Il regno del popolo restava ancora il mercato e la zona circostante, dove si ritrovavano coloro che dai quartieri periferici portavano al centro i loro prodotti per venderli. I prodotti venivano accatastati e venduti alla maniera tradizionale, spesso all’aria aperta e in alcuni casi in locali coperti, come il mercato della Concepción, terminato a Lima nel 1854, o quello dell’Abbondanza a Montevideo, terminato nel 1859. Le donne indigene, sedute a terra con le gambe incrociate stendevano davanti a sé un pezzo di stoffa e vi disponevano le frutta e le verdure, le carni e il pesce, ma, soprattutto, i piatti pronti, cucinati sepondo l’antico uso campagnolo, dietro il quale si celavano ancor più antiche abitudini indigene o creole; indipendentemente dal fascino esercitato dalla cucina straniera nelle classi alte, quasi nessuno se la sentiva di rinunciare ad un piatto tradizionale accompagnato da una bevanda tipica. Un piccolo mondo variopinto era solito circondare il mercato, facendolo debordare nelle strade limitrofe, affollate di punti di vendita stabili o da semplici venditori ambulanti che imbonivano seduti sui marciapiedi. Vicino al mercato della Concepción, c’era, a Lima, il quartiere cinese, del quale il viaggiatore tedesco Ernst Wilhelm Middendorf ebbe a scrivere nel 1876: «Tra eleganti negozi di gusto asiatico è possibile vedere miserabili e sudici chioschi, nei quali, in mezzo ad ogni genere di schifezze, si agitano pallidi e squallidi individui accovacciati; uno sgradevole odore di oppio riempie l’intero quartiere. I fondaci di questa parte del mercato sono completamente controllati dai cinesi e tutti i piatti vengono preparati e serviti alla maniera cinese». Meno esotici ma altrettanto variopinti erano i dintorni del mercato del Volador e di quello della Merced a Città del Messico; lo stesso accadeva presso i mercati delle città di provincia: ad Oaxaca, a Toluca, a Veracruz, a Puerto Cabello, a Barquisimeto, a Colón, a Bahía, a Copiapó.
Nei sobborghi, dove nessuno sapeva niente di nessuno e dove non si chiedeva conto al nuovo venuto del proprio passato, la delinquenza urbana aveva il proprio quartier generale. Nelle città più importanti venne organizzato, a poco a poco, un servizio di polizia, ma la sicurezza era comunque relativa. Furti, rapine e aggressioni che talvolta sconfinavano nel delitto, mantenevano costantemente in allarme i cittadini. I delinquenti che facevano irruzione nei centri urbani avevano i propri covi nei quartieri periferici e, a volte, fuori città; da lì organizzavano le loro attività illecite e le supportavano con altri illeciti come il gioco, lo sfruttamento della prostituzione e delle arene dei galli. Santiago de Marfil, un quartiere periferico di Guanajuato, acquistò tratti leggendari, analoghi, peraltro, a quelli che caratterizzavano i sobborghi di tutte le città minerarie. Tuttavia, persino nel cuore della città poteva fare la sua comparsa un «ladro gentiluomo», a capo di una banda di professionisti del furto, dedita ad operazioni su larga scala, sotto l’intelligente direzione della sua anima nera: fu, per esempio, il caso di un avvocato di Bogotá, il dottor José Raimundo Russi, che nel 1851 terrorizzò la città con la propria banda. Cordovez Moure, raccontando le imprese e la fine del famoso bandito ricorda che « ogni casa della città si era trasformata in una fortezza».
Le case del resto erano solite subire questo genere di metamorfosi anche per altri motivi. Centri politici per eccellenza, le città furono lo scenario principale delle lotte per il potere. Frequentemente, però, non furono altro che uno sfondo fisico, dato che la massa della popolazione non vi partecipava, ben sapendo che la disputa si svolgeva tra gruppi in armi che militavano a sostegno di questo o di quel candidato alla presidenza. Le capitali, in special modo, sapevano bene di essere il bottino predestinato del vincitore e l’angoscia finì per degenerare in una sorta di apatia qualunquistica. Il peruviano Felipe Pardo y Aliaga così descriveva la spontanea reazione della gente di fronte al pericolo:
Non appena c’è avvisaglia di razzia
gridano i cittadini: «Scappa via! »,
e strade e piazze, in meno d’un baleno,
come d’incanto restano deserte.
Non è poi strano che al principe venturo
le porte del Poter restino aperte,
se il cittadino non chiude che le sue
quando su Lima s’abbatte la tempesta.
Così si esprimeva Pardo y Aliaga a proposito della sensibilità politica degli abitanti di Lima. Non molto tempo prima, nel 1846, il venezuelano Juan Vicente González aveva deprecato Caracas, considerando compromesse le sorti della Repubblica, poiché «questo centro corrompe i costumi della gioventù, diventa sempre più effemminato a causa del vizio, crea e alimenta falsi bisogni che mandano in rovina i più poveri e, come una nuova Sibari, va in letargo e dorme, infastidendosi per ogni petalo di rosa che si muove, mentre invece dovrebbe dare esempio di frugalità, di amore per il lavoro e di patriottismo attivo e militante». Denunciando l’apatia politica della città, González concludeva: «Quando, egoista Caracas, avrai la tua parte di disgrazie?». Pochi anni dopo, rievocando la conclusione della guerra civile messicana del 1860, Justo Sierra scriveva in Evolución política del pueblo mexicano: «Messico, città reazionaria e clericale per eccellenza, Messico, che dai suoi balconi e dalle sue finistre aveva applaudito tutte le vittorie di Miramón e di Márques, Messico, che in ciascuna delle sacrileghe festività della guerra civile aveva riversato per le vie del centro una moltitudine di artigiani e di miserabili, venuti apposta dagli squallidi e luridi quartieri della periferia, cresciuti nel lungo cono d’ombra dei colossali conventi della capitale, per saltare sul carro del vincitore, gridando e fischiando per l’entusiasmo e approfittando della gran confusione di aste e bandiere per rubare orologi e fazzoletti, Messico, dicevo, salutò con una specie di delirio l’ingresso dell’esercito riformatore di González Ortega. Non era una città clericale, era soltanto cattolica e la guerra civile aveva finito per provocare una generale indifferenza, dato che tutto ciò che non era pace non poteva che essere esazione crudele, non poteva significare altro se non che il già misero prodotto del lavoro non solo veniva brutalmente espropriato, ma veniva letteralmente rubato dagli agenti del fisco, mentre la leva sanguisuga sottraeva in continuazione gli uomini validi alle famiglie e alle officine per metterli di sentinella nelle armerie delle caserme o mandarli al macello sui campi di battaglia. Pace, questo era il grido comune a tutti, il voto unanime del popolino in piazza e della borghesia affacciata ai balconi e alle finestre». Le città erano lo scenario della lotta per il potere, ma sulla scena vera e propria recitavano in pochi e i più si sentivano estranei al dramma che si stava consumando.
La lotta per il potere era prerogativa di ristrette minoranze, a volte organizzate in un partito politico, ma, più spesso, aggregate sulla base di gruppi di interesse e di opinione che facevano capo a figure di riconosciuto prestigio. Si trattava in genere di leaders politici di sicuro ingegno e di capi militari, anche se spesso non era facile distinguere a quale tipologia i singoli appartenessero, né quale fosse la differenza tra gli uni e gli altri. Il prestigio del grado militare tentava i civili che conoscevano bene il valore decisivo della forza all’interno dell’arena politica. D’altro canto i militari, formatisi nell’azione e sulla base di una mentalità autoritaria, intuivano di dover accettare le regole del gioco politico, se volevano consolidare il proprio potere e stabilizzare il consenso del gruppo che li appoggiava in ogni singola situazione. Le decisioni politiche venivano prese nelle città, a volte per mezzo di elezioni e a volte mediante colpi di mano. Neppure il Brasile, sottoposto al potere di una dinastia imperiale, potè sottrarsi a questo destino e dovette perciò assistere, non soltanto ad un processo di autentica disgregazione nazionale, nel periodo successivo all’abdicazione di Pietro I nel 1831, ma anche a due tentativi rivoluzionari a Recife e a Bahía. In altri paesi le agitazioni militari, talvolta di carattere rivoluzionario, sconvolsero con drammatica regolarità la vita dei centri urbani. Arequipa venne agitata da varie sommosse e Lima ne ebbe un numero ancora maggiore. A La Paz i governi «rivoluzionari» si succedevano senza posa. Guayaquil sfidò ripetutamente il potere dei notabili di Quito. Nel complesso, il fenomeno fu così generalizzato che puntualizzare tutti i suoi episodi equivarrebbe a tracciare la storia particolare di ogni paese e di ognuna delle sue città.
E possibile distinguere due tipi di processo rivoluzionario: da una parte i puri e semplici colpi di stato militari e dall’altra le sollevazioni che divisero l’opinione pubblica e videro la partecipazione della società delle città in cui avvennero i pronunciamenti. Blest Gana ci ha descritto una rivoluzione di questo secondo tipo per quanto riguarda Santiago del Cile, mentre María Nieves y Bustamante ha fatto altrettanto per il caso di Arequipa; delle sollevazioni del primo tipo lasciò, invece, una testimonianza la marchesa Calderón de la Barca che ebbe modo di assistere ad uno dei pronunciamenti militari che portarono al potere Santa Anna. Partecipe o indifferente, la società urbana usciva da questo genere di esperienza danneggiata e disillusa, quasi sempre frustrata nelle sue speranze, dato che neppure il trionfo portava con sé l’agognata rigenerazione: ad un potere se ne sostituiva un altro, altrettanto incerto ed incapace di stabilire un programma coerente e sorretto da un consenso reale.
Blest Gana si rese conto che, nella rivoluzione di Santiago da lui descritta, erano in gioco elementi che trascendevano la pura e semplice lotta per il potere tra i gruppi dominanti. Cordovez Moure descrisse in modo più esplicito gli scontri politici che agitarono Bogotá tra il 1851 e il 1853. Un chiaro scontro di classi esasperò la lotta politica, quando i cachacos (giovani eleganti), legati alle grandi famiglie borghesi, sfidarono gli artigiani che si erano organizzati in corporazioni popolari per raccogliere, in qualche modo, l’ondata rivoluzionaria del 1848. Il quartiere di Las Nieves fu scenario di una battaglia campale, subito dopo la quale il generale José María Melo diede inizio alla sua rivoluzione popolare, fallita a causa dell’alleanza di tutte le altre forze politiche e militari.
Cordovez Moure fece anche il resoconto di alcune significative tornate elettorali, come quella del 7 marzo 1849, con la quale le Camere Legislative, riunite nella chiesa di Santo Domingo a Bogotá, dovevano scegliere tra il generale José Hilario López, candidato di parte popolare, e il dottor Rufino Cuervo, candidato conservatore che godeva però dei favori del suo partito in cordata con il dottor José Joaquín de Gori. In città l’atmosfera era molto tesa e ad un certo punto sembrò persino che le elezioni dovessero concludersi con una tragedia. Tuttavia fu possibile condurle a termine senza incidenti, con la vittoria del generale López. Cordovez Moure scrisse in quella occasione: «La notizia dell’elezione del generale López ha provocato manifestazioni di vivo entusiasmo nel popolo che circondava la chiesa. Le grida erano assordanti; alcuni si abbracciavano e si stringevano al punto di asfissiarsi; altri gettavano in aria il cappello; gli elettori lopisti erano salutati con segni di vittoria non appena uscivano dalla chiesa, i congressisti più fedeli erano letteralmente schiacciati dalla folla; i botti e i rintocchi delle campane della Cattedrale annunciavano a tutta la città l’avvenuta elezione del presidente e i sostenitori del candidato vincitore percorrevano le strade in trionfo, preceduti dalle fanfare militari del quinto battaglione e della Guardia Nazionale, al grido di Viva López! e Viva il popolo sovrano!».
Se si fosse trattato di un’elezione di rappresentanti, la preparazione della lista avrebbe probabilmente seguito una procedura analoga a quella usata dal circolo bonaerense descritto dall’argentino Lucio V. López in La gran aldea (il grande villaggio), dove si dice tra l’altro che «il partito di mia zia» presentava i candidati che si erano autodesignati all’interno della cricca familiare. Siamo attorno al 1860 e l’autore insiste: «Del partito di mia zia, bisogna dirlo se si vuole essere onesti e veritieri, faceva parte quasi tutta la borghesia di Buenos Aires, le famiglie decenti e timorate, i cognomi tradizionali e, insomma, tutto quel sottogenere di nobiltà bonaerense un po’ stolida, sana, illetterata, silenziosa, orgogliosa, annoiata, campanilista, onorata, ricca, infingarda e satolla; questo partito aveva una sua ragione sociale e politica per esistere; nato dopo la caduta di Rosas, dopo un ventennio di tirannide e di soggezione, aveva senza volerlo assorbito tutti i vizi della sua epoca e, animato dalle grandi ed entusiasmanti idee della libertà, aveva infranto le catene del dominio senza minimamente intaccare quelle delle proprie tradizioni ereditarie. Non si può certo dire che questa gente abbia saputo trasformare la fisionomia morale dei propri figli, che verso il 1850 divennero latifondisti, possidenti e forchettoni. Costoro guàrdarono l’Università con sdegnosa diffidenza e considerarono il talento imprenditoriale degli avventurieri e dei nuovi ricchi come una minaccia per la propria esistenza. Nacque così il bisogno di allevare ed educare la nuova generazione in un ambito che fosse lussuoso e rivelatore di tutte le aspirazioni inconscie alla vista del gran mondo, all’eleganza e al prestigio; ciononostante, senza volerlo e senza poterne fare a meno, cioè senza accorgersene, questa borghesia conservò la propria fisionomia storica basata sulla rispettibilità e sulla virtù, ma sostanzialmente opaca e abitudinaria». Si trattava di circoli politici, sommariamente organizzati e, in fondo, di puri e semplici gruppi di potere che, ogni volta che le circostanze lo rendevano necessario, si costituivano in comitato elettorale o in nucleo di propaganda ideologica. Ancora maggiore era l’approssimazione relativa alla portata del consenso, che, in queste società instabili ed in perpetuo rinnovamento, sosteneva ciascun gruppo; altrettanto grande era l’approssimazione ideologica, specie di fronte all’urgenza e alla peculiarità dei problemi più immediati, spesso del tutto estranei alle tematiche delle dottrine politiche più reputate. Per questo il potere fu sempre estremamente pragmatico e si richiamò soltanto in modo vago alla legittimazione teorica.
Si appoggiò piuttosto alla forza, prima di tutto a quella delle armi e poi a quella conferita dall’esercizio del potere medesimo. Per questo le capitali, nazionali e provinciali, nelle quali il potere aveva le sue radici e dalle quali era possibile manovrarne le leve, divennero tanto importanti. In ultima istanza il potere era sempre personale e la presenza fisica di chi lo esercitava e di coloro che ne erano i diretti rappresentanti finiva per creare intorno ad esso un polo di aggregazione e di influenza. Il «palazzo», il «fortino» e la «sede del governó» furono talvolta lussuose, come le corti imperiali di Boa Vista e di Chapultepec, talaltra modeste; furono però sempre percepite come il luogo fisico nel quale veniva tessuta una trama segreta di cui si sarebbero poi conosciute soltanto le conseguenze. Lì bisognava andare, se si voleva ottenere qualcosa, corrispondesse o meno ad un diritto legittimo, dato che il potere poteva fare graziose concessioni, più o meno in ogni campo, producendo un potere di grado secondo e rendendo, soprattutto, possibile il facile arricchimento di chi godeva del beneplacito ufficiale. Parenti, amici e sostenitori politici affollavano i corridoi e le anticamere e, se potevano, trasferivano la propria residenza nei dintorni della sede ufficiale del potere, specialmente se questo era concentrato nelle mani di un autocrate creolo, carico di insegne e di decorazioni e bramoso di piaggeria cortigiana.
Ogni capitale conobbe qualche momento di intensa drammaticità, collegato all’onerosa presenza del potere. Il cileno José Victorino Lastarria spiegava, nel 1868, come la pressione di un governo autoritario avesse potuto modificare la fisionomia sociale di Santiago: «Un governo onnipotente e repressivo ha dominato il paese per trentasei anni, facendo leva sugli interessi di una ristretta ed esigua oligarchia, cioè sulla forza di un manipolo di uomini e di famiglie potenti che hanno cercato e sostenuto il potere. Questo governo arbitrario ed onnipresente ha avuto il monopolio della parola, dell’iniziativa e del dominio ed ha stabilito che cosa era bene e che cosa male, che cosa giusto e che cosa ingiusto. Il cittadino che ha osato resistergli, rifiutando la sottomissione e dissentendo, ha dovuto patire la persecuzione, il disprezzo e l’ostilità del potere e della potente oligarchia che lo sosteneva. Santiago, trenta anni fa, non era ciò che è adesso. Noi vecchi abbiamo conosciuto una città allegra, viva, gioiosa e sincera. È curioso analizzare come si siano modificate l’indole e le inclinazioni dei cittadini di Santiago nel corso di questi ultimi trent’anni, come si siano formati, cioè, gli atteggiamenti ipocriti, apatici, rassegnati e melanconici che oggi dominano la scena e che destano l’attenzione, non solo degli stranieri, ma anche degli abitanti di tutte le altre province»; tali erano gli effetti della dittatura. Non diversi del resto da quelli provocati a Quito dal periodo di García Moreno, a Buenos Aires dalla dominazione di Rosas, a La Paz da quella di Melgarejo. Altro ancora si sarebbe potuto dire a proposito dei poteri locali, dove il caso finiva spesso per favorire la tirannia di qualche satrapo locale.
Quando funzionava un sistema repubblicano, il Congresso era solito consentire all’opposizione di esprimere le proprie opinioni. Le assemblee costituirono allora un altro importante polo della vita politica cittadina. I dibattiti solevano trasformarsi in veri e propri tornei di oratoria ed i discorsi finivano per trascendere l’ambito specifico, grazie alla diffusione dei quotidiani e alle pubbliche discussioni che si facevano un po’ dappertutto. Vi furono dibattiti memorabili in ogni parlamento, vuoi per le dottrine esposte, vuoi per la tecnica dell’esposizione, per la portata delle questioni all’ordine del giorno, per le drammatiche tensioni che talvolta si crearono intorno alle sessioni congressuali. Poiché le arene legislative davano spazio a tutte le passioni politiche, vi furono anche episodi tragici, che scossero profondamente le coscienze cittadine. Il presidente della Camera dei Rappresentanti di Buenos Aires venne assassinato in aula nel 1839, a seguito della scoperta di una congiura capeggiata da suo figlio; il 24 gennaio del 1848 le masse popolari assaltarono il Congresso di Caracas, assassinando e ferendo gravemente numerosi membri del corpo legislativo. A volte le assemblee costituenti, incaricate di redigere un testo costituzionale, vennero convocate nei centri di provincia: in queste occasioni i rappresentanti dell’intero paese trapiantavano nel tranquillo ambiente regionale le passioni proprie della capitale e dell’intero paese. Ad Ambato venne stilata la costituzione equadoriana del 1835, a Santa Fé quella argentina del 1853, a Valenza quella venezuelana del 1858, a Rionegro quella colombiana del 1863. Terminati i lavori la convenzione veniva sciolta e la pace tornava a regnare nel piccolo centro prescelto.
Assedi e invasioni straniere turbarono la quiete e movimentarono la vita di molte città. Arequipa, assediata dai castigliani, si fregiò del titolo di «Sebastopoli», Montevideo, assediata da Oribe, venne definita «Nuova Troia». Navi straniere misero il blocco al Rio de la Plata e bombardarono il porto di Valparaíso. Gli Statunitensi e i Francesi occuparono Veracruz, i Cileni presero Lima. Eserciti formati da connazionali occuparono molte città nel corso delle guerre civili e a volte si comportarono peggio degli invasori stranieri. In ogni caso la città conobbe il martirio e la coesione delle società urbane venne messa a dura prova.
Accanto alla città politica si sviluppava la vita della città intellettuale. Le antiche università coloniali, quella di Santo Domingo, quelle di Messico, di Lima, di Guatemala, di Quito, di Charcas, e di Cordova, languivano schiacciate dai sommovimenti della politica e dalle nuove inquietudini intellettuali. Alcune seppero rinnovarsi, come fece quella di Santiago del Cile sotto la direzione del venezuelano Andrés Bello, e altre e nuove accademie sorsero proprio allora, come quella di Buenos Aires e quella di Arequipa. San Paolo ospitò una Facoltà di Diritto tanto vitale che per molto tempo impresse il propria carattere all’intera città, diventando una specie di Coimbra americana. Gli studenti costituivano infatti il gruppo sociale di più chiara identificazione entro i confini della cerchia urbana, nonostante provenissero da varie città del Brasile, non esclusa Rio de Janeiro, dove, peraltro, c’era una famosa Facoltà di Medicina. Negli antichi collegi, come quello del Rosario a Bogotá, e nelle vecchie , Accademie, come quelle di Bahía e di Rio de Janeiro, fu necessario lottare per sostituire le vecchie idee con le nuove, di spiccata influenza francese.
Per promuovere gli studi sul passato nazionale l’imperatore Pietro II del Brasile aveva fondato a Rio de Janeiro, nel 1838, l’istituto Storico e Geografico del Brasile; spinto da analoghi propositi, Andrés Lamas fondò a Montevideo, nel 1843, l’istituto Storico e Geografico dell’Uruguay, mentre, nel 1854, Bartolomé Mitre costituì a Buenos Aires l’istituto Storico Geografico del Rio de la Plata. A Messico, lo storico e politico Lucas Alamán fondò, nel 1823, il Museo Archeologico e quello di Storia Naturale; a Bogotá José María Vergara y Vergara promosse la costituzione dell’Accademia Colombiana. In molte altre città fecero la loro comparsa società scientifiche, riviste storiche, letterarie e filosofiche, periodici divulgativi e vari altri sforzi spesso effimeri, per raccogliere coloro che in città avevano interessi intellettuali. I circoli culturali nei quali si discuteva di libri e di idee ebbero la loro stagione d’oro e tra questi fu quello denominato il Mosaico e promosso dallo stesso Vergara.
Il periodico restò comunque lo strumento principale della vita intellettuale, dato che era raro che questa si disinteressasse degli avvenimenti politici. Poeti come l’argentino Juan Cruz Varela, l’equadoriano José Joaquín de Olmedo e il colombiano Julio Arboleda, prosatori, saggisti e narratori parteciparono tutti, più o meno attivamente, alle lotte politiche e dedicarono gran parte delle proprie energie al giornalismo che, in quasi tutte le città più importanti, potè contare su una o più testate per esprimere le proprie idee. Il giornale era diffuso tra i borghesi attivi ed intellettuali ed era proprio a loro che si rivolgevano il teorico liberale, l’oltranzista conservatore e gli occasionali sostenitori di una causa, di un progetto o di un caudillo. Per costoro scrissero, quasi ogni giorno, le migliori penne dell’America latina, esprimendo la propria opinione su giornali dichiaratamente di parte e di collocazione tutt’altro che ambigua. Le idee ricevute venivano poi diffuse da questi borghesi dinamici e riflessivi attraverso i circoli ed i salotti, nei caffè, nelle piazze e nei portici, dove le varie opinioni venivano commentate sulla base del personale punto di vista di ciascuno, risultando talvolta sviluppate e talaltra riassunte in modo tale da essere trasformate in patrimonio comune, diffuso in tutti i settori politicizzati della società: nascevano e morivano così le varie correnti di pensiero. Nell’ambiente urbano il giornalista letterato era il portavoce di una piccola comunità, noto a tutti coloro che aspettavano da lui l’argomento o la spiegazione pro o contro la questione scottante dell’ultima ora. Non mancava nella strada più frequentata di ogni capitale una libreria alla quale giungessero i libri stranieri più richiesti dai curiosi e dagli snob. Attorno a questi librai erano soliti gravitare circoli letterari nei quali si incontravano tra loro tutti quelli che leggevano gli stessi libri e seguivano con passione la produzione degli stessi autori. Erano gli stessi individui che si incontravano anche a teatro, nelle redazioni dei giornali e nell’atrio dell’assemblea legislativa. Politica e letteratura, nelle città patrizie erano inseparabili.
6.
Le città borghesi
A partire dal 1880 molte città latinoamericane incominciarono a subire nuove trasformazioni che riguardavano ormai non soltanto la loro struttura sociale, ma anche il loro aspetto esteriore. La popolazione aumentò di numero e si fece più varia, le attività si moltiplicarono, il paesaggio urbano si trasformò, insieme ai costumi tradizionali e ai modi di pensare dei vari gruppi che componevano le società urbane. Le città stesse percepirono l’importanza e l’enormità della trasformazione in atto, promossa da classi dirigenti eccitate dalla vertigine del cosiddetto progresso; i viaggiatori europei non mancarono di sorprendersi per queste trasformazioni, che nel giro di venti anni rendevano irriconoscibile una città. Fu proprio questo fatto a dare all’immagine dell’America latina nei primi anni del nuovo secolo un che di incoercibilmente ed illimitatamente avventuroso.
Un esame più attento avrebbe consentito di vedere che questo giudizio non era del tutto esatto. In America latina c’erano molte cose che non cambiavano, specialmente nelle vaste zone rurali, ma anche in molti centri urbani. Il cambiamento riguardò insomma soltanto le città e, in particolare, le grandi città. Ciò era strettamente legato ad una trasformazione sostanziale che proprio allora aveva modificato la struttura economica di quasi tutti i paesi latinoamericani, riflettendosi, in modo particolare, sulle capitali, sui porti e sulle città che concentrarono e canalizzarono la produzione di alcuni articoli molto richiesti sul mercato mondiale. Ovviamente, la preferenza accordata dal mercato mondiale ai paesi produttori di materie prime e consumatori potenziali di prodotti manufatti, stimolò la concentrazione, in diverse città, di una popolazione varia e numerosa, creando in esse una maggiore richiesta di lavoro e determinando altresì l’emergere di nuove forme di vita, legate allo sviluppo di un tasso di attività fino ad allora sconosciuto e comunque tale da accelerare tutte quelle tendenze che avrebbero provocato l’uscita di scena delle vestigia del passato coloniale, ormai destinate ad essere sostituite da più moderne forme di vita.
Proprio in quel periodo i paesi industrializzati, cioè l’Europa, gli Stati Uniti e, in un secondo tempo, il Giappone, raggiungevano il loro apogeo. Avevano accumulato ingenti capitali, disponevano di industrie in piena espansione e promuovevano lo sviluppo di nuovi settori di ampie prospettive; per questo avevano bisogno sia di enormi quantità di materie prime che di mercati per i loro prodotti finiti. Anche in questi paesi le città crescevano ad un ritmo incontrollabile e i loro abitanti avevano ormai bisogno di una quantità di prodotti alimentari maggiore di quella che erano in condizione di produrre. Sia le esigenze delle grandi capitali e dei settori trainanti dell’industria che i bisogni delle nuove megalopoli esercitavano una pressione indiretta su quei paesi che ancora non avevano avviato il proprio sviluppo industriale. Talvolta queste pressioni si fecero più dirette: gli Stati Uniti imposero progressivamente il loro dominio ai paesi dei Caraibi e dell’America centrale, occupando, a partire dal 1898, alcuni territori e ottenendo un pieno diritto di sovranità territoriale sulla zona dove avevano aperto il canale di Panama, riuscendo persino a fare in modo che intorno ad esso si formasse un piccolo paese, separato dalla Colombia. Fu questa l’epoca del Manifest Destiny e della politica del big stick, attraverso i quali si esprimeva, in Nord America, una tendenza imperialistica che si stava manifestando anche in Europa. Impadronitisi di buona parte dell’economia venezuelana, i Tedeschi non esitarono a reclamare la liquidazione dei propri crediti cannoneggiando, nel 1902, Puerto Cabello.
La pressione diretta poteva trovare espressione, oltre che in una forza di occupazione, nell’ingerenza di un ambasciatore insolente. Non meno efficace si rivelò però l’azione indiretta, mediante la quale vennero stabilizzati i legami tra l’economia dei paesi industrializzati e quella dell’America latina. Ovviamente, in tutti i paesi l’operazione potè far leva sul consenso delle classi dirigenti, che videro in essa il simbolo del progresso. Tuttavia la rete veniva tessuta nei grandi centri economici che si trovavano all’estero e che stabilivano il ruolo spettante a ciascuno dei settori dell’immensa periferia che il mondo industrializzato organizzava di continuo. La pressione indiretta divenne palese nella promozione di certi generi di prodotti: nelle zone rurali dell’America latina la produzione venne incentivata mediante l’applicazione di un criterio di impresa, destinato a fare in modo che un determinato paese aumentasse la produzione di caffè, un altro quella della canna da zucchero, un altro quella dell’industria estrattiva, un altro quella del caucciù, un altro quella del salnitro e un altro ancora quella dei cereali, della lana e della carne destinata al consumo. Le imprese erano quasi sempre a capitale straniero, venivano gestite da personale straniero, avevano ingegneri, tecnici e talvolta persino capomastri stranieri; la manodopera era invece locale, al pari di tutto il piccolo mondo dell’intermediazione, generato dalle necessità della produzione e del commercio.
Fu proprio questo piccolo mondo a fare delle città il proprio ambiente d’elezione, dato che i centri urbani si riempirono di banche, più straniere che locali, e di uffici dove ogni genere di rappresentanti commerciali e finanziari gestivano i propri affari, comprando, vendendo, investendo e speculando in tutti i vari settori presenti nella nuova ed inesplorata economia di ciascun paese. Le città si riempirono anche di compagnie commerciali, di grossisti e di dettaglianti. Le strade, i caffè ed i quartieri bassi si animarono di gente che svolgendo i mestieri più diversi vivevano con le eccedenze generate dalla concentrazione di tanta ricchezza in quello che era l’antico nucleo della città coloniale.
Alle antiche famiglie, che si identificavano con le tradizioni della città, si aggregarono, nel corso di questo periodo, gruppi assai compositi, considerati avventizi dai membri della vecchia oligarchia; il contatto, però, determinò, a lungo andare, un rinnovamento delle abitudini quotidiane, nelle quali si notò una crescente tendenza ad imitare le forme di vita prevalenti nelle grandi città europee. Il passato coloniale e patrizio restò relegato alla vita di provincia ed esercitò la propria influenza sulle grandi capitali soltanto in modo sporadico, attraverso il mito nostalgico della felicità perduta. Ciononostante le capitali e le città che si arricchivano non desideravano la pace ma, anzi, ricercavano il frenetico mulinare di tutte quelle attività che generavano ricchezza ed erano passibili di trasformarsi in lusso che potesse essere ostentato.
Il simbolo più adeguato del lusso era, a giudizio di tutti gli snob, il Faubourg Saint Germain, la Rue de la Paix e i Boulevards di Parigi. L’antico nucleo coloniale delle città latinoamericane aveva ben poco a che vedere con questo scenario. L’esempio del barone Haussmann e la sua frenesia demolitrice spinsero le nuove borghesie, desiderose di cancellare il passato, a prendere una drastica decisione; alcune città cominciarono così a cambiare faccia; la costruzione di un lussuoso corso, di un parco, di un’arteria alberata carrozzabile, di un ricco teatro e di edifici ispirati all’architettura moderna rivelarono la portata di questo progetto anche se non sempre riuscirono a far scomparire completamente lo spettro della città più antica. Tuttavia le borghesie potevano, in questo modo, alimentare le proprie illusioni, rinchiudendosi nelle sofisticate sedi di un club esclusivo o di un ristorante di lusso. Erano i primi passi di un lungo cammino, destinato a trasformare «il grande villaggio» in una moderna metropoli.
Trasformazione e stagnazione
Le conseguenze prodotte nell’economia latinoamericana dalla stabilizzazione dei legami che la ponevano in relazione con i grandi paesi industrializzati non si manifestò nello stesso momento né con la stessa intensità in tutte le città. Vi furono zone che non riuscirono a rispondere all’appello e le città di queste regioni restarono escluse dai nuovi circuiti economici che si venivano stabilendo. Queste città entrarono in crisi e la loro crisi risultò ancor più percepibile in confronto alle condizioni delle altre città che, in quel periodo, incominciarono rapidamente a prosperare. Tutta l’attenzione finì per concentrarsi su questi ultimi centri. Le attività dell’import-export, le operazioni finanziarie e l’insieme dei traffici indotti dal commercio internazionale moltiplicarono la dinamica delle città sulle quali finivano per concentrarsi tutte le iniziative e tutti gli investimenti. In queste città il denaro circolava, le speculazioni surriscaldavano gli animi sia dei forti investitori sia dei piccoli risparmiatori, dato che le speranze di un rapido arricchimento alimentavano indirettamente le aspirazioni alla scalata sociale. La tumultuosa prosperità e l’eccitato clima dell’avventura conferirono a. queste città una fisionomia peculiare.
La sorpresa dei viaggiatori fu notevole e il giudizio che espressero sulle varie città si concretò talvolta in uno sperticato elogio e talaltra nella ripetizione delle antiche condanne pronunciate nei confronti di Babilonia. Quest’ultimo stato d’animo era, tra l’altro, condiviso dai gruppi più tradizionali delle stesse città in trasformazione. Rubén Darío parlava di una «regale Buenos Aires», ma il messicano Federico Gamboa vedeva nella prostituta, protagonista del suo romanzo Santa, il simbolo della «città corrotta». Tutti si resero conto che nei centri urbani stava prendendo forma uno stile di vita nuovo per l’America latina, fortemente influenzato, senza dubbio, dalle abitudini straniere, ma, al contempo, oscuramente originale, poiché originale era il processo sociale e culturale che si stava sviluppando e dal quale la rivoluzione dei costumi aveva origine. Metropoli apparentemente imitativa, ogni città latinoamericana nascondeva una matrice assolutamente individuale e destinata, poco a poco, a manifestarsi.
Tra tutte, le città nelle quali la prosperità e la trasformazione divennero più chiaramente percepibili, sia per quanto riguarda la società e i costumi che per la fisionomia edilizia, furono quelle capitali che erano, contemporaneamente, porti: Rio de Janeiro, Buenos Aires, Panama, L’Avana e San Juan di Portorico, tutti porti di mare direttamente collegati al mondo esterno, tutti luoghi nei quali all’intensa attività economica che si sviluppava erano affiancati i tipici compiti di una capitale politica ed amministrativa, di un centro destinato cioè, a prendere decisioni economiche. Anche Caracas e Lima, pur essendo all’interno, poterono beneficiare di un porto vicino e divennero tutt’uno con La Guayra e El Callao. Un’economia in espansione, trainata dal commercio estero, si aggiungeva ora alla tradizionale attività promossa dal potere politico, mediante la sua influente burocrazia, che dosava saggiamente le pressioni in modo da ottenere l’erogazione di questo o quel privilegio. Messico, pur essendo una capitale dell’interno, si distingueva per la sua dinamicità e la sua ricchezza, dopo che, risolte le lotte intestine, si pose sotto la protezione di Porfirio Díaz che vigilava su di essa dall’alto del castello di Chapultepec.
Certamente non tutte le capitali riuscirono a raggiungere lo stesso grado di sviluppo e lo stesso splendore. Rio de Janeiro, che aveva avviato la propria trasformazione nel corso del periodo imperiale, non fece altro che accentuare tale direttrice di sviluppo nel periodo repubblicano, mano a mano che la popolazione aumentava. Dai cinquecentocinquantamila abitanti dei primi anni del secolo, passò oltre il milione nel 1920 e i suoi quartieri periferici ebbero un tale sviluppo che già nel 1908 Olavo Bilac poté dire che si trattava di «un’agglomerazione di varie città, che, a poco a poco, si vanno distinguendo l’una dall’altra, acquisendo, ciascuna, un particolare aspetto ed un certo grado di autonomia nella vita materiale e spirituale». Lo sviluppo di Messico seguì una strada diversa. Furono infatti le classi medio-alte ad emigrare verso i nuovi quartieri, le cosiddette «colonie», che sorsero nei dintorni di Chapultepec, mentre il nucleo più antico ospitava, sempre più, le classi popolari, che trasformarono in condomini le antiche case e i vecchi palazzi. Messico aveva trecentonovantamila abitanti nel 1900 e superò il milione nel 1930, quando cominciava ormai a diventare endemica la grave crisi scatenata dalla rivoluzione del 1910. Buenos Aires, la città più popolosa in assoluto, aveva, già nel 1895, seicentosettantasettemila abitanti e raggiungeva, nel 1930, i due milioni. Indubbiamente fu la città la cui crescita attrasse maggiormente l’attenzione degli europei, connazionali di quegli immigrati che stavano trasformando la capitale argentina a tal punto da farne un piccolo mito. Un francese, H. D. Sisson, nel 1909 definiva Buenos Aires «una città nuova, cresciuta con la rapidità di un fungo, sulla pampa deserta»; utilizzando dati poco attendibili, così riassumeva il proprio interesse per la capitale argentina: «Questa città di Buenos Aires è un fenomeno di cui bisogna parlare. Lo sviluppo di quella che nel 1875 era una città di sessantamila anime e che, nel 1906, occupa un’estensione maggiore di quella di Parigi, edificata per oltre due terzi e popolata da un milione e duecentocinquantamila abitanti, è un fatto ancor più stupefacente che non la comparsa della più grande tra le megalopoli statunitensi».
In pratica, pur partendo da cifre più modeste, quasi tutte le capitali dell’America latina raddoppiarono o triplicarono la propria popolazione nei cinquant’anni successivi al 1880, moltiplicando, in una certa misura, la propria attività. Le capitali beneficiavano delle ricchezze dell’intero paese grazie alla struttura delle imposte e della spesa pubblica, senza contare il fatto che erano, di solito, anche il mercato interno più importante. In un modo o nell’altro e indipendentemente dalla forma istituzionale, la tradizionale concentrazione del potere economico e del potere politico si accentuò in parallelo con la crescita delle operazioni commerciali e finanziarie. Nelle capitali si concentrarono i grandi mediatori, i banchieri, gli esportatori, i finanzieri ed i magnati del mercato di borsa. Le borghesie dominanti fecero in modo che la struttura edilizia riflettesse l’immagine di un paese prospero e moderno.
In realtà, però, la ricchezza entrava ed usciva dai porti, la cui crescita era già avvenuta nel corso degli ultimi decenni. Alcuni, come Buenaventura ed Esmeraldas, non riuscirono ad uscire dalla mediocrità, ma altri si trasformarono in empori commerciali di intensa vitalità, richiamando a sé una borghesia mercantile dotata di consistenti risorse finanziarie, anche se non sempre preoccupata di ammodernare le antiche corti come facevano, invece, con ostentazione i ceti dominanti delle capitali. Valparaíso aveva vinto la sua battaglia contro i porti rivali del Pacifico e divenne perciò il centro marittimo più ricco e più attivo di tutta la costa. Nel 1880 aveva centomila abitanti e, nel 1930, li aveva raddoppiati, modernizzando contemporaneamente le proprie attrezzature e aumentando progressivamente il numero delle navi che attraccavano ai moli, con conseguente beneficio per le entrate della dogana. I principali porti del Perù e dell’Equador erano in ribasso. El Callao soffrì le conseguenze della guerra con il Cile, dato che l’occupazione vi si protrasse fino al 1883; il recupero fu lento, collegato ai ritmi di ripresa dell’economia dell’intero paese. Dai trentacinquemila abitanti di prima della guerra, passò ad oltre cinquantamila intorno al 1930, quando ormai era alle porte un decennio di intensa attività. Ciononostante, la città non era altro che un sobborgo portuale di Lima, collocato a ridosso della propria fortezza coloniale. La città vecchia, caratterizzata da strade strette di tracciato irregolare, vide crescere accanto a sé una città nuova, a scacchiera, che si estendeva fino al promontorio di La Punta. Guayaquil era Invece il principale centro commerciale dell’Equador. La borghesia mercantile che vi si era stabilita contrastava, di tanto in tanto, il monopolio del potere detenuto dalla capitale, facendo leva sul prestigio dovuto al fatto di essere la chiave di volta dell’economia di import-export. Situata sull’estuario del Guayas, riparata, grazie ai portici delle sue strade, dal calore equatoriale, Guayaquil aveva, nel 1880, una popolazione di circa quarantamila abitanti e arrivò quasi a triplicarla nel cinquantennio successivo.
Anche i porti colombiani di Santa Marta e di Cartagena prosperarono, nonostante il loro sviluppo non possa essere paragonato a quello di Barranquilla, città fondata nel 1872 sull’estuario del Magdalena, a ventisette chilometri dal mare. Nel volgere di cinquant’anni surclassò per movimento portuale e per numero di abitanti tutte le città vicine, arrivando, nel 1930, a contare centocinquantamila abitanti, quando Cartagena arrivava a mala pena a centomila e Santa Marta a trentamila. Barranquilla concentrava, sempre di più, il traffico internazionale e faceva da punto di riferimento per l’intero sistema della navigazione fluviale sul Magdalena. Sia la sua crescita non regolata, sia l’aria improvvisata che caratterizzava la sua architettura andavano piano piano temperandosi per l’azione della nuova borghesia cosmopolita ed immigrata che ne promosse lo sviluppo. A Barranquilla non c’era nulla che potesse ricordare il passato coloniale, come avveniva, invece, con le fortificazioni di Cartagena.
Tuttavia anche Cartagena incominciava a riprendere vita, al pari di molti altri antichi porti coloniali che avevano patito la violenza delle recenti trasformazioni economiche. Una certa crescita toccò anche Belem, il cui porto venne favorito dal grande momento del caucciù; anche Recife e Baía conobbero una certa espansione con la ripresa della produzione zuccheriera nel corso della prima guerra mondiale. Puerto Cabello riprese vita e Maracaibo trasse nuovi stimoli, mano a mano che l’industria petrolifera si sviluppava, portando la sua popolazione, intorno al 1930, oltre i centomila abitanti. La vecchia Veracruz raggiunse nello stesso periodo i settantamila abitanti, quasi triplicando i ventiquattromila che aveva all’inizio del secolo. Tradizionale punto di riferimento del commercio con l’Europa, dovette però spartire la propria attività con la più moderna Tampico, simile per numero di abitanti, e, soprattutto, con Matamoros, che grazie al suo ruolo di mediazione nel commercio con gli Stati Uniti raggiunse, intorno al 1930, i centomila abitanti, superando così gli altri due porti messicani. Iquique e Antofagasta erano porti minerari del Cile; a Matanzas ed a Cienfuegos si concentrava l’esportazione cubana dello zucchero; da Rosario e da Bahía Blanca partivano i cereali dell’Argentina; Santos funzionava da emporio per l’esportazione del caffè brasiliano; persino i piccoli porti dei paesi dell’America centrale, sedi di imbarco del caffè e della frutta, furono tonificati dall’intensificarsi del traffico commerciale e poterono modificare, almeno in parte, il proprio aspetto grazie alle attività dell’indotto che il traffico portuale stimolava ed al predominio sociale delle borghesie dedite al commercio marittimo. L’immigrazione straniera, in genere di origine europea ma anche nordamericana ed asiatica, specie lungo le coste del Pacifico, si aggiungeva alla concentrazione di grandi masse di popolazione indigena, meticcia e negra per dare alle forme di vita delle società portuali un caratteristico aspetto policromo ed uno scenario inusuale, nel quale si evidenziavano le differenze rispetto ai centri controllati dal patriziato tradizionale. I porti furono i centri dell’attività commerciale, ma i gruppi tradizionali videro in essi soltanto le cause della disgregazione del carattere nazionale e, per questo, accentuarono talvolta il proprio conservatorismo, ritenendo che il prezzo richiesto dalla prosperità fosse troppo alto.
Non furono soltanto le capitali ed i porti a beneficiare di questa prosperità. Ne godettero infatti anche alcune città dell’interno che divennero punti di riferimento di zone produttive in espansione. Talvolta si trattò di uno sviluppo spettacolare, come, per esempio, quello che, a partire dal 1870, determinò la crescita di Ribeiräo Preto, posta nel cuore della zona caffettiera, mentre in altri casi si trattò di un vero e proprio fuoco di paglia, come nel caso di Manaos. Fondata nel cuore dell’Amazzonia, Manaos divenne la capitale brasiliana del caucciù. Dopo averla visitata nel 1865, William Scully aveva scritto: «La popolazione si aggira attorno ai cinquemila abitanti e la città è composta di circa trecentocinquanta edifici». Lo sfruttamento del caucciù vi fece affluire, all’improvviso, gente di ogni condizione ed origine. Avventurieri di cento paesi e braccianti venezuelani, colombiani, equadoriani e peruviani vi si concentrarono per dar corpo alla grande avventura che ebbe il suo culmine intorno al 1910, grazie ai prezzi altissimi raggiunti dal caucciù sul mercato internazionale, in un periodo in cui la città arrivò ad avere più di cinquantamila abitanti. Una classe di ricchi notabili, alla testa della quale figurava il tedesco Waldemar Scholz, trasformò il piccolo villaggio in una lussuosa città dotata di splendide residenze private, di bei viali, di negozi con un incredibile assortimento di prodotti europei, di raffinati ristoranti e, soprattutto, di un teatro che destava lo stupore di tutti i visitatori. Un moderno porto sul Rio Negro riceveva centinaia di imbarcazioni che caricavano il caucciù per trasportarlo fino ai porti di mare. Si trattava di una società cosmopolita ed avventuriera, nella quale le fortune si formavano e crollavano ad un ritmo vertiginoso; era un mondo nel quale i patti avevano soltanto la forza che era garantita loro dagli interessi comuni. Tuttavia, all’improviso, i prezzi del caucciù sul mercato internazionale incominciarono a scendere a causa dello sviluppo della produzione asiatica e la città incantata che era in mezzo alla giungla entrò in crisi ed incominciò il suo declino, ancor più rapido di quanto non fosse stata la miracolosa crescita. I rampicanti fecero la loro comparsa nelle crepe dei lussuosi edifici che ne vennero completamente ricoperti, mentre andava sparendo anche il tracciato delle strade e delle piazze a causa delle erbacce che vi crebbero implacabili, non appena venne sospesa la manutenzione. Anche gli uomini incominciarono a sparire inseguendo ciascuno il proprio destino, fino a che la vertiginosa città del sogno tornò ad essere un piccolo centro di provincia.
Più solida si rivelò la crescita di San Paolo, la cui trasformazione da cittadina periferica a moderna metropoli ebbe inizio intorno al 1872. San Paolo fu, a partire da allora, la «Metropoli del Caffé» e in essa misero radici i ricchi fazendeiros che l’avrebbero trasformata in una città degna della loro opulenza. Un vigoroso flusso di immigrazione straniera contribuì alla trasformazione. La città, che nel 1890 aveva settantamila abitanti, arrivò a sfiorare il milione nel 1930. Italiani, Spagnoli, Portoghesi, Tedeschi e Brasiliani provenienti dagli altri stati della federazione vi accorrevano per partecipare alla fioritura economica di cui godeva la città. Nuovi quartieri si formarono, la planimetria si modificò e fecero la loro comparsa tutti i servizi caratteristici di una città moderna. Si trattò di una crescita consistente e sostenuta, che conferì alla borghesia paulista una notevole forza sul piano nazionale. Nel giro di poche generazioni una nuova aristocrazia diede alla città quella complessità sociale che, di lì’ a poco, ne avrebbe fatto un importante centro culturale ed un vigoroso polo di sviluppo industriale.
Sia pure in minor scala, uno sviluppo analogo toccò alla città argentina di Rosario, centro preferenziale dell’immigrazione italiana. Grazie alla frenetica attività del suo porto, specializzato nell’esportazione dei cereali, allo sviluppo di alcune industrie ed in special modo di quella della farina, la città passò da una popolazione di centomila abitanti all’inizio del secolo, a circa mezzo milione di anime, nel 1930. Un efficiente porto ed una posizione privilegiata nel sistema delle comunicazioni ferroviarie le attribuì un importante ruolo economico nel quadro dell’economia nazionale. Una società di multiforme provenienza potè così raggiungere in breve tempo una forte coesione, lavorando con impegno per cogliere queste vantaggiose opportunità e costruirsi un ambiente urbano non privo di pretese.
In Colombia riprese vita l’antica città di Medellín, fondata nel 1675. Un impresario industriale, Pedro Nel Ospina, vi impiantò l’industria tessile, alla quale si aggiunsero, in un secondo tempo, altre attività di trasformazione che cambiarono radicalmente la faccia della città: birra, vetro, cioccolato, porcellana. Nel 1880 aveva trentasettemila abitanti e nel 1930 arrivò a circa centomila, grazie ad un processo di espansione che sarebbe continuato anche in seguito, incrementandosi. Altrettanto significativa fu la crescita di Manizales, una nuova città fondata nel 1848. Sostentata in origine dalla produzione del cacao e dall’industria casearia, la nuova società di Manizales, formata in prevalenza mediante le migrazioni interne, si rese ben presto conto di avere la possibilità di impiantare nelle terre circostanti la coltivazione del caffè, molto richiesto sul mercato mondiale. Enormi appezzamenti di terreno vennero destinati a questo genere di coltivazioni, ma la città continuò ad esercitare un energico controllo sulla produzione, dato che si trattava di una materia prima destinata all’esportazione, cioè di un bene per il quale il processo di commercializzazione era almeno altrettanto importante di quello produttivo. Nel 1905 la città era ormai un emporio del caffè, condizione che mantenne fino al 1930, quando i prezzi del prodotto sul mercato internazionale subirono una forte flessione. A quel punto però Manizales era ormai diventata una piazza commerciale di rilievo, con una forte ed intraprendente borghesia. Se le prime fortune si erano accumulate grazie al cacao ed ai formaggi, se quelle più recenti erano fondamentalmente legate al caffè, dopo la crisi, intorno cioè al 1930, data s in cui la città contava circa trentamila abitanti, il capitale accumulato consentì, come a San Paolo, di intraprendere una nuova fase dello sviluppo economico grazie alla creazione di vari poli industriali.
Nel corso di questo periodo fecero la loro comparsa numerose città nuove, che in origine non erano state altro che villaggi. Alcune ebbero uno sviluppo rapido, come per esempio la città argentina di La Piata, fondata nel 1882 come capitale della provincia di Buenos Aires a seguito di una decisione di tipo istituzionale, ma destinata a conoscere un importante sviluppo portuale e mercantile grazie agli sforzi di una società urbana formata in prevalenza da immigrati. Allo stesso modo si sviluppò in Brasile la città di Belo Horizonte, fondata nel 1897, come nuova capitale dello stato di Minas Gerais e talmente prospera da raggiungere, nel 1930, i centomila abitanti. A ritmo diverso crebbero anche innumerevoli villaggi e città legati alla progressiva espansione dell’agricoltura e dell’allevamento in Argentina; tra le tante, possono essere ricordate: Resistencia, Sáenz Peña, Santa Rosa e Venado Tuerto. Figlie di un processo di espansione economica, le società di questi centri erano del tutto prive di tradizione e ispirarono le proprie forme di vita alle attività dominanti.
Nuova era anche la città cilena di Antofagasta, lo sviluppo della quale ebbe inizio intorno al 1870, in parallelo con lo sfruttamento del salnitro; nuova fu, di fatto, anche Punta Arenas, prima del 1875 un villaggio insignificante, che ancora agli inizi del secolo arrivava a mala pena a mille abitanti, ma che proprio a partire da allora si sviluppò ad un ritmo vertiginoso. Intorno al 1930 raggiunse i trentamila abitanti, diventando un importante centro dell’economia patagonica, grazie al caparbio operato di José Menéndez, un commerciante spagnolo che dimostrò non comuni qualità pionieristiche. Con l’incremento dello sviluppo della regione ed in particolar modo del bestiame da lana, le nascenti attività mercantili della città ricevettero nuovo vigore e Punta Arenas diventò nel volgere di poco tempo una vera e propria oasi delle terre australi: come era accaduto a Manaos vennero costruite strade e viali, residenze dignitose e, in alcuni casi, lussuose, l’immancabile teatro, tipico di tutte le città che volevano pubblicamente dimostrare il proprio desiderio di benessere e prosperità mediante l’ostentazione di tutti quei servizi che distinguevano una città moderna. Una società attiva e la presenza nella regione di una manodopera a costo talmente basso da sfiorare la tragedia sociale consolidarono la posizione della città in una regione povera di insediamenti di rilievo.
Uno sviluppo industriale accelerato determinò la prosperità di alcune città messicane. Monterrey arrivò agli inizi del secolo ad essere la più importante tra queste, con una popolazione di oltre sessantamila abitanti, destinata però ad aumentare ancora nei decenni seguenti, in parallelo con lo sviluppo della siderurgia. Una notevole crescita toccò però anche a Guadalajara, a Puebla e ad Orizaba, detta la «Manchester del Messico» a causa della concentrazione delle industrie tessili, alle quali si aggiunsero poi quelle della birra e della carta; due romanzi di Rafael Delgado, Los parientes ricos e Historia vulgar, rivelarono le curiose caratteristiche dell’ambiente provinciale sconvolto dalla trasformazione economica.
Nel frattempo, le città che restarono escluse dal processo di modernizzazione conservarono il proprio ambiente provinciale. Non cambiarono mentre le altre cambiavano e questo fatto finì per dar loro l’aspetto di città in crisi. Molte di esse riuscirono, nonostante ciò, a mantenere il passo con la propria attività mercantile, per lo meno all’interno della loro area di influenza, anche se, conservando lo stile tradizionale, non modificarono i propri ritmi di vita. Le strade e le piazze mantennero la propria pace, l’architettura conservò le modalità tradizionali, le convenzioni sociali perpetuarono le proprie norme e le proprie regole consuetudinarie. Ovviamente, l’orizzonte che offrivano non si allargò, mentre altrove sembrava che aumentassero le possibilità di avventura, di denaro facile e di ascesa sociale. Per contrasto, le città estranee ai ritmi vulcanici della modernizzazione potevano sembrare ancor più immobili di quanto in realtà non fossero. Una curiosa gerarchia di progressiva paralisi venne costituendosi nel corso degli anni. Vi furono città che, essendosi fermate al XVIII secolo, come Villa de Leyva e Guatemala Antigua, vedevano altri centri che le avevano surclassate assumere ora le loro stesse caratteristiche.
L’impressione provocata dal contrasto fu notevole e molti interpretarono il fatto come sintomo di una situazione contraddittoria. Il venezuelano Rafael Pocaterra descrisse l’ambiente di Valencia in El doctor Bebé e quello di Maracaibo in Tierra del sol amada. In bilico tra ironia e nostalgia, egli rievoca il circolo di provincia e le notti silenziose nelle quali non si vedeva «un cane, né la disdicevole carrozza di un ultimo nottambulo. Tra le masse scure delle palme di piazza Bolívar, soltanto due gatti si inseguivano, miagolando infoiati». Il protagonista, sognando di Parigi, o, più modestamente, di Caracas, concludeva chiedendosi « dove andare?». La pace della sonnolenta capitale equadoriana spingeva Jorge Reyes a parlare di una Quito, arrabal del cielo (Quito, suburbio dal Cielo). L’argentino Manuel Gálvez rievocava la calma di una Catamarca addormentata nel suo romanzo La maestra normal, mentre il peso della tradizione coloniale di Cordova gravava sulle descrizioni di La sombra del convento. Parlando della città della sua infanzia lo scrittore peruviano Victor Andrés Belaúnde diceva, non senza una punta di malinconia: «Arequipa era una democrazia di gentiluomini»; con analoga nostalgia il venezuelano Mariano Picón Salas si rammentava della placida Merida.
Vi fu anche chi seppe cogliere il sottile persistere della calma provinciale dietro la forzata modernizzazione della città; l’argentino Benito Lynch rivelava, in Las mal calladas, la pace che riusciva a percepire nella città non ancora cinquantenne di La Piata; dal canto suo il messicano Rafael Delgado diceva altrettanto nei romanzi in cui rievocava Orizaba e Cordova. Si trattava tuttavia di deboli controcanti, destinati gradualmente a scomparire, come, del resto, sarebbero scomparsi, almeno in parte, anche nelle città che illanguidivano nella stagnazione.
Certamente, i meccanismi di emulazione incominciarono a funzionare a dovere, diventando sempre più efficaci mano a mano che le comunicazioni diventavano più agevoli. Nelle città di provincia tutti sognavano il fulgore delle luci e lo sfavillante lusso che le città modernizzate copiavano, a loro volta, da Parigi. Tutti sognavano anche quel genere di vita mondana di cui i romanzi ed i giornali avevano diffuso l’eco, nonché quel relativo anonimato che caratterizzava la vita delle grandi città e che sembrava consentire una maggiore libertà e favorire le facili avventure. Di fronte a questo modello, la tranquillità della provincia risultava ancor più insopportabile per chi già si sentiva attratto dall’avventura metropolitana. In questa condizione poteva trovarsi, per esempio, la giovane di buona famiglia, infastidita dalla ristrettezza del proprio giro, anche se di norma tale sogno fu prerogativa del giovane ambizioso che si annoiava per il ritmo ripetitivo e sonnolento di un’attività che non pareva consentirgli di far fortuna o di aspirare ad una migliore condizione sociale. A ben guardare, le metropoli, grandi o piccole che fossero, seducevano chi non sopportava la vita di provincia, soprattutto con il richiamo offerto dalla possibilità della scalata sociale. Le società delle metropoli erano ormai tipicamente borghesi, ed avevano tutte le caratteristiche acquisite emulando i propri modelli, situati nel cuore del mondo industrializzato; talvolta queste caratteristiche, proprio perché nate dall’imitazione, erano ancor più accentuate di quanto non fossero negli originali. Le società di provincia inseguivano, come un miraggio, l’allargamento degli orizzonti e delle possibilità che le società borghesi parevano offrire. Questa sensazione finì per ingigantire le differenze reali che pure esistevano tra le società stagnanti e quelle di trasformazione.
Il dinamismo delle società urbane
Caratteristico delle città stagnanti o addormentate non fu tanto il fatto che queste mantenessero intatta la propria planimetria e la propria architettura, quanto il fatto che in esse permasero inalterate anche le società. In pratica, vi si mantennero gli antichi lignaggi e i gruppi popolari continuarono a vivere così come avevano cominciato a farlo negli antichi tempi della colonia o nella più recente stagione dei patriziati. Poco o nulla era cambiato e, di certo, non vi era nulla che inducesse a modificare la struttura delle classi dominanti o a formare nuove classi medie o ancora ad articolare maggiormente il fronte delle classi popolari.
Le cose andarono in modo completamente diverso nelle città che, direttamente o indirettamente, vennero incluse nel nuovo sistema economico. Le vecchie società incominciarono a trasformarsi. In una prima fase vennero frantumate dai nuovi contingenti umani che andavano inserendosi nella vita urbana, provenendo a volte dall’esodo rurale e, a volte, dall’immigrazione straniera. Tuttavia, ben presto, l’incremento demografico, reso ancor più acuto da un notevole allungamento della vita media, alterò anche qualitativamente la struttura tradizionale della popolazione, sottoponendola alla pressione delle nuove possibilità di ascesa sociale offerte dalle prospettive occupazionali che si andavano aprendo. Il risultato non tardò a diventare percepibile e il tradizionale sistema delle relazioni sociali incominciò a modificarsi. Là dove c’era stato un posto prestabilito per ciascuno, incominciò ad esserci un orda di pretendenti disposti a competere per ogni singola posizione; non erano solo coloro che erano appena arrivati e che credevano nell’avventura a mettere in discussione l’armonica e stabile società tradizionale; infatti anche molti di coloro che ne avevano sempre fatto parte senza parteciparvi, in quanto emarginati, incominciarono ora ad inserirsi in virtù delle proprie attitudini, dato che per la prima volta veniva loro offerta un’opportunità per darne prova. Il nuovo ricco, il piccolo commerciante che aveva fatto fortuna, l’intraprendente impiegato, l’artigiano di talento, l’operaio capace e tutti coloro che intravvedevano nell’intricato groviglio delle attività di servizio una vena passibile di sfruttamento e si fecero largo, dilatando gli spiragli della tradizionale impalcatura sociale fino a mandarla in pezzi.
Questo non era certamente il loro obiettivo. Ciascuno di coloro che facevano carriera aspirava infatti a trovare una collocazione in seno alla società tradizionale, a diventarne membro, a goderne i benefici e i privilegi, condividendoli con chi da tempo immemorabile ne faceva parte. Il risultato fu però che l’armatura della società non si dimostrò capace di resistere a tante nuove inclusioni e, di conseguenza, incominciò a crollare. All’improvviso, l’antico patriziato si rese conto, con largo anticipo su tutti gli altri, che la società da lui creata, «il grande villaggio», incominciava ormai a trasformarsi in un complesso eterogeneo e confuso, nel quale, poco a poco, la società nel suo insieme perdeva la possibilità di controllare ciascuno dei suoi membri, poiché andavano scomparendo gli antichi legami personali che univano gli uni agli altri.
Nelle aree rurali e nei centri medio piccoli il vecchio patriziato aveva messo più profonde radici e aveva costituito un’aristocrazia compatta e forte. Si era così formata quella «democrazia di gentiluomini» di cui tanto si parlava ad Arequipa e di cui si sarebbe potuto parlare con altrettanta facilità a Tunja, a Trujillo, a Salta e a Popayán. Nell’ambito di queste società non c’era nessun gruppo che cercasse di introdurre una tendenza alla diversificazione, poiché i ceti subalterni e i ceti medi non mettevano in discussione l’autorità dei notabili. Per questo, la resistenza offerta all’impatto dei tempi nuovi fu in queste città particolarmente forte. Nelle capitali e nei porti che erano, invece, più cosmopoliti e spregiudicati, si erano trasferiti, da tutto il paese, coloro che, partendo a volte da una posizione di potere, o, più spesso, aspirando a conquistarla, ambivano a moltiplicare o a conquistare per la prima volta una grande fortuna. Era qui che le comunità straniere prestigiose ed influenti rivestivano la maggiore importanza. Il molteplice gioco di tanti gruppi così diversi tra loro finiva, infatti, per mettere in discussione la posizione del patriziato e per favorire in alcuni suoi esponenti un’apertura verso i nuovi settori che rendeva ancora più profonda la crisi della vecchia classe.
Effettivamente, all’interno del patriziato vi furono alcuni che, di fronte alle nuove opportunità economiche che si prospettarono negli ultimi decenni del secolo, dimostrarono una spiccata attitudine a modificare i propri principi e le proprie inclinazioni, nel tentativo di cogliere e sfruttare le nuove prospettive che si erano presentate. Altri, invece, non vollero o non furono capaci di fare altrettanto; troppo attaccati ad altri sistemi di vita non seppero avvicinarsi ad attività che ponevano condizioni per le quali la vecchia classe dirigente non era preparata. Costoro incominciarono dunque a retrocedere lungo il cammino che li avrebbe portati a diventare un gruppo aristocratico e sdegnoso, da un lato, ma passivo e marginale, dall’altro.
Negli ultimi decenni del secolo, il patriziato repubblicano, formatosi a seguito dell’indipendenza, era una classe la cui struttura si era ormai stabilizzata, nel corso di successive generazioni. Non soltanto i membri delle antiche dinastie coloniali, ma anche quelli che si erano affermati con l’indipendenza e le guerre civili facevano ormai parte di un’antica classe, caratterizzata dal possesso di una «ricchezza antica». In pratica, si trattava dell’aristocrazia di quella società. In Brasile, dove il periodo imperiale corrisponde ai tempi d’oro del patriziato nel resto dell’America latina, vi fu persino un razzista dichiarato come Oliveira Vianna che scambiò l’aristocrazia imperiale per una stirpe superiore, in quanto bianca e titolare di una «ancestralità germanica» capace di spronarla «in direzione dei sertoes [altipiani] a caccia d’oro e di indiani». Egli stesso però, nel suo libro Evoluçao do Povo Brasileiro, spiegava, alla sua maniera, ciò che in seguito sarebbe accaduto: «Con il trionfo della rivoluzione repubblicana crollano gli antichi quadri politici e di parte, che si erano lentamente formati nei cinquant’anni del vecchio regime: la nazione, colta di sorpresa, si accorge della propria instabilità, resa ancor più acuta dall’incertezza introdotta dal trionfo dei nuovi ideali. Si assiste ad un rovesciamento delle caste sociali, che si capovolgono e si mescolano: la nazione, attonita, vede comparire, accanto alle grandi figure del movimento repubblicano, una massa di figure illegali, prive dei titoli che dovrebbero legittimarne l’ascesa, ma disposte a battersi con furore e con temerarietà per la conquista del potere e la direzione politica del paese. Le componenti sociali, in questo popolo scosso dal terremoto rivoluzionario, si muovono in modo disordinato, come molecole spinte da forze divergenti. In questo gioco di indiscrivibili azioni e reazioni, la struttura sociale acquista un enorme rilievo plastico, sotto la pressione delle più disparate influenze».
L’aspetto più caratteristico fu, probabilmente, costituito dal piglio signorile che questa classe, economicamente ricca e politicamente egemonica, aveva ormai incominciato ad assumere, non solo in Brasile, dove l’impero aveva distribuito titoli nobiliari in abbondanza, ma anche nelle repubbliche più modeste ed austere. A quella data, varie generazioni erano ormai trascorse dai tempi in cui avevano avuto inizio le fortune familiari. Se le prime generazioni si erano distinte per la loro tenacia nella conquista della ricchezza e del potere, le generazioni successive smisero di essere tanto intransigenti con se stesse e consentirono a molti dei propri membri di darsi arie di antica nobiltà oziosa e di delegare alla servitù la gestione dei propri interessi, rinunciando alla pretesa di indirizzare il paese nella direzione che si credeva più opportuna.
L’ozio delle nuove generazioni della vecchia classe dirigente si manifestò in varie forme in seno ad una società che, come quella che si andava formando, faceva proprie le leggi della produzione. Talvolta si manifestò una certa tendenza a fuggire dalle città borghesi e mercantili, piene di tentazioni e di avventurieri disposti a soddisfarle, per cercare una tregua nelle lontane fattorie. Fu questo uno dei temi prediletti dal romanzo naturalista; scrittori come Gamboa, Pocaterra e Cambaceres se ne servirono per introdurre un’analisi dello stato d’animo di questi presunti signorotti di città nei confronti delle trasformazioni sociali in atto, dato che la campagna era considerata il vero ambiente della nobiltà e l’affermazione di un tale status costituiva pur sempre una risposta moralmente integerrima e, in un certo senso, persino vendicativa, di fronte ad una società che incominciava ormai a sovrastimare altri e più moderni valori. In altri casi l’ozio prese la forma di un’indolenza scettica ed elegante che trovava la sua espressione caratteristica in un palese disprezzo per la virile applicazione della volontà ai quotidiani contrasti della vita sociale. Poteva trattarsi, talvolta, di un’indolenza estetizzante, tutta volta a rivalutare l’esperienza personale dello studio, della lettura o della pura e semplice pratica quotidiana di uno stile di vita nel quale, un po’ alla maniera di Oscar Wilde, fosse possibile trovare un senso ed uno scopo nel godimento provocato dalla bellezza di un quadro, di una porcellana o di un mobile. In altri casi poteva, però, non essere altro che un certo genere di dispendiosa ossessione, volta ad affermare la nobiltà foraggiando una piccola corte di clienti e parassiti. A volte, infine, la nobiltà degenerava apertamente in volgare esibizionismo, declinando progressivamente fino ad esaurirsi nel vizio e nella depravazione.
Un’immagine nostalgica del passato stava di solito alla base della malinconica marginalità in cui vivevano questi patrizi dell’impero, della «patria antica» e del «grande villaggio», che, ormai, si sentivano a disagio nei nuovi paesi e nelle città in trasformazione. Oltre alla ricchezza, essi conservavano, per inerzia, anche un certo potere: il seggio senatorio che nessuno si azzardava a sottrarre all’esponente di un’antica famiglia, le alte cariche della gerarchia giudiziaria e, talvolta, persino la suprema magistratura civile, ottenuta col sostegno di amici o, se la gravità della situazione richiedeva un «patrizio» che fosse al di sopra delle parti e delle passioni, con quello di una coalizione di alleati ed avversari. Ciononostante, a partire dagli ultimi decenni del secolo, risultò sempre più chiaro che gli esponenti della mentalità patrizia non erano gli uomini più idonei alle nuove circostanze. Conservarono il loro prestigio e, là dove avevano grandi proprietà, anche la loro autorità, di cui abusarono per costituire, in ambito regionale, le oligarchie che, con un termine poco felice, vengono di solito denominate «feudali». Costoro riuscirono a conservare il potere in provincia, perpetuando questi stessielementi, senza che per questo risultasse troppo evidente la loro crescente esclusione dalla vita del paese, specialmente se anche la città e la regione subivano una progressiva e parallela emarginazione, mano a mano che il nuovo sistema economico si affermava. Nell’ambito della politica dirigenziale di livello nazionale, ormai orientata verso un totale sfruttamento delle nuove possibilità offerte dal mercato mondiale, incominciarono, invece, a dominare la scena figure di estrazione, mentalità e temperamento diversi, che, via via che si affermavano, andavano a formare un gruppo sociale nuovo, totalmente rispondente alle nuove sfide: erano, precisamente, gli «illegali», di cui parlava il brasiliano Oliveira Vianna, quando esprimeva il risentimento dell’antico patriziato che si doleva per essere stato esautorato.
Per subentrare all’antico patriziato, i nuovi ceti borghesi si stavano formando adeguandosi sempre più al ritmo imposto dalla continua trasformazione delle circostanze. All’improvviso, gli affari si moltiplicarono, in parallelo con le richieste del mercato internazionale; certi requisiti vennero richiesti, come essenziali, da coloro che lo controllavano e divenne quindi necessaria soddisfare le loro necessità, adeguando i sistemi produttivi e creando le necessarie infrastrutture. Da ogni parte si comprava e si vendeva, ma, anche, si tentava di ottenere grandi profitti investendo piccole somme o, se possibile, denaro altrui, cioè, soprattutto, si speculava temerariamente, riponendo cieca fede in una infinita crescita della ricchezza complessiva e del volume d’affari, senza più ricorrere al tradizionale sistema di autofinanziamento che, fino ad allora, aveva caratterizzato tutte le attività e le imprese; passavano così in secondo piano anche gli scrupoli di carattere morale che coinvolgevano tanto l’onore del gentiluomo, quanto quello del borghese tradizionale. La scena era ormai dominata da un nuovo stile di comportamento: quello della grande borghesia industriale, impersonale ed anonima quando si trattava di affari, ispirata cioè ad uno stile audace e travolgente che soppiantava quello tradizionale e più cauto, nel quale, qualunque fosse il volume di affari e il margine di rischio, i pregiudizi nobiliari e quelli piccolo borghesi agivano, insieme, da freno.
Le nuove borghesie risultarono formate da coloro che dimostrarono di possedere le qualità necessarie per far fronte alle nuove situazioni, lasciando definitivamente da parte le remore imposte dalle abitudini tradizionali, per optare in favore di nuove forme di comportamento. Chi erano costoro? Da dove venivano?
Indubbiamente, ebbero una parte importante all’interno della nuova classe quei membri dell’antico patriziato che, una volta ereditati nome e fortune, seppero abbandonare la propria classe, o, più precisamente, le convenzioni della propria classe, per orientarsi verso il «progresso», lasciandosi coinvolgere nel processo di ammodernamento delle strutture. Costoro trassero profitto dalle proprie conoscenze, dalla propria posizione e dalla propria esperienza per cogliere i primi e i più consistenti benefici della trasformazione in atto. Agli occhi di molti, costoro diventarono veri e propri modelli della nuova condotta: venivano considerati e stimati perché tutti vedevano in loro persone che erano state capaci di rinunciare alla vita facile, alle tediose abitudini, all’indolenza e alla depravazione tipiche di molti membri della loro classe, riuscendo così a trovare un posto nella nuova ondata di lavoro e di progresso. Sostenuti da questo prestigio, essi si misero alla testa di concreti processi di modernizzazione, incominciando dal settore delle loro attività private. Latifondisti ed impresari minerari per antica tradizione, abbandonarono o rinnovarono le proprie imprese, utilizzando nuovi metodi ed introducendo moderni macchinari industriali, grazie ai quali moltiplicarono i loro profitti. Non di rado accettarono di costituire società con imprese straniere e molti di loro fecero il passo decisivo, inserendosi nel commercio internazionale o, meglio, nel mondo della finanza e della borsa. Le ferrovie valorizzarono le loro terre e, quando le città incominciarono a crescere, essi si dedicarono alla speculazione sui lotti urbani, costruendo nuovi quartieri e nuovi centri lungo le arterie di comunicazione.
Tuttavia il nucleo più attivo delle nuove borghesie venne formato da gente meno legata al passato. Erano coloro che smaniavano cercando di raggiungere il successo sociale ed economico, inseguendolo con furia e con una punta di disperazione; appartenendo in genere alla classe media, non disponevano di molto denaro, ma avevano una notevole capacità nell’individuare dove, ogni giorno, si nascondeva la grande opportunità. Il gruppo si costituì come risultato di una spontanea selezione dei più idonei a fronteggiare la nuova situazione, cioè di quelli che seppero guardare oltre gli affari più immediati e concreti dei settori produttivo e commerciale, per vedere le infinite opportunità dell’indotto, che, in ogni situazione, si profilavano all’orizzonte nel vasto sistema dell’intermediazione che si estendeva fino all’alta finanza e alla speculazione. Gli uomini d’affari furono i veri dominatori della nuova società, grazie al loro immaginario ossessionato dal miraggio dell’arricchimento improvviso, legato ad una giocata di borsa, ad una speculazione fondiaria, ad un’avventura pionieristica, ad un’impresa industriale, senza per questo trascurare occupazioni meno significative, come l’accaparramento o la pura e semplice gestione di iniziative che garantivano lucrose commissioni e che cercavano un collegamento con i produttori, gli esportatori, i grossisti, i funzionari pubblici, i rappresentanti legali e le imprese straniere; era questo il regno misterioso nel quale si poteva entrare poveri per uscirne ricchi, dato che era tanto vasto quanto lo erano gli onnipresenti ingranaggi della mediazione. Per parteciparvi bastava avere un ufficio e non era necessario disporre di capitali; a volte persino l’ufficio era superfluo dato che la gestione degli affari poteva avvenire nella sede di un circolo, durante un festa in società, nelle antica, mere di un ministero o nei corridoi del parlamento. I membri delle nuove borghesie erano di solito oriundi e, talvolta, persino stranieri di varia origine e di altrettanto vari trascorsi. Questi ultimi svolsero un ruolo importante, dato che, in genere, portavano con sé una lunga esperienza sul funzionamento dell’intricata matassa dei traffici internazionali. Non di rado, colui che era appena arrivato, con una bancarotta più o meno fraudolenta sulle spalle, si affacciava al nuovo scenario, indagando le possibilità del paese e degli affari reali e potenziali che vi si prospettavano. Avvicinava così i gruppi più influenti, nei quali era generalmente ben accolto, in virtù della sua condizione di straniero, specie se sapeva dimostrarsi affabile e simpatico in occasione delle feste aristocratiche o delle riunioni che si tenevano presso i circoli che gli uomini erano soliti frequentare. Da lì il nuovo venuto poteva cominciare a saggiare la disponibilità dell’ambiente attraverso le commesse ministeriali, ottenendo talvolta concessioni e privilegi, amministrando investimenti e riscuotendo le relative commissioni, oppure, semplicemente, raccogliendo informazioni per poi introdursi nel recinto dorato della speculazione. Le circostanze potevano farne un trionfatore, ma se, per caso, sbagliava, danneggiando i suoi nuovi amici, era costretto a sparire, lasciando dietro di sé una scia di autentiche tragedie, del genere di quelle che l’argentino Julián Martel descrisse in La Bolsa, un romanzo nel quale veniva descritto il mondo degli affari di Buenos Aires, negli anni intorno al 1890. Al momento del crollo Martel poneva in bocca all’avventuriero francese che si faceva chiamare Fouchez un esplicito ed ingenuo monologo: «Il mio dovere, non lo nego, mi impone di liquidare i miei creditori, ma io non sono venuto in America per fare il mio dovere, bensì per far fortuna. Chi mi conosce qui? Chi sa che io sono il marchese di Charompfeux? Ovviamente, mi sento legato a questa terra dai vincoli dell’accoglienza, dato che in essa ho trovato lavoro e fortuna […] Accoglienza ho detto? Scemo che sono! Devo forse sentirmi grato nei confronti di un paese che dopo avermi arricchito, vorrebbe ora ridurmi ancor più povero di quando giunsi? Bel modo di arricchire! In fin dei conti se loro ci hanno messo il denaro, io ci ho messo il lavoro e ho collaborato alla loro crescita […] No, è deciso, scappo a Parigi e non pago nessuno […] Che importa se abbandono questa oscura repubblichetta americana, se con ciò che possiedo posso fare a Parigi una vita brillante, diventando il più raffinato elegantone del Faubourg Saint-Germain? […] L’Argentina non è posto per me […] Ho nostalgia di Parigi, l’unica città del mondo in cui la vita sia sopportabile, ed è là che andrò».
Nell’America latina di questo periodo vi furono molti Fouchez, spesso ancor più cinici del personaggio di Martel. Vi furono però anche molti stranieri, alcuni dei quali dotati di rilevante personalità, che, semplicemente, svilupparono il proprio genio e le proprie capacità imprenditoriali in piena armonia con il processo di sviluppo dell’economia del paese d’elezione. Strettamente collegati ai gruppi capitalistici del proprio paese d’origine, William Russel Grace e John Thomas North operarono nella zona del Pacifico. Il primo, nord-americano, lavorò in Perù, dedicandosi in prevalenza ai trasporti marittimi; il secondo, inglese, operò in Cile e finì per diventare proprietario di numerose imprese e, come lui stesso era solito dire, « arbitro dell’avvenire», nei settori industriali del salnitro e delle ferrovie. A Manaos, il tedesco Waldemar Scholz controllò l’estrazione e la commercializzazione del caucciù. Lo spagnolo José Menéndez riuscì a creare un polo economico nella parte meridionale della Patagonia, nella zona di confine tra Cile e Argentina, attorno a Punta Arenas. In Messico, l’inglese Weetman Pearson sviluppò l’industria tessile e ferroviaria, mentre i francesi Henri Tron, Honoré Reynaud e, soprattutto, Ernest Pugibet controllavano un’ampia quota della produzione tessile e della tabaccheria. Un catalano, Emilio Reus, promosse lo sviluppo economico di Montevideo, dove lasciò importanti vestigia del suo lavoro. Tutti costoro, insieme a molti altri di varia capacità, fondarono compagnie, raccolsero uomini e mezzi e diedero alle città il ritmo dinamico di un centro direzionale dal quale venivano progettati i destini immediati e futuri dei vari paesi. Dotati di esperienza, non soltanto prospettavano alle borghesie locali percorsi altrimenti al di fuori della loro portata, ma offrivano anche una conoscenza pratica e concreta del mondo internazionale e della gestione degli affari. In ogni città andarono rafforzandosi questi vincoli, destinati a consolidare l’interdipendenza tra le economie nazionali ed i grandi centri del mondo industriale. Tuttavia, questo genere di rapporti dava anche, alle borghesie urbane nel loro complesso, un tono cosmopolita che aiutava a superare quella sensazione di provincialismo che tanto tormentava i ricchi americani che avevano visitato Londra e Parigi, per poi ritornare, un po’ storditi, alle loro città natali. Era nato, così, un ceto moderno, capace di tenere il passo con i tempi.
Molti di coloro che facevano parte delle classi medie urbane e che, esercitando varie attività, finivano per entrare in contatto con le estreme propaggini della vorticosa circolazione del denaro, aspiravano ad integrarsi alla nuova classe dirigente. Grossisti e dettaglianti, professionisti e risparmiatori facoltosi ebbero così l’opportunità di partecipare alla grande avventura. Quelli che ebbero successo raggiunsero in un sol balzo i vertici della piramide, lasciando a quelli che fallirono, compiendo un tentativo analogo, l’immagine della memorabile affermazione del loro intuito mercantile, e della loro fortuna. Proprio per questo le nuove borghesie acquistarono i tratti di una classe avventizia, anche se non tutti i loro membri avevano, singolarmente, queste caratteristiche. Molti, se non addirittura la maggior parte, erano imprenditori e uomini d’affari che, intraviste le promettenti possibilità di un certo settore o intuita la necessità di determinate infrastrutture, si dedicavano a realizzarle, con uno sforzo intenso, ostinato ed efficace. L’avventura stava però alla base del sistema che si trasformava, dato che era proprio lei a suscitare le nuove opportunità che sollecitavano la fantasia di chi sapeva identificarle e che, talvolta, richiedevano per essere colte una certa mancanza di scrupoli, specie quando si trattava di cercare i necessari appoggi. Queste qualità, variamente combinate, delinearono, nel loro complesso, i tratti salienti di un settore sociale che, più o meno consapevolmente, stava modificando la fisionomia della propria città e del proprio paese.
Il valore attribuito all’efficacia, stimata più di qualsiasi altra cosa, finì per obbligare le nuove borghesie delle città in trasformazione a mantenersi aperte e disponibili a tutte le velleità carrieristiche che si agitavano nel profondo degli strati medi e popolari, lasciando da parte un esclusivismo che, pur affiorando a tratti, non costituiva più un valido parametro di riferimento. La società urbana divenne complessivamente più fluida ed i canali di mobilità che consentivano il passaggio da uno strato all’altro si moltiplicarono e si fecero più praticabili. Per raggiungere il piccolo olimpo dell’alta società di Messico, Rio de Janeiro o Buenos Aires non si richiedeva altro che l’abilità e, ovviamente, la fortuna necessarie per superare tutti gli ostacoli. Una volta entrati a far parte della élite era possibile godere dei privilegi offerti da una facile moltiplicazione dei beni e da un esercizio pressoché illimitato del potere.
Senza dubbio i membri delle nuove borghesie riuscirono, specie nelle capitali, a controllare simultaneamente il mondo degli affari e quello della politica, operando nell’uno e nell’altro in modo da suscitare i processi di cambiamento ed a trarne profitto. Essi manovrarono i centri decisionali dell’economia, fondando banche o conquistandone la direzione per mezzo di scalate a volte tortuose, controllando, nei limiti del possibile, l’andamento del mercato borsistico e facendo fronte comune con il capitale straniero che operava nel paese tramite abili rappresentanti. Inoltre i membri delle nuove borghesie controllavano anche i meccanismi dell’import-export, regolandone le quote, fissandone i prezzi e tessendo trame destinate a cogliere di sorpresa e a mandare in rovina la concorrenza; facendo leva sulle amministrazioni pubbliche essi mettevano in funzione ben congegnati dispositivi che andavano a colpire i ceti medi e modificavano di conseguenza la condotta dei centri produttivi. Tutti erano a conoscenza dei limiti imposti al proprio gioco da chi controllava le leve del mercato mondiale. Nonostante questo, restavano però margini d’azione abbastanza ampi da consentire a chi vi operava di sentirsi potente. Tutto un mondo di procuratori, avvocati, amministratori e rappresentanti provvedeva ad oliare opportunamente gli ingranaggi di un meccanismo le cui leve fondamentali erano comunque controllate tramite il potere politico.
Il potere politico era del resto esercitato dalle stesse persone o comunque dai loro prestanome. I membri della nuova borghesia acquisirono un progressivo controllo dei centri decisionali della politica; era possibile vederli agire, di persona o meno, all’interno dei ministeri, alla testa dei grandi organismi pubblici, sui banchi delle assemblee legislative o nelle cariche del potere giudiziario. La legge, il decreto ed il regolamento necessari ad una determinata politica venivano studiati e redatti dagli stessi gruppi che poi ne beneficiavano per le proprie attività private. Le idee che ispiravano questi progetti erano ufficialmente difese dai vari partiti politici, tradizionali o di circostanza, nella cui gestione era però possibile intravedere l’azione o l’influenza dei soliti gruppi. Questa unità di intenti e questa coerenza testimoniavano del grado di omogeneità interna che le nuove borghesie andavano acquistando, mediante l’integrazione di uomini e gruppi di varia provenienza, la cui coalizione era resa possibile dal fatto che tutti davano una stessa risposta alla sfida lanciata dai grandi centri economici e finanziari dell’Europa e degli Stati Uniti.
Questa coesione era, probabilmente, il risultato di un progetto determinato dalla congiuntura economica internazionale e sostenuto dall’adesione degli individui e dei gruppi che formavano la classe dirigente delle città latinoamericane nelle quali venivano prese le decisioni locali. Inoltre, la maggioranza degli individui e dei gruppi era legata al progetto anche in funzione dei propri interessi privati. In questa concezione del liberalismo economico era implicito un indebolimento della solidarietà collettiva, dato che, in definitiva, il complesso non era formato da coloro che condividevano un rischio, ma da coloro che si trovavano d’accordo su una promettente avventura. Perciò si può dire che, a differenza del vecchio patriziato, le nuove borghesie costituivano una classe poco solidale al suo interno, priva dei vincoli garantiti all’economia tradizionale dai legami familiari e dall’intima frequentazione e conoscenza. Le nuove borghesie, al contrario, nacquero come raggruppamento tra partners commerciali, ciascuno dei quali era disposto a giocare il tutto per tutto all’interno di un sistema di relazioni competitivo e privo di misericordia, nel quale il trionfo e la disfatta, cioè la ricchezza o la miseria, erano le uniche alternative possibili.
Le successive crisi finanziarie, che conclusero l’euforica stagione delle avventure imprenditoriali, dei progetti folli e privi di realismo e, soprattutto, degli investimenti temerari e dei prestiti mal utilizzati, non fecero che evidenziare queste caratteristiche. La speculazione fece traballare i ponteggi che, precipitando, trascinarono nella loro caduta tutti quelli che avevano fatto il passo più lungo della gamba. Bancarotte fraudolente, suicidi, persone che dai vertici della ricchezza precipitavano nella più totale indigenza, furono i temi preferiti dal romanzo naturalista di questo periodo, proprio perché questa era la più esemplare vicenda simbolica di una società che sembrava non conoscere altra legge eccetto quella dell’ascesa sociale basata su un’improvvisa fortuna. A titolo di esempio, in Argentina ebbero successo due romanzi come La Bolsa di Julián Martel e Quilito di Carlos María Ocantos. Il miraggio della ricchezza è da sempre un tratto caratteristico delle società in rapida trasformazione, così come la fortuna è da sempre un paradigma volubile. Coloro che ne erano baciati potevano andare in rovina fin dal giorno seguente. Questo schema metteva in evidenza quale fosse la struttura interna delle nuove borghesie che avevano raggiunto il vertice di una società il cui valore fondamentale era costituito dalla carriera.
Ovviamente furono proprio la speranza e la possibilità di far carriera a promuovere l’immigrazione, sia proveniente dall’estero, sia interna ai vari paesi latinoamericani, dove la popolazione si trasferiva dalle regioni povere a quelle ricche e dalle campagne alle città. L’intensa mobilità geografica era conseguente alle aspettative di mobilità sociale che crescevano fino a diventare ossessive. Se poche migliaia di nuovi venuti poterono accedere direttamente alle classi medio alte, la grande maggioranza degli immigrati andava ad ingrossare le fila delle classi popolari. Lo sgomento e la sorpresa degli antichi settori creoli di fronte ad una società che diventava sempre più composita e cosmopolita toccarono in questo periodo il loro culmine; gli stranieri attiravano l’attenzione dei ceti medi, dato che in alcune città avevano ottenuto un virtuale monopolio delle attività commerciali e si consideravano i padroni della città, come, per esempio, i tedeschi a Maracaibo o gli spagnoli a Veracruz. Ancor più sconcertante era però il grado di ibridazione delle classi popolari, specie nelle grandi città, molte delle quali vennero paragonate ad una moderna Babele. L’immigrazione, infatti, si diresse in prevalenza verso le grandi città, dato che in esse sperava di trovare un più ampio ventaglio di possibilità per tentare la fortuna.
Trasformate dalla presenza di forti gruppi di immigrati o ancora praticamente immutate, le classi popolari acquisirono comunque una nuova posizione all’interno delle città che si trasformavano. Fecero la loro comparsa nuove possibilità di lavoro, determinate a volte dalla crescita spontanea o create, in altri casi, dall’ingegno di coloro che dovevano procurarsi da vivere sfruttando la propria conoscenza dei segreti della vita urbana. Coloro che non avevano altro che la forza delle proprie braccia trovarono lavoro nei porti, nell’industria delle costruzioni o nei lavori pubblici, dove si veniva pagati a giornata. In seguito avrebbero sempre potuto cercarsi un lavoro fisso come commessi di negozio o come operai di officina. La città che cresceva continuava infatti ad offrire nuove opportunità. Si poteva trovare lavoro facendo il fattorino di un ufficio pubblico, il ragazzo di bar, il cameriere, la maschera di teatro e di cinema, l’autista, il vetturino, il portalettere, il lustrascarpe, il venditore di biglietti della lotteria o una qualsiasi delle infinite altre cose. I servizi domestici assorbirono un considerevole numero di persone e la polizia e i trasporti pubblici urbani fecero altrettanto. Questo sviluppo delle possibilità di lavoro non qualificato servirono non soltanto a canalizzare le aspettative delle nuove classi popolari, ma anche a scuotere la tradizionale sonnolenza di questi gruppi, i cui membri, fino a questo momento contenti della propria sorte, incominciavano ora a vedere e ad invidiare la prosperità del vicino che si era dato da fare. Gli immigrati diedero l’esempio ai piccoli risparmiatori. Con lunghi e duri sacrifici il commesso di negozio e il venditore ambulante finivano per raccogliere un piccolo capitale, sufficiente per rendere stabile la propria posizione; a partire da questo momento era quasi certo l’inserimento nella classe media. Nel volgere di una sola generazione, dalla famiglia di un onorato bottegaio poteva venir fuori un diplomato o un laureato.
Il passo dai servizi urbani al piccolo commercio costituì uno dei percorsi più tipici nelle carriere delle classi popolari delle città in crescita. Il sorgere di nuovi quartieri creava una mentalità di frontiera, dato che in essi tutti incominciavano una specie di nuova vita e i pregiudizi e le domande sul passato non avevano più né valore né senso. La merceria o il negozio di commestibili aperto dall’immigrato intraprendente diventava facilmente il punto di riferimento di un nuovo distretto, costituito da pochi edifici. Nel volgere di poco tempo il commerciante aveva tratto profitto dall’espansione di questo nucleo ed era riuscito a mettere da parte una piccola fortuna. Poteva avere inizio un’ulteriore tappa dell’infinito sogno costituito dall’ambizione.
Per altri il lavoro quotidiano fu rappresentato dall’industria e dalle nuove fabbriche che incominciarono a fare la loro comparsa. Ci fu lavoro nelle officine ferroviarie, nelle fabbriche tessili, nella lavorazione dei tabacchi e del vetro, nei calzaturifici e nella produzione degli articoli più vari, dovunque il fabbricante ritenesse possibile competere con i generi di importazione. Comparve così, poco a poco, un nuovo settore interno alle classi popolari: il proletariato industriale; pur non essendo consistente dal punto di vista numerico questo gruppo poteva contare su una fisionomia sociale assai ben definita.
In alcuni paesi il reclutamento industriale riguardò in prevalenza gli immigrati stranieri, ma altrove entrarono a far parte del nascente servizio industriale anche lavoratori nazionali, in genere meticci, negri o mulatti che, più rapidamente degli altri, seppero adeguarsi alle caratteristiche del nuovo sistema. A volte si trattava di gente di città che, semplicemente, cambiava mestiere, ma più spesso si trattò di contadini, provenienti dalle campagne o dai villaggi rurali, attratti, di norma, dagli alti salari che speravano di trovare. Nelle attività industriali tutti dovettero adeguarsi ad una disciplina alla quale non erano abituati, assimilando i ritmi impersonali che l’impresa imponeva attraverso i propri quadri intermedi. Nel corso di queste pratiche il settore popolare incominciò ad organizzarsi ed a calcolare le proprie azioni e reazioni per difendere i propri interessi.
Ai membri del nascente proletariato industriale non era consentita l’allegra informalità propria del venditore ambulante o del conducente di tram, che sapevano sempre trovare lo spazio per una pausa di piacevole e disimpegnata conversazione. I proletari, però, andarono poco a poco trasformandosi in una classe combattiva, anticonformista e capace di dar voce alla propria rivolta. Gradualmente, faceva la sua comparsa nelle città un settore popolare che si lasciava alle spalle il vecchio sistema patriarcale e che, di conseguenza, non era più disposto ad avere con il datore di lavoro l’ambiguo rapporto che legava ai signori un servo o un cameriere di ristorante. Al pari delle fabbriche, le grandi città avevano infatti reso impersonali le relazioni sociali, scatenando tensioni fino ad allora sconosciute.
L’impersonalità delle relazioni sociali contribuì a modificare la fisionomia dei settori emarginati, che ebbero sia un forte incremento quantitativo che una profonda metamorfosi qualitativa. Aumentò il numero dei mendicanti e diventò sempre più improbabile che una dama di carità potesse continuare ad avere i «suoi» poveri: diminuì infatti il numero dei vagabondi rassegnati e filosofici, mentre aumentò il contingente dei violenti. Anche la delinquenza subì una trasformazione, diventando più raffinata e meglio organizzata, fino ad arrivare, ai suoi massimi livelli, a stringere connivenze internazionali, come accadde, prima, con il gioco d’azzardo e, poi, con il traffico degli stupefacenti. Ancor più prospera fu la tratta delle bianche, che fornì ai bordelli delle grandi città in trasformazione non solo l’abile direzione di tenutarie europee, ma anche bionde prostitute che intenerivano il cuore ai frequentatori dalla pelle scura. Nel crescente anonimato delle grandi città, la malavita assumeva un’aria più aspra e più crudele, in parallelo con la maggiore drammaticità della nuova miseria urbana.
Coloro che affollavano il pigia pigia delle città sperando di trovare un salario giornaliero o un’elemosina che gli consentisse di farne a meno, sommati a coloro che non disponevano di un salario sufficiente a garantire la sussistenza, davano in realtà corpo ad un settore non meno emarginato di quello della malavita. Finché non riuscivano a superare certi livelli minimi, per porsi sulla via di un possibile miglioramento, non si può dire che i membri di questa classe partecipassero davvero alla vita di una società che si identificava nell’amore per il lusso e che misurava con il denaro il valore degli individui e dei gruppi. Al di sotto dei livelli minimi c’era, a Buenos Aires, il cosiddetto atorrante, cioè il vagabondo che eleggeva dimora nei tubi delle condotte che, ammonticchiati per le strade, attendevano la messa in opera della rete fognaria; analogamente, a Santiago del Cile, il roto, cioè lo straccione era una tipica espressione della miseria urbana. Il romanziere Joaquín Edwards Bello descrisse questa figura collocandola all’interno del proprio ambiente, costituito dai miserabili baraccati che si erano formati, per esempio, nei dintorni della stazione Alameda. In queste zone i rotos si ammonticchiavano in miserabili dormitori, simili a quelli del Tepito messicano, dei vicoli di Lima, dei cortiços brasiliani e delle case di carità di Buenos Aires; coloro che vi si rifugiavano precipitavano in forme infraumane di vita. Con grave rischio, convivevano fianco a fianco in questa situazione coloro che lottavano per inserirsi e coloro che, invece, avevano accettato la propria emarginazione, avviandosi al crimine e alla prostituzione. Questa promiscuità riduceva, per tutti, la possibilità di raggiungere la posizione minima da cui poter aspirare all’agognato paradiso della classe media.
Il fenomeno sociale più sorprendente e significativo delle città che, sotto la spinta dei cambiamenti economici, andavano trasformandosi, fu certamente lo sviluppo e la relativa evoluzione dei ceti medi. Naturalmente, già in precedenza esisteva una classe di mezzo, costituita dai commercianti, dai liberi professionisti, dai burocrati, dai militari, dai preti e dai funzionari. Ciononostante, questi settori conobbero un’espansione tale da creare per essi nuove opportunità e nuove prospettive. La città era, fondamentalmente, un grande apparato di mediazione e furono proprio le necessità di questo settore ad incentivare la produzione. Per mantenere in funzione tutto questo era necessario un sempre maggior numero di burocrati, di funzionari, di commercianti, di militari e di poliziotti. I membri dell’antica classe media, di solito originari della città, avevano maggiori possibilità di ricoprire queste cariche, anche se quelli che arrivarono da fuori ed incominciarono la propria carriera dai gradini più bassi si dimostrarono capaci di risalire, pian piano, la corrente, a furia di tenacia e di umiliazione, dandosi da fare e risparmiando il necessario per poter raggiungere e manifestare pubblicamente il modesto grado di dignità richiesto dalla condizione di membro della classe media. Di norma, solo in un secondo tempo era possibile fare fortuna, appoggiandosi alla clientela politica di qualche personaggio influente o avvicinando gli intrighi di qualche gruppo di potere.
Il passaggio dalle classi popolari alle classi medie fu tutt’altro che raro e, in alcuni casi, avvenne rapidamente. Il commercio, le professioni esercitate dai figli di chi aveva fatto il primo passo, e il prolungato legame a ditte che premiavano la fedeltà e l’impegno dei propri dipendenti furono, insieme alla politica, i canali preferenziali di questa integrazione. Sull’altro versante, le possibilità di farsi luce percorrendo i vari strati della classe media, fino ad arrivare ai suoi vertici, andarono aumentando in parallelo con lo sviluppo degli affari e con l’ampliamento degli orizzonti che si aprivano via via alle società in crescita. Per fare il gran salto era, di solito, necessario disporre di un certo capitale di partenza, accumulato lentamente e poi investito nella meticolosa scalata che portava all’affermazione sociale; lo stesso risultato poteva però essere ottenuto con altrettanta efficacia, grazie alla protezione di un potente o ad un matrimonio di interesse. La mobilità costituì dunque la regole d’oro delle nuove classi medie che, per grandezza e per le loro specifiche caratteristiche, lasciarono la propria impronta nella trasformazione delle città. Ciò avvenne non solo perché in esse si riflettevano le peculiarità del processo sociale in atto, ma anche perché furono i membri di queste classi a permettere il rinnovamento delle forme di vita, poiché compravano i giornali, discutevano nei caffè, facevano acquisti nei nuovi negozi da cui si diffondeva la moda parigina, affollavano gli androni della borsa e gli sportelli delle banche e lavoravano negli uffici e nel commercio. Furono sempre loro i primi che cominciarono a pensare di avere il diritto di partecipare al potere; per questo andarono ad ingrossare le fila dei nuovi partiti politici che, in nome di una più vasta democrazia, mettevano in discussione il potere delle antiche oligarchie.
In pochi anni, venti o trenta città latinoamericane assistettero, quale più, quale meno, alla trasformazione delle rispettive società e all’accantonamento delle forme di vita e delle abitudini dei gruppi tradizionali. Al posto di queste convenzioni, le nuove società andarono lentamente ponendo, mano a mano che le elaboravano, le fondamenta di una nuova cultura urbana, che avrebbe incominciato a svilupparsi in quelle città che per prime modificarono le linee del proprio aspetto esteriore.
L’esempio di Haussmann
Una società in via di rinnovamento sembrava chiedere una parallela trasformazione del proprio ambiente fisico. Di certo numerose città latinoamericane incominciarono a rinnovare la propria fisionomia proprio a partire dagli ultimi decenni del secolo XIX. L’incremento demografico rese necessario l’utilizzo di nuove zone residenziali e lo sviluppo commerciale ed industriale necessitò di ampi spazi in prossimità dei centri urbani. Lungo le strade di accesso, accanto a nuclei di popolamento già esistenti, o in prossimità di poli di attrazione determinati, come, per esempio, una stazione ferroviaria o una zona industriale, andavano crescendo nuovi quartieri. Era una crescita spontanea, consolidata nel volgere di poco tempo dalla prestazione di alcuni servizi che miglioravano le condizioni di vita dei pionieri dell’espansione urbana: l’acqua, i trasporti, le fognature e l’illuminazione.
Tuttavia, accanto a questa trasformazione spontanea determinata dalla crescita, alcune città latinoamericane conobbero anche una trasformazione programmata e destinata ad avere una grande influenza. Mentre le città si espandevano mediante il popolamento di zone periferiche, il nucleo più antico della città conservava il suo aspetto tradizionale, spesso deteriorato dal trascorrere del tempo e dall’incuria, dovuta alla presenza di gruppi sociali più modesti di quelli che avevano abitato in origine gli antichi edifici. Le nuove borghesie si vergognavano per l’umile atmosfera coloniale tipica del centro della città e, dove ne ebbero l’opportunità, cercarono di trasformarlo, senza esitare, in alcuni casi, a demolire alcune zone di antica tradizione. La demolizione dell’antica planimetria per fare spazio alla nuova e consentire l’ammodernamento architettonico fu, tuttavia, una extrema ratio alla quale, in questo periodo, non vi giunsero che poche città, anche se la demolizione si trasformò in una mitica aspirazione che sembrava incarnare il definitivo trionfo del progresso. Dove non si potè o non si volle arrivare a tanto, si cercò comunque di pianificare lo sviluppo delle zone adiacenti al centro tradizionale, nonché dei nuovi quartieri residenziali, tenendo conto dei più moderni principi urbanistici. Un’influenza determinante era esercitata sulle borghesie dal modello della trasformazione di Parigi, voluta da Napoleóne III e realizzata dal baroneHaussmann.
L’audace principio ispiratore della modernizzazione urbana fu dunque la distruzione del nucleo originario, volta sia ad allargarne le strade, sia a stabilire agevoli arterie di comunicazione che collegassero il centro alle nuove aree edificate. All’interno di questo schema trovava però posto una vocazione barocca o, meglio, l’aspirazione ad un barocco borghese, che si manifestava nella preferenza accordata ad edifici pubblici monumentali, dotati di lunga prospettiva, nonché ai monumenti, collocati, di norma, in luoghi particolarmente significativi, mentre anche le costruzioni private propendevano per uno stile signorile e magniloquente. Grandi parchi, larghi corsi, efficaci e moderni servizi pubblici avrebbero dovuto «lasciare di stucco il viaggiatore», per usare una frase assai in voga agli inizi del secolo.
I viaggiatori non nascosero il loro stupore anche se riconobbero unanimemente la palese influenza che la concezione di Haussmann aveva esercitato sul riammodernamento delle città. Il barone di Rio Branco avrebbe definito «Haussmann brasiliano» Francisco Pereira Passos, prefetto di Rio a partire dal 1902. Quando a Montevideo il Consiglio Generale delle Operg Pubbliche suggerì di adottare il piano di ammodernamento che l’architetto Norberto Maillart aveva presentato nel 1887, la decisione si basò sul fatto che il progetto era conforme alla concezione di Haussmann. A questa stessa filosofia fecero riferimento, a partire dal 1880, il sovraintendente bonaerense Torcuato de Alvear, i suoi successori ed i prefetti di San Paolo Antonio Prado e Raimundo Duprat, che lavorarono al piano urbanistico della città a partire dal 1898. Altri si impegnarono nella stessa direzione in altre città, ma la portata della loro opera risultò più modesta, dato che non ebbe come obiettivo l’alterazione del nucleo originario, ma l’organizzazione dello spazio che veniva occupato per la prima volta nel corso di quel periodo.
Buenos Aires optò per le demolizioni. Inserita nel sistema federale, nel 1880, vide Torcuato de Alvear, da poco nominato sovraintendente, impugnare con decisione il piccone. Cadde sotto i suoi colpi la Recova Vieja, che tagliava in due l’attuale Plaza de Mayo; poco dopo crollò buona parte dell’antico Cabildo coloniale, per lasciare il passo ad un viale destinato a collegare la piazza dove, in origine, c’era la Fortezza e dove ora si stagliava la Casa Rosada, con un’altra piazza oltre la quale sarebbe stato costruito il monumentale palazzo del Congresso. Di fatto, venne realizzato in breve tempo il taglio della Avenida de Mayo che ben presto si trovò ad essere costeggiata in tutta la sua lunghezza da moderni edifici di vario stile, tra i quali c’erano anche alcuni audaci esempi di art nouveau. A partire da questo momento il cuore di Buenos Aires cominciò a trasformarsi. Sotto la Avenida de Mayo e la calle de Rivadavia incominciò a circolare, pochi anni più tardi, la prima sotterranea dell’America latina. Non molto più tardi vennero progettate due grandi diagonali che dovevano intersecare la Plaza de Mayo, da cui si dipartivano, mentre veniva aperta anche una grande arteria che tagliava la città da nord a sud e che è oggi il Corso del 9 di luglio. Centinaia di vecchie case caddero per consentire la realizzazione di questi progetti.
A Rio de Janeiro fu necessario demolire settecento edifici per aprire la Avenida Central, successivamente ribattezzata Rio Branco e destinata a collegare piazza Mauá all’Obelisco. Tutto il nucleo antico venne modificato; due colline vennero spianate, ai lati del nuovo viale, per lasciare posto a due ampi spiazzi. Da quel momento il Largo da Carioca si trasformò nel vero punto nevralgico della città mentre il viale appena tracciato si ricopriva di nuove costruzioni con vista sul Pan di Zucchero. La trasformazione venne completata dalla realizzazione di altri progetti complementari: l’allargamento della Calle de 13 Mayo, l’apertura dei viali Beira-Mar, Rodríguez Alves, Francisco Bicalho, Mem de Sá e Salvador de Sá. Le dimensioni della città, ancor memore della rua do Ouvidor, subirono una sostanziale modifica, sia in centro che nei nuovi quartieri periferici.
A proposito della capitale dello stato di San Paolo, Roberto Capri ebbe a scrivere nel 1912: «[…] si tratta di una città quasi europea, interamente composta da magnifiche costruzioni in bello stile italiano, attraversata in ogni sua parte da viali e strade punteggiate di fabbriche ed edifici pubblici di notevole sfarzo, dove si svolge una vita intensa e di grande respiro». Il centro storico, denominato «triangolo», era rimasto intatto, ma per uscire verso i quartieri periferici era ora possibile imboccare i grandi viali di San Juan, Rangel Pestana e Tiradentes. Sia il corso Higiénopolis che l’Avenida Paulista incominciarono ad essere fiancheggiati da lussuose costruzioni, dato che si stavano trasformando nei nuovi punti di riferimento della città. Più contenuto fu lo sviluppo di Montevideo che si manifestò principalmente nella normalizzazione delle arterie di accesso alla città, nella progettazione della prima parte della Rambla, che collegava il porto a Pocitos, e soprattutto nel progetto, finalmente approvato, della Avenida Agraciada, situata tra il viale del 18 di Luglio e il Palazzo del Parlamento, collocato in modo da godere di un ampio cono prospettico.
I numerosi edifici di stile classico e di stile francese di cui poterono fregiarsi, in poco tempo, tutte le città in cui venivano aperti nuovi viali, mettevano in evidenza un certo gusto per l’ostentazione e una spiccata inclinazione alla monumentalità. I palazzi legislativi di Montevideo e Buenos Aires, il palazzo delle Belle Arti a Messico, il Teatro Colón di Buenos Aires e quello Municipale di Rio de Janeiro evidenziarono la ricchezza e i tratti peculiari del gusto delle borghesie che dominavano le città in trasformazione. Vi fu un’evidente predilezione per i giardini alla francese e per i viali molto larghi. Anche nelle città in cui i cambiamenti furono più modesti fecero la loro comparsa parchi e viali: il Paseo de Colón e la Avenida Arequipa a Lima, l’Avenida Bolívar a Caracas e l’Avenida Colón a Bogotá. La passeggiata in carrozza era una vera e propria cerimonia sociale. Se in precedenza veniva praticata soltanto nei giardini del parco Palermo di Buenos Aires, nei viali alberati di Lima e Santiago e nel Paseo de la Reforma a Città del Messico, andò poco a poco diffondendosi anche in altri luoghi come il Prado di Montevideo, il bosco di Chapultepec a Messico e il Paseo de Colón a Lima. Aumentò il numero delle piazze e delle piazzette, accuratamente tenute in ordine nei quartieri alti, dove gli spiazzi più importanti erano soliti ospitare i monumenti degli eroi; grandiose statue equestri di Bolívar e di San Martín vennero collocate in molte città, a fianco di quelle dedicate agli eroi nazionali, come, per esempio, quella di Alvear, che il municipio di Buenos Aires commissionò a Bourdelle, e quella di Artigas a Montevideo; altrove si preferirono altre pose, come, ad esempio, quelle di Tiradentes a Rio, di Sarmiento a Buenos Aires, di Juárez a Messico e di Santander a Bogotá.
Diverso fu il destino dei centri storici, che in quasi tutte le città continuarono ad essere il centro dell’amministrazione e del commercio, anche se furono pochi i casi nei quali, com’era avvenuto, in particolare, a Rio de Janeiro e a Buenos Aires, essi poterono modernizzare la propria struttura e architettura e mantenere inalterato il proprio prestigio. Nella maggioranza dei casi il centro storico dovette rassegnarsi al declino provocato dalla nuova dislocazione delle classi sociali. Le famiglie dell’alta società, quelle che solevano essere definite «della piazza» incominciarono a spostarsi in direzione opposta a quella dei settori popolari, che finirono per occuparne i grandi palazzi, trasformandoli in dormitori ed inquilinati. Nuovi quartieri residenziali separati dal centro ospitarono coloro che abbandonavano i dintorni della piazza Maggiore. La Alameda e i quartieri che si svilupparono lungo Avenida Providencia, attrassero, a Santiago del Cile, tutti i notabili, come accadde anche a Montevideo, prima con il Prado e poi con i quartieri di Ramírez e di Pocitos. Analogamente andò precisandosi la connotazione sociale ed architettonica del Quartiere Nord a Buenos Aires, di Catete e Laranjeiras a Rio de Janeiro e più in generale di tutti i quartieri che si formarono a ridosso dei corsi a mare, o nei dintorni delle città dell’interno, come le «colonie» di Roma e di Juárez e, in seguito, le Lomas (colline) di Chapultepec, a Città del Messico, come Chapinero a Bogotá, come Sabana Grande a Caracas, per non parlare della tendenza, tipica di Lima, a ritirarsi nei quartieri esclusivi del Country Club di El Paraíso e di Miraflores, ricalcati sulla Higiénopolis di San Paolo. In alcuni casi si trattava di antichi villaggi o di piccoli centri satellite che vennero, in questo modo, incorporati nella struttura urbanistica della città. La ferrovia e i viali carrozzabili resero minime le distanze, pur consentendo a questi quartieri residenziali di conservare una caratteristica autonomia nucleare, spesso supportata da esercizi commerciali e strutture di servizio del tutto indipendenti. Un architettura di qualità e spesso di ottimo gusto e stile conferì ai centri residenziali un’aria elegante, talvolta resa ancor più raffinata dalla presenza nei dintorni di un ippodromo, di un tennis club o di un esclusivo circolo di golf.
A volte questi quartieri nacquero dal frazionamento di qualche proprietà rustica, talvolta dotata di un antico boschetto che si faceva in modo di conservare. Tuttavia con un procedimento analogo incominciarono ad essere frazionati anche lotti di prezzo più modesto, destinati ad un pubblico di condizione economica media o bassa, di modo che in molte città sorsero un’infinità di quartieri, costituiti da persone che avevano comprato a rateun appezzamento fabbricabile e che in seguito vi costruivano con enormi sforzi una camera ed una cucina nelle quali incominciavano a vivere, sentendosi ormai a «casa propria». Il frazionamento e la vendita dei lotti acquistò in alcuni casi le caratteristiche di una vera e propria festa popolare, organizzata da fantasiosi banditori che erano contemporaneamente concessionari, impresari ed urbanisti. Costoro sfruttavano con astuzia il desiderio che le classi popolari avevano di lasciarsi alle spalle i tuguri del centro per diventare proprietari di una casa tutta loro, per modesta che fosse. I banditori, alcuni dei quali divennero famosi, come, per esempio, Piria a Montevideo, convocavano i potenziali acquirenti, cioè coloro che erano riusciti a mettere da parte una certa somma, li portavano sul luogo dell’assegnazione, facendo precedere il corteo da una banda di ottoni che suonava a tutto volume, e mentre i bambini giocavano nei prati, i banditori provvedevano a far diventare realtà il piano di ripartizione, sparandole grosse e indicando con convinzione i luoghi dove sarebbero sorte la scuola, la chiesa e il commissariato, senza trascurare di elogiare tutti i vantaggi del sito in generale e di ciascun lotto in particolare. Quella dell’espansione delle città fa. dunque un’avventura singolare, mediante la quale ciò che fino a un momento prima era stata campagna prospiciente alla città si trasformava come per miracolo in territorio urbano. I prezzi non avevano parametri fissi e la speculazione prese spesso per il collo coloro che aspiravano al possesso di un lotto, approfittando del fatto che coloro che non avevano avuto il coraggio di comperare quando non c’era nessuno, si entusiasmavano non appena vedevano sorgere le prime case o il primo negozio di commestibili. Era questo il momento in cui chi aveva comprato con propositi speculativi poteva conoscere la sua grande stagione. Nel corso di questa trafila la terra diventava sempre più cara ogni volta che si procedeva alla ripartizione di nuovi lotti, in perfetto parallelo, del resto, con quanto accadeva nelle zone del centro e nei moderni quartieri residenziali.
Nelle zone popolari l’architettura fu molto essenziale. L’acquisto del terreno e le spese necessarie alla costruzione presupponevano costi che di norma oltrepassavano le possibilità immediate di chi si accingeva all’impresa, dato che gli assegnatari dei lotti acquistavano confidando nel futuro e nelle capacità di lavoro e di risparmio. Tutto girava sul futuro e la cosa importante era abbandonare il tugurio e smettere di pagare l’affitto, in modo che la preoccupazione più immediata fu proprio quella di tirar su i primi quattro muri, per poterci appoggiare un tetto. Nacquero così quartieri popolari privi di stile, fatta eccezione per quel poco che poteva far parte dell’esperienza del muratore o del bagaglio professionale del capomastro: un minimo di senso delle proporzioni, un po’ d’ordine nella disposizione delle porte e delle finestre e talvolta una cornice lineare indicavano, di solito, la mano dell’esperto artigiano e la cultura materiale che la guidava. Si trattava però di un fatto sporadico. La fretta del futuro proprietario poteva infatti spingerlo ad intraprendere l’opera di propria mano, memore della tradizione rurale dei ranchos o ispirato dalla vista dei sobborghi di baracche che circondavano i centri urbani della regione. In questi casi, il complesso che nasceva portava con sé le tracce della propria natura bastarda ed elementare.
La mano di un muratore che conoscesse il mestiere e certi piccoli vezzi dei proprietari potevano, di tanto in tanto, distinguere dalle altre le case della classe media, nelle quali almeno la facciata aveva, di solito, un qualche pretesa estetica, confortata, all’interno, dall’accurata scelta della carta da tappezzeria, dei soprammobili e delle tende. Mano a mano che il livello sociale cresceva, tutto tendeva ad un graduale miglioramento e al contempo ad un maggiore rispetto delle convenzioni e dei canoni sociali propri di un agiato tenore di vita.
Dalla strada era possibile formulare un’infallibile diagnosi sociale che l’osservatore poteva cogliere sulla base della propria esperienza. Per contro, la preoccupazione stilistica aveva un ruolo fondamentale nei quartieri della classe media più agiata e dell’alta società. In queste zone potevano essere costruiti solo edifici di una certa levatura, che, per essere realizzati, richiedevano la consulenza di un architetto, meglio se straniero, disposto a discutere il progetto e, cosa ancor più importante, a determinare i canoni di stile; tutto questo avveniva però nella piena consapevolezza che si sarebbe comunque arrivati ad optare per lo stile francese, eccetto in quei casi nei quali il proprietario avesse subito l’influsso estetico di un qualsiasi genere di revival: gotico, moresco e, in certi casi, ancora più esotico. Il cosiddetto stile francese, più o meno puro, ma sempre emulato con rigore, caratterizzò le case bene dell’alta borghesia e in genere le residenze lussuoso, cioè i petit-hotels e i palazzi, di chi aveva raggiunto i più alti livelli economici e aspirava al prestigio quasi sublime che lo sfarzo sembra conferire. Ortodosso e tradizionale, lo stile francese sembrava fatto apposta per consacrare l’importanza sociale di chi, ispirandosi ad un rigido formalismo, decideva di adottarlo. Questa consacrazione era per le borghesie arricchite troppo in fretta un obiettivo primario ed imprescindibile per potersi sentire saldamente collocati ai vertici della gerarchia sociale.
Vi fu, però, chi preferì altri stili, forse per mancanza di una consulenza adeguata a ciò che era più opportuno. Alcuni, facendo propri gli entusiasmi suscitati dall’art nouveau, parvero trovare nei modelli francesi e catalani di questa produzione sia la novità del momento che una certa inclinazione per un eclettismo sfarzoso ed eccessivo che rispecchiava fedelmente un certo tipo di gusto caratteristico delle classi opulente. Pinnacoli dalle forme attorcigliate e imponenti statue si alternavano lungo le facciate con enormi cornici sporgenti e stucchevoli, in un guazzabuglio di fantasmagorica dismisura che sfidava apertamente tutte le regole dell’architettura classica e del gusto tradizionale. Alcune guglie e alcune decorazioni, particolarmente ben riuscite, mandarono in estasi gli intenditori, ma lo stupore e l’interesse dei più era, in genere, dovuto agli eccessi del cattivo gusto e alle ridondanze dell’apparato decorativo. In contrasto con questa tendenza le sedi delle esposizioni e le stazioni ferroviarie ispirate al modello della Victoria Station di Londra, esibivano invece le proprie strutture metalliche sottolineando così la propria condizione di monumenti all’industria e al progresso.
Nel frattempo, molte città migliorarono in modo sostanziale le proprie infrastrutture. Molti porti vennero ristrutturati, allungando le dighe ed i moli, ampliando i depositi ed aumentando il numero delle gru e dei binari merci; per far fronte alle epidemie che si trasmettevano lungo le rotte marittime vennero organizzati anche i servizi sanitari, grazie ai quali Osvaldo Cruz poté, combattere la febbre gialla a Rio de Janeiro. Per completare l’opera di profilassi necessaria alle grandi città, le carenze non si limitavano certo al settore della medicina preventiva. Vennero così iniziate imponenti installazioni di condutture fognarie e le città vennero dotate di una rete idrica capace di assicurare le forniture di acqua corrente. Fiumi e torrenti incominciarono ad essere convogliati all’interno di grandi tubazioni, in modo che sopra alcuni di essi potessero passare importanti arterie stradali come l’Avenida Jiménez de Quesada a Bogotá o quella dedicata a Juan B. Justo a Buenos Aires.
L’illuminazione pubblica a gas destò l’ammirazione di tutti quelli che erano abituati alle lampade ad olio, mentre la luce elettrica spaventò addirittura tutti coloro che poterono assistere allo spettacolo il giorno in cui vennero inaugurati i primi tracciati. I tram a cavalli vennero sostituiti da quelli elettrici e in seguito incominciarono a circolare anche gli autobus. In alcune città fece la sua comparsa un aeroporto. Quando ormai si era diffuso l’uso del telegrafo e del telefono, si incominciarono a vedere le prime antenne per la trasmissione e la ricezione della radiotelefonia. Anno più, anno meno, tutto avvenne proprio come in Europa, dato che le innovazioni tecniche vennero introdotte quasi subito in America latina. La società che si rinnovava si appropriava con la massima rapidità di tutte le conquiste del progresso e si affrettava a modernizzare le proprie città, provvedendole di tutti i marchingegni pionieristici che, a partire dall’epoca di Haussmann, gli urbanisti avevano creato per risolvere i problemi posti dalla crescente concentrazione urbana.
Tuttavia, occorre chiedersi quante siano state le città che seguirono l’esempio di Haussmann. Lo sviluppo spettacolare si ebbe soltanto in poche capitali; nelle altre e in alcune città di particolare importanza vennero realizzati solo alcuni segmenti di un piano generale del tutto teorico, che, nella sua maggior parte, non sembrava costituire un problema di particolare urgenza. Nella maggior parte dei centri urbani la struttura coloniale rimase poi quasi del tutto inalterata. Si tratta di un fatto di importanza decisiva dato che il quadro dello sviluppo urbano non fa che evidenziare il grado di quello socio-economico e di quello generale. I brillanti casi delle poche città che raggiunsero un grande splendore contrastano con i segni di uno sviluppo scarso e lento, proprio di tutti gli altri centri, un po’ emarginati dalla grande rete economica che consentiva la prosperità delle città più importanti.
Su questo tema sviluppò interessanti riflessioni H. D. Sisson, uno scrittore francese che visse in Argentina per molti anni e che, nel 1910, pubblicò un libro dedicato a questo paese. Dopo una lunga descrizione della città di Buenos Aires, nella quale viene messa in evidenza la sua rapida modernizzazione, Sisson passa a parlare, nel capitolo successivo, delle province, iniziando la sua analisi con queste parole: «Dire delle province dopo aver trattato della capitale è un po’ come ritornare indietro, passando dalla nazione alla colonia». Un’analoga affermazione poteva essere estesa, senza alcun dubbio, alla maggior parte dei paesi latinoamericani le cui capitali avevano appena compiuto il prodigioso balzo in avanti di cui si è detto. Sisson sviluppa, nel prosieguo, le proprie opinioni, nate, senza dubbio, da una penetrante capacità di osservazione: «A partire dal 1880, vedo Buenos Aires avanzare a passi da gigante; dal punto di vista dei progressi materiali e di questa apparente cultura sociale che, con la ricchezza, porta al bisogno di imitare i paesi più raffinati e più civili. La capitale cosmopolita, travolta dal flusso delle comodità e dei piaceri, e sottoposta all’influsso di una suggestione che la spinge all’esibizionismo sociale, ha abbandonato molto in fretta le antiche abitudini di austerità, di autorità e di tranquilla compattezza che, appoggiando sulle tradizioni, si oppongono ad ogni genere di tentazioni; le immense fortune che si sono formate in pochi anni hanno permesso ai bonaerensi di viaggiare e, soggiornare all’estero, facendo perdere loro il legame con la propria terra e con i morigerati costumi delle antiche famiglie».
«Le province, le cui capitali distano da Buenos Aires da mille a duemila chilometri hanno continuato, invece, ad essere ciò che erano, perlomeno fino a che i miglioramenti nelle comunicazioni non le hanno avvicinate alla capitale, cosa che sta ancora accadendo, sia pure con estrema gradualità, specie in considerazione delle distanze chilometriche che le separano dal centro e che, finora impediscono persino lo sfruttamento delle potenziali ricchezze di queste aree. Ciò spiega con sufficiente chiarezza come mai il divario tra la capitale e le province abbia potuto aumentare con tanta rapidità e sia invece destinato a ridursi soltanto con estrema lentezza».
Le osservazioni di Sisson restano valide per tutta l’America latina. L’espansione economica provocata dall’estero si riverberò quasi unicamente sui centri che si tennero in contatto con l’esterno e aumentò le differenze che già esistevano tra queste città e le altre. In pratica, vi furono due mondi che coesistevano separati, uno moderno ed uno coloniale. A quello che ancora conservava la propria identità coloniale giunsero le ultime propaggini della concezione di Haussmann, melanconicamente tradotta da un’immensa piazza priva di proporzioni o da un lungo viale punteggiato di piazzuole e destinato a collegare il centro della città con la nuova stazione ferroviaria. L’ultima eco dell’impostazione di Haussmann giunse in alcuni centri quando questa era ormai superata o quando ancora non era arrivata l’espansione economica. Tuttavia continuò ad aleggiare in questi ambienti una vaga aspirazione a fornire ad ogni città di provincia qualcosa che le consentisse di autoidentificarsi con una metropoli. Quando nuovi strumenti urbanistici e nuovi modelli di pianificazione avevano ormai fatto la loro comparsa, gli schemi di Haussmann continuavano ancora a dominare l’immaginario collettivo poiché, in fin dei conti, continuavano a rappresentare l’insostituibile modello di Parigi.
La quotidiana imitazione dell’Europa
Quando Pierre de D’Espagnat visitò la Colombia nel 1897, Bogotá era ancora una città spiccatamente coloniale e il viaggiatore francese ritenne di ricambiare l’ottima accoglienza che le migliori famiglie di Bogotá gli avevano tributato dando loro un consiglio che poi pubblicò nei suoi Souvenirs de la Nouvelle Grenade: «L’unico timore che io mi senta di formulare sarebbe quello di vedere le donne di Bogotá in preda ad un’incongrua smania di vestirsi alla moda, su uno sfondo, come quello di Bogotá, reso così caratteristico da una serietà sentimentale e cattolica tanto peculiare. Siano quelli che siano i decreti della tirannia universale esercitata da Parigi in materia di moda, il vestito che meglio si addice alla donna sudamericana è quello che più si armonizza con quel misto di passione e di fede che è e sarà sempre la mantiglia, che le conferisce uno stile acconcio e giustamente fortunato». Quasi tutti coloro che osservarono con attenzione la situazione dell’America latina videro il rischio e il peso del passo che il continente stava compiendo da una forma di vita radicata e tradizionale ad un’altra che, in fin dei conti, consisteva in un insieme raccogliticcio di formule e di ricette importate dall’estero e destinate a modificare le apparenze degli usi e dei costumi. Ciò non avvenne, però, in ogni luogo. Molte città continuarono a mantenere il proprio aspetto coloniale, appena modificato dal graduale trapianto di nuove tecniche. Coloniale, a ben guardare, voleva dire provinciale e definiva, soprattutto, uno stile di vita che rifiutava di adottare quelle ricette e quelle formule esteriori che avevano a che vedere, principalmente, con lo stile di vita e i modi della convivenza; tale processo era legato non già alle virtù di una determinata società urbana, ma alla pura e semplice circostanza di non essere stati sottoposti agli stimoli della modernizzazione e, di conseguenza, di non aver avuto modo di sperimentare i fenomeni di crescita demografica e di selezione delle nuove borghesie, mediante i quali si era determinata la trasformazione delle città. Alfredo Pareja Diez-Canseco era solito datare l’inizio del ciclo romanzesco intitolato Los nuevos años dal momento in cui si rese conto che anche in Equador si era avviato il periodo delle trasformazioni: «Si tratta, in verità, di varie storie, a ciascuna delle quali è dedicato un libro. Esse hanno inizio nel 1925, quando un nuovo genere di rapporti umani incominciò a trovare spazio in questo nostro paese. Iniziò allora l’agonia del patriarca; a partire da quel momento non vi è dubbio che un nuovo paese vuole prendere il posto di quello vecchio e si organizza con sollecitudine per fare anche qui ciò che era già stato fatto altrove, dato che il respiro di costoro apprende il proprio ritmo respirando la grande atmosfera del mondo. E questa la data di inizio dei nostri nuovi anni».
Nelle città che rifiutavano la trasformazione gli antichi patriziati continuavano a dominare la scena e, con essi, si perpetuava uno stile di vita patrizio, le cui norme funzionavano da punto di riferimento anche per tutti gli altri gruppi. Fino a che non accadeva qualcosa, cioè qualcosa il cui centro di propagazione era solitamente estraneo all’ambiente cittadino, la città coloniale e di provincia continuava a vivere nella propria calma immutabile, seguendo una tradizione che solo gli snob della capitale potevano percepire nella sua interezza, condannandola come nemica del progresso.
L’aspetto più significativo della trasformazione urbana fu, come sempre, rappresentato dalla metamorfosi sociale. I vecchi ceti acquisirono una nuova fisionomia mentre altri gruppi facevano la loro comparsa sulla scena. L’ascesa delle nuove borghesie che si collocarono rapidamente ai vertici della società, rappresentò un fenomeno altrettanto significativo della comparsa di ampie fasce di ceti medi. Furono però i borghesi ad introdurre un nuovo stile di vita che, per opporsi allo stile provinciale che aveva dominato fino ad allora, volle essere cosmopolita.
Due furono i modelli europei che godettero, in America latina, di particolare prestigio: quello dell’Inghilterra vittoriana e quello della Francia di Napoleóne III. Imitando ora l’uno, ora l’altro e subendone la dispotica influenza, le nuove borghesie latinoamericane andarono affermandosi e, trapiantando quei lontani esempi, elaborarono le proprie forme di vita, combinando, come sempre, qualcosa di originale e qualcosa di importato. Per questo le capitali ed i porti furono per le nuove borghesie gli scenari più adeguati, dato che vi giungevano, con largo anticipo rispetto al resto del paese, i postali provenienti da Parigi e da Londra e dato che vi risiedevano molti stranieri, che, lavorando per le succursali delle banche e delle società commerciali europee, portavano con sé tutto il prestigio del vecchio continente. Da questo nucleo si svilupparono anche l’ossessione e l’illusione di creare uno stile di vita che fosse cosmopolita, cioè, a voler chiamare le cose col loro nome, europeo.
La preoccupazione fondamentale delle nuove borghesie latinoamericane fu, come del resto lo era per tutte le borghesie di gran parte del mondo, quella di sperimentare e affermare, finalmente, uno stile di vita che esprimesse in modo inequivocabile, attraverso chiare manifestazioni di ricchezza e di potere, la nuova condizione di classe superiore che i borghesi avevano conseguito occupando in permanenza il vertice della piramide sociale. Non si trattava solamente dell’istinto primario che spingeva ad esibire il possesso dei beni, ma anche, e forse soprattutto, dell’ostentazione di un comportamento artificialmente sofisticato e sfarzoso. Per questa via i borghesi cercavano di dare una dignità alla propria persona e alle proprie famiglie, nella speranza di vedere riconosciuta una supremazia che, fino ad allora, era stata concessa soltanto all’antico patriziato. Di fatto, non erano soltanto gli oggetti a costituire un’ossessione per le nuove borghesie, ma anche l’uso che di essi poteva essere fatto nell’ambito di un caratteristico tipo di barocchismo borghese.
Fu proprio questo genere di vita, barocco, borghese e ibrido, pensato, probabilmente, come puro assemblaggio di pezzi d’accatto e, forse, definibile come barocco-borghese, a nutrire il prospero filone del romanzo latinoamericano naturalista e d’ambiente, cioè quel genere letterario al quale si dedicarono, tra i tanti, il cileno Luis Orrego Luco, il messicano Federico Gamboa, la peruviana Mercedes Cabello de Carbonera, il venezuelano José Rafael Pocaterra, l’argentino Julián Martel e il brasiliano Julio Ribeiro. Fu proprio questo genere di vita a costituire, idealizzato, lo scenario della poesia modernista. Tutti i romanzieri selezionavano il tratto che sembrava loro più caratteristico per descrivere il meccanismo in base al quale la nuova borghesia acquisì atteggiamenti aristocratici ed arrivò a convincersi di possedere una grande tradizione, mese dopo mese, nel corso di quei folli anni di speculazione compresi tra il 1880 e la prima guerra mondiale.
Un bel giorno, in un certo numero di città dell’America latina, fecero la loro comparsa circoli di stile inglese con salotti destinati al soggiorno, arredati con comode poltrone e corredati di sale di lettura caratterizzate dalla presenza di pochi libri da un lato, e, dall’altro, di un’infinità di giornali e di riviste, tra le quali faceva spicco la Revue des Deux Mondes; c’erano anche lussuosi saloni delle feste, ristoranti aperti fino a tarda ora e, soprattutto, un personale formato da esperti camerieri e da servitori di fiducia che conoscevano per nome tutti i soci e si ricordavano delle preferenze e delle particolari inclinazioni di ciascuno di loro. Si formarono così dei veri e propri ridotti per le nuove borghesie, nei quali, però, era facile incontrare anche i membri dell’antico patriziato.
Il club aveva varie funzioni. Coloro che avevano comuni interessi salottieri erano soliti raccogliervisi, per poi chiudersi ulteriormente all’interno del proprio «circolo», nell’ambito del quale tutti si conoscevano. Qui venivano commentate tutte le ultime novità della politica e dell’economia, al riparo dai pettegolezzi del mondo esterno; qui venivano presi i contatti e avevano inizio quelle conversazioni informali che sarebbero state disdicevoli nelle ore di lavoro negli uffici e nelle agenzie d’affari. All’interno del club era inoltre possibile mangiare e bere in compagnia di amici fidati, mentre vi trovavano ospitalità anche il nottambulo degenerato e il giocatore annoiato. Ogni tanto venivano celebrate in questa sede anche le feste di maggiori pretese, in occasione delle quali era solita raccogliersi tutta l’alta società cittadina.
Punto di riferimento di un gruppo relativamente ristretto, il circolo privato rispecchiava il desiderio di mantenere la cerchia il più chiusa possibile. Soltanto la ricchezza aveva il potere di infrangerla. Da questo punto di vista si trattava di un chiaro segno della tendenza propria delle nuove borghesie a trasformarsi, quanto prima, in ristrette oligarchie. La cosa importante non consisteva, ovviamente, nel fare in modo che non potesse crescere il numero di soci del club; fondamentale era, piuttosto, che non aumentasse troppo il numero di coloro che controllavano la nuova ricchezza. L’esclusivismo segregazionista, tipico del ceto dominante, cercava un’espressione pubblica, un luogo, cioè, dove potesse risultare chiaro che soltanto coloro che ne erano membri, e non altri, potevano recarvisi in continuazione, dato che quello era il luogo dal quale veniva diretta la vita sociale e, in un certo senso, anche quella economica e quella politica.
L’idea di costituire un circolo, cioè un gruppo chiuso al vertice di una società aperta, caratterizzò l’atteggiamento delle nuove borghesie e divenne per loro tanto più ossessivo, quanto più esse non erano, per origini e tradizioni, una classe omogenea. Senza dubbio i suoi membri si ispirarono al modello costituito dal patriziato e lo emularono, anche se ne accentuarono la natura esclusiva, sia per nascondere la fondamentale infamia che caratterizzava i programmi economici della nuova classe, sia per il senso di insicurezza che attanagliava molti dei suoi membri, integratisi in tempi troppo recenti ed in modo troppo avventuroso ai più alti livelli della società. Di fatto le nuove borghesie erano gruppi costituzionalmente aperti, ma, come era già accaduto in precedenza con il patriziato, cercarono in ogni modo di cristallizzarsi e, siccome si trattava di nuclei fondamentalmente legati alle attività commerciali e finanziarie, lo fecero sapendo che conveniva agire più in fretta possibile.
Una funzione analoga a quella dei vari club, del Jockey, del Club del Progresso, del Club Nazionale e del Club dell’Unione, era svolta anche da altri luoghi convenzionali di riunione. Un ristorante alla moda poteva diventare, in un certo periodo, il luogo dove tutti i membri dell’élite sapevano di potersi ritrovare. In questi locali i modelli parigini venivano imitati sia nell’allestimento degli ambienti, che nella raffinata cucina e nelle norme dell’etichetta. Si beveva champagne, si discuteva d’affari, di politica, di teatro e di donne, ma, soprattutto, si faceva parte del cenacolo nel quale era possibile vedere ed essere visti dalla gente importante.
Per vedere ed essere visti, anche il teatro, specialmente quello lirico, dove ce ne era uno, era un luogo di fondamentale importanza. Nessun membro della società elegante poteva farne a meno. Gli abbonati dei palchi e delle poltronissime di platea potevano incontrarsi tra un atto e l’altro, sottolineando la propria presenza e annotando quella di tutti gli altri, nonché approfittando dell’occasione per sviluppare, anche lì, quei contatti informali grazie ai quali era possibile avere sempre sottomano il polso del complicato e sottile gioco della politica e degli affari, di cui era importante percepire anche i minimi movimenti. In queste occasioni era anche possibile sfoggiare un abito di particolare eleganza, importato dall’Europa, o un gioiello esotico. Nessuno mancava di prestare attenzione a questi particolari, per modificare la considerazione che la persona meritava, se l’oggetto della più recente esibizione era tale da giustificarlo. La buona società straripava ormai anche nelle passeggiate in carrozza; i cocchi si incrociavano e, per un attimo, era possibile scorgere gli occupanti e vedere la toilette delle signore. Alcuni giovanotti partecipavano alla passeggiata montando bei cavalli con i quali erano soliti appaiare le carrozze delle loro amiche per intrecciare con ciascuna di esse brevi conversazioni galanti. La stessa cosa avveniva in occasione delle nozze e dei battesimi, all’uscita delle messe più importanti ed eleganti, in occasione delle corse dei cavalli o nelle stazioni termali che, proprio allora, cominciavano ad essere di moda, seguendo, più o meno riccamente, l’esempio di Trouville.
Nel corso di questa permanente competizione, una festa offerta da una famiglia prestigiosa costituiva uno dei momenti più alti. Si trattava di feste lussuose, organizzate con cura maniacale, talvolta caratterizzate da vere e proprie manifestazioni di buon gusto, ma sempre contraddistinte da una palese ostentazione della ricchezza. L’argentino Julián Martel in La Bolsa e il venezuelano José Rafael Pocaterra in La casa de los Abila presentano due versioni, tra loro molto simili, di questa specie di cerimonia rituale che riuniva la crema del bel mondo di Buenos Aires o di Caracas: la stessa società elegante, incapace di nascondere il proprio arrivismo, lo stesso malcelato desiderio di ricchezza immediata e di denaro facile, la stessa inconsistente personalità, intaccata dalla stessa volgarità. Qualche banchiere, un nunzio apostolico, un ministro e, talvolta, un presidente della repubblica davano alla riunione un rilievo tale da far sembrare, per un giorno, un eroe colui che aveva offerto la festa. Nonostante questo, tutti coloro che vi avevano partecipato lo avevano fatto unicamente per i propri interessi: per vedere e per essere visti, per confermare il proprio ruolo di membro eminente all’interno del gruppo che prendeva le decisioni e per contribuire a che tutta la società fosse obbligata a riconoscere che quegli invitati, e solo loro, erano la nuova classe dirigente.
Era evidente che, in tutte le manifestazioni della loro vita, le nuove borghesie seguivano con fanatica devozione i modelli europei ed era, dunque, inevitabile che svolgessero anche socialmente lo stesso ruolo di mediazione che avevano nella vita economica. Questa ossessione era chiaramente percepibile nel desiderio maniacale di liberarsi dell’antica residenza patrizia, praticamente coloniale, per passare ad un alloggio più moderno, di stile possibilmente francese, decorato ed arredato con lo stile e il gusto che competeva al livello sociale del proprietario, senza per questo rinunciare alle pretese estetiche, che si palesavano attraverso la presenza di quadri, sculture e soprammobili conformi ai gusti degli snob del momento. La penetrazione dei costumi stranieri, sempre in contrasto con quelli tradizionali che, ogni giorno di più, sembravano provinciali e decadenti, venne accompagnata da un rispetto quasi liturgico per la moda europea in materia di abbigliamento. Quando cominciarono a diffondersi le pratiche sportive, la scherma, il tennis e l’hockey godettero i favori dei giovani eleganti che giudicavano insufficienti le emozioni del tradizionale e brioso tiro a due. Poco tempo dopo essi poterono infatti disporre dell’automobile e degli sport di squadra, da praticare nell’ambito di apposite e riservate associazioni.
Esterofili e preoccupati di diventare ed essere riconosciuti come classe dirigente, i nuovi borghesi furono, almeno formalmente, gruppi severamente regolati. Stimolarono nei più giovani e nei più scettici membri del gruppo una forte tendenza all’evasione, considerata prestigiosa ed elegante, dato che poteva contare anch’essa su una lunga tradizione parigina. Il café chantant, il cabaret o semplicemente la casa di piacere diedero ai giovanidebosciati la possibilità di sfogarsi. Essi ebbero così l’opportunità di contattare prostitute, bari, allenatori di cavalli da corsa e a volte autentici delinquenti e loschi personaggi coinvolti nella tratta delle bianche. Il piccolo mondo della tauromachia, del gioco e delle corse dei cavalli favoriva queste relazioni pericolose, per mezzo delle quali il borghese dissoluto otteneva la qualifica di calavera (vizioso), che, comunque, non arrivò mai ad avere un significato del tutto peggiorativo dato che conteneva anche un implicito e compiaciuto elogio. Il calavera contravveniva alle regole che le nuove borghesie si erano date, ma non arrivava mai a negarle, di modo che c’era sempre la speranza e quasi la certezza che potesse un giorno mettere la testa a posto, abbandonare la strada del vizio e diventare il più geloso fautore non solo delle norme della morale comune, ma anche dei più convenzionali ed esteriori formalismi.
Indubbiamente, lo stile di vita dei nuovi borghesi incominciò a cambiare alla fine della prima guerra mondiale. La belle époque si era ormai conclusa anche in America latina e, tra le tante cose che vennero messe da parte, ci fu anche la retorica dei nuovi ricchi. Ben presto al vecchio stile subentrò una concezione sportiva della vita, fatta propria prima dai giovani e poi, con una certa gradualità, da tutti gli altri. L’influenza delle abitudini nordamericane, propagandate dal cinema, contribuì a far saltare schemi tradizionali e a preparare il terreno perché lo shimmy e il charleston prendessero il posto del valzer.
Per alcuni settori delle nuove borghesie lo sviluppo di un certo gusto estetico e il vezzo di occuparsi di cultura e di letteratura sembrò essere il naturale complemento di un processo di modernizzazione ormai concluso e quindi destinato a culminare in una qualche forma di raffinatezza individuale. Alcuni, certamente, avevano una naturale inclinazione per questo genere di cose e poterono dedicarvisi senza ipocrisia, ma, in genere, prevalse un atteggiamento snob che cercava di mantenere il passo con «le ultime novità di Parigi», a commentare le opere dello scrittore più in voga, a elogiare tutto ciò che doveva essere elogiato per poter dimostrare di far parte del mondo che si rinnovava e dell’epoca del progresso. Si trattò insomma di un’ulteriore dimostrazione pubblica di superiorità sociale.
Senza dubbio, in seno a queste nuove borghesie presero forma anche autentici circoli intellettuali, formati da scrittori e da artisti in grado di riflettere la violenta trasformazione sperimentata dalle società latinoamericane. Alcuni scelsero la politica come tema di fondo, ma vi fu anche chi cominciò ad occuparsi di nuovi e più ampi orizzonti, ispirandosi alle scuole sociologiche che dominavano la scena, in quel periodo, in Francia e in Inghilterra. Molti arrivarono così ad occuparsi di problemi sociologici e cominciarono a rendersi conto dei profondi conflitti che si celavano dietro le maschere della politica e che avevano le loro radici non soltanto nelle contrapposizioni di classe o di gruppo, ma anche nello scontro tra le visioni del mondo proprie dei vari settori di una società che si opponeva sia all’azione oppressiva dell’antico patriziato che a quella delle nuove borghesie. I sociologi come il peruviano Francisco García Calderón, il venezuelano César Zumeta, il colombiano Carlos A. Torres e l’argentino José Ingenieros, per non citarne che alcuni, furono, al contempo, testimoni e analisti di questa trasformazione. Al loro fianco occorre citare coloro che si occuparono di filosofia, anche se spesso si trattava delle stesse persone. Costoro subirono l’influenza della filosofia positivista, sia nella versione francese, sviluppata attorno al pensiero di Auguste Comte, sia in quella anglosassone, le cui esperienze più significative rimandavano ai nomi di John Stuart Mill, William James e Herbert Spencer. Tra gli altri vanno ricordati il peruviano Alejandro Deustúa, il cubano Enrique Varona, il messicano Gabino Barreda e l’argentino José Ingenieros. Si trattava di un tipo di filosofia che, ovviamente, coinvolgeva problemi teorici di vasta portata, caratterizzati tra l’altro da importanti conseguenze pratiche, specialmente in campo pedagogico. Tuttavia era anche e soprattutto la giustificazione ideologica di una società progressista, decisamente orientata al miglioramento materiale e sorretta da una filosofia del successo che corrispondeva perfettamente alla società controllata dalle nuove borghesie.
I circoli poetici e i gruppi di scrittori e di artisti furono a volte, un po’ emarginati, ma, a ben guardare, lo furono solo in apparenza. La boheme dei caffè, degli atenei, delle redazioni e dei salotti sdegnava i valori ufficiali e le idee più generalmente diffuse, ma i suoi membri facevano comunque riferimento ad una delle tante forme di vita maturate nell’ambito del nuovo mondo borghese. La teoria del romanzo naturalistico voleva penetrare i segreti di questa nuova società, divorata dalla tentazione del denaro facile e della rapida ascesa sociale, ma, pur condannando quanto in questo vi era di inumano e di crudele, condivideva, in realtà, quelli che a buon diritto avrebbero potuto essere definiti i sani principi della moderna società. Il modernismo poetico del messicano Gutiérrez Nájera, del cubano Julián del Casal, del uruguayano Julio Herrera y Reissig, dell’argentino Leopoldo Lugones e, soprattutto, del nicaraguense Rubén Darío raccoglieva ed esprimeva la sensibilità degli esteti, ma idealizzava il mondo degli esteti ricchi e potenti, sedotti dal raffinato mondo del lusso e, a volte dal raffinato lusso del potere. Più che di anticonformismo si potrebbe forse parlare di una reazione alla volgarità che si infiltrava con eccessiva faciltà nell’approssimativo rigore aristocratico delle moderne borghesie. In sostanza, l’affinamento della sensibilità poteva fornire un’ulteriore giustificazione alla carrieristica ascesa della nuova aristocrazia del denaro.
Intraprendenti e caparbi, i nuovi borghesi si gettarono per scelta e per necessità nella lotta per il potere, la cui conquista fu tutt’altro che agevole. Il potere era infatti concentrato nelle mani dei suoi antichi padroni di fronte ai quali le moderne borghesie rappresentarono, al principio, soltanto una componente nuova ma non unica, tra le tante che si stavano preparando a contrastare i vecchi magnati. Strane coalizioni di interessi, nelle quali non era ben chiaro chi era lo strumento di chi, modificarono lentamente forme e contenuti della politica. Non sempre le nuove borghesie vollero e seppero monopolizzare l’esercizio del potere, dato che non sempre poterono contare sull’uomo forte di cui c’era bisogno per dominare uno scenario sociale tanto inquieto. Esse costituirono però il nucleo essenziale del potere che stava all’ombra del trono o, meglio, di quello che stava dietro il « signor presidente».
Il processo economico e sociale che portò alla comparsa delle nuove borghesie e, in breve tempo, anche delle nuove classi medie e popolari, aveva radici diverse da quelle del processo politico e, di conseguenza, non lo ostacolò frontalmente, come, cioè, se vi fosse stata una battaglia con vincitori e vinti. Ciò che avvenne fu piuttosto che il processo sociale incominciò a permeare quello politico, trasformandolo lentamente. Nelle capitali non furono soltanto i rappresentanti degli antichi gruppi di potere ad esercitare, direttamente o indirettamente le funzioni politiche, ma anche le nuove componenti fecero altrettanto. In proporzioni diverse, in tutte le città in trasformazione fecero la loro comparsa nuovi attori politici, in competizione con quelli che erano già sulla scena, cioè, soprattutto, con i rappresentanti delle antiche famiglie patrizie, dei militari e degli ecclesiastici; insieme a costoro, vi era, ovviamente, la loro clientela politica che, avendo goduto per un lungo tempo di sostegno e protezione, aveva interesse a sostenere chi la sosteneva. Un gradino sotto lungo la scala dell’influenza, c’erano poi i vecchi gruppi economici, formati da ricchi commercianti, possidenti e circoli illuministici degni di particolare considerazione. I nuovi aspiranti furono invece formati esclusivamente da coloro che controllavano il moderno potere economico. La loro forza consisteva principalmente nel fatto che il potere politico aveva scoperto di averne bisogno. I vecchi caudillos e i ricchi generali vennero così coinvolti in uno stretto legame con gli sfuggenti gruppi di nazionalità indefinita, nelle cui fila militavano, insieme, gli investitori e i commercianti stranieri ed i loro rappresentanti ed agenti nel paese. Ebbe così inizio un connubio inevitabile. Posto di fronte alla sfida lanciata dall’economia internazionale e dalle necessità dello sviluppo interno, il potere politico si accinse al difficile compito di modernizzare il paese e di intraprendere uno sfruttamento sempre più razionale ed intensivo delle risorse naturali. Quando si rese conto di aver bisogno di capitali, li cercò o, più banalmente, li accettò ogni volta che trovava chi fosse disposto ad offrirglieli. L’investitore e il commerciante avevano bisogno di privilegi e di garanzie e ne fecero richiesta al potere politico non appena si resero conto che aveva bisogno di loro e cercava di avvicinarli. Nel corso di questo scambio di favori si moltiplicarono gli intermediari, gli agenti e i rappresentanti, senza contare chi, effettivamente, lavorava nei nuovi settori della pubblica amministrazione. Molti si arricchirono in modo facile e rapido e tutti quelli che rappresentavano a qualche titolo il capitale straniero acquisirono una delega illimitata che consentì loro di godere di coperture istituzionali. Privilegi e garanzie venivano concessi per mezzo di leggi proposte da amministratori, studiate da ministri e funzionari, votate da senatori e deputati e applicate da burocrati. Il vincolo si rafforzò e, poco a poco, il potere politico si trovò invischiato in una rete dalla quale chi lo esercitava aveva tutto l’interesse a non tirarlo fuori.
Con tutto ciò, i principali fattori politici furono, perlomeno in apparenza, i partiti politici. Alcuni appartenevano alla tradizione e la loro filosofia era di solito ispirata ad una problematica di altri tempi, ormai divenuta anacronistica. Anche nell’ambito di queste formazioni erano però nati gruppi più aggiornati che, adeguandosi alle nuove circostanze, utilizzarono talvolta le teorie progressiste come paravento dietro al quale nascondere le proprie aspirazioni. Eccetto alcuni settori che continuarono ad avere un’immagine inattuale nell’attività produttiva, sia i liberali che i conservatori cercarono di approfittare delle nuove circostanze.
Nonostante questo, qualcosa di nuovo era accaduto nel momento in cui si era scatenato il processo di trasformazione economica. Le nuove classi medie e alcuni settori delle classi popolari incominciarono ad organizzarsi politicamente e a reclamare il loro diritto di partecipazione alla vita politica del paese. Le nuove masse urbane incominciarono a pretendere che la democrazia diventasse effettiva, militando nei partiti tradizionali o cercando di costituirne di nuovi. Le città si animarono. I nuovi gruppi politici che si formarono, i socialisti, i radicali e i liberala progressisti, per composizione e modo di agire spazzarono via i toni pacifici dei vecchi accordi tra gentiluomini. Ora la lotta per il potere assumeva tutt’altre caratteristiche. Gli incontri di varie migliaia di persone, riunite in piazza per ascoltare un oratore esaltato che gridava arroventate parole d’ordine rivoluzionarie e riformiste, scossero le città e tolsero ai salotti e ai cenacoli dove, per tradizione, era stata fino ad allora tessuta in modo discreto, la trama dell’azione politica. Vi furono manifestazioni operaie che parvero minacciare la posizione delle classi benestanti, dato che dicevano di volere la rivoluzione sociale, proclamavano scioperi e cantavano le strofe di fuoco dell’Internazionale. Vi furono rivoluzioni popolari, che, pur essendo così chiamate, erano in realtà manovrate dalle classi medie, anche se in alcune occasioni poterono effettivamente contare sull’appoggio di settori meno abbienti. I nuovi quotidiani politici, progressisti e rivoluzionari, aumentavano la tiratura e circolavano, pubblicamente o clandestinamente, canalizzando l’opinione delle nuove frangie che facevano il loro ingresso nell’arena della lotta per il potere.
Nelle città in trasformazione la vita politica si fece molto più agitata e l’esercizio del potere politico dovette rassegnarsi a modificare le proprie regole. Fino ad allora si era trattato di un affare limitato a poche decine o a poche centinaia di nuclei familiari, attorno ai quali si muoveva una clientela politica fin troppo facile da manovrare. L’apparizione di forze nuove modificò questa situazione e, perché il potere potesse continuare a restare nelle mani di coloro che lo detenevano, fu necessario esercitarlo con maggiore determinazione, arrivando ad una sistematica e rigorosa dittatura, volta non solo a mantenere il monopolio delle decisioni entro la ristretta cerchia delle famiglie di notabili, ma soprattutto ad evitare che la partecipazione potesse estendersi oltre il controllo dei nuovi gruppi di potere che si stavano costituendo. Oligarchie e dittature furono dunque le forme di governo tipiche delle capitali, che le esercitarono sia allo stato puro che combinandole tra loro.
Fu questo il regno del «signor presidente» per utilizzare la celebre formula coniata da Miguel Ángel Asturias pensando ai tempi del governo di Manuel Estrada Cabrera in Guatemala. In modo analogo il potere venne del resto esercitato da molti altri, tra cui: Rafael Nuñez e Rafael Reyes a Bogotá, Porfirio Díaz in Messico, Gerardo Machado a L’Avana, Eloy Alfaro a Quito, Cipriano Castro e Juan Vicente Gómez a Caracas, Augusto Leguía a Lima e Hernando Siles a La Paz. La tendenza generale fu aristocratica e scivolò spesso in direzione di un personalismo che qualche apologeta definì «cesarismo democratico», anche se in realtà non si trattava che di una patologica degenerazione del genere di potere che le oligarchie volevano far esercitare al loro uomo di fiducia che sostenevano, in modo più o meno palese, affinché tutelasse i loro interessi. A volte, le oligarchie si mantennero più unite come classe e più attive come gruppo politico; in questi casi il «signor presidente» dovette accontentarsi di esercitare il potere all’interno di un sistema che lo limitava, come accadde, per esempio, a Rio de Janeiro, a Buenos Aires, a Santiago del Cile, ad Asunción, a La Paz, a Bogotá e a Lima.
Il «signor presidente» disponeva di ampi poteri e la capitale era la sua corte, dato che ad essa egli doveva rivolgersi per risolvere qualsiasi problema, senza che questo impedisse ai suoi fidi deputati di avere una propria corte nelle città di provincia. Però, a ben guardare la vera corte era il «palazzo», più lussuoso possibile e regolato da un protocollo talvolta grottesco, di cui facevano parte sia i pettorali abbondantemente coperti di medaglie, che i servi in livrea e calzoncini da bagno. All’interno del «palazzo» il nuovo spirito borghese aveva il suo trionfo e poteva finalmente essere abbacinato dal lusso dei saloni, dalla bellezza dei giardini, dalle bollicine dello champagne e dal prestigioso esempio delle aristocrazie europee della belle époque, che, del resto, avevano la stessa estrazione borghese dei loro imitatori sudamericani. A volte il «signor presidente» aveva uno stile originale e poteva persino essere austero come Porfirio Diaz, che viveva rinchiuso nel castello di Chapultepec. La cosa veramente importante era che non perdesse neppure per un istante il controllo del potere, poiché questo era ciò che si aspettavano da lui coloro che glielo avevano dato. Il «signor presidente» era circondato da una esigua nobiltà di devoti che formavano un microcosmo di palazzo frapposto tra lui e il mondo; ne facevano parte i ministri, delegati a prestare orecchio alle voci della piazza, i funzionari e gli amici più intimi, spesso invitati a «palazzo» e talmente in confidenza e a loro agio da permettersi, ogni tanto, di introdurre qualche nuovo aspirante cortigiano. Facevano parte di questa cerchia anche i generali lealisti, il capo della polizia, i suoi accoliti e confidenti, e, insomma, tutti coloro che dipendevano dai favori del «signor presidente», ogni giorno più ricco, più potente e più prigioniero della propria corte e della propria capitale, che continuava a trasformarsi, moltiplicando gli ampi viali e i passeggi, i vistosi edifici pubblici, le lampade a gas e quelle elettriche, mentre il capo dello stato era sempre più un giocattolo nelle mani dei gruppi di pressione a cui dava imperiosamente tutti gli ordini che loro aspettavano e a cui non vedevano l’ora di obbedire.
Il «signor presidente», di solito, otteneva il potere vincendo le elezioni, che di solito erano truccate, dopo lunghi patteggiamenti tra i notabili, ai cui incontri partecipavano alcuni banchieri che, di solito, avevano sempre l’ultima parola. C’era poi, quasi sempre, un club dove venivano prese le decisioni, o un albergo frequentato dalle persone importanti, o la redazione di un giornale, nella cui sede venivano tessute le trame dell’operazione, mettendo d’accordo le varie opinioni. Soltanto dopo, l’atto elettorale poteva ratificare la vittoria del candidato prescelto e, quanto al resto, si dava carta bianca all’apparato statale. Ma le classi medie, cresciute di numero, avevano acquisito sempre maggior potere e chiarezza di intenti, coinvolgendo anche ampi strati delle classi popolari, anche se alcuni settori di queste ultime avevano preferito perseguire autonomamente i propri obiettivi. La politica divenne più complessa e non bastò più imprigionare i principali esponenti dell’opposizione; si rese necessario organizzare brogli elettorali sempre più spudorati e, in certi casi, ricorrere all’intervento della polizia e dell’esercito per reprimere le manifestazioni di piazza che, sempre più spesso, riempivano le strade per poi concentrarsi sotto il balcone del «signor presidente».
Queste nuove masse urbane, che aspiravano a partecipare alla vita politica, rispecchiavano, per composizione, il cambiamento avvenuto in molte città. Ormai, a fianco delle famiglie tradizionali non c’era più una massa informe di individui amorfi ed apatici, ma un variegato panorama di classi popolari, in seno alle quali si formavano gruppi di punta, socialisti ed anarchici, di cui facevano parte soggetti capaci di leggere Marx e Bakunin, mentre ogni giorno aumentava il numero di coloro che rivendicavano il diritto di partecipare alla vita civile e, soprattutto, le nuove classi medie precisavano i propri obiettivi politici, dando alla loro azione uno spessore ineludibile, collegato al grado di istruzione raggiunto e all’importanza delle funzioni che svolgevano nella vita della città. Le classi medie, infatti, gestivano il commercio e occupavano cariche importanti nel mondo degli uffici, leggevano i giornali, usavano i servizi di trasporto pubblico, conversavano nei caffè o nei circoli politici ed incominciavano ad andare al cinema. Nel frattempo c’era stata una rivoluzione vittoriosa in Messico, e un’altra in Russia. Né il «signor presidente» né i gruppi di cui era espressione potevano avere dubbi riguardo agli ideali delle nuove masse, che assumevano proporzioni mai viste prima, ogni volta che si riunivano per reclamare democrazia e giustizia sociale. Data la loro eterogeneità, non vi era dubbio che questi gruppi fossero diretti dai più lungimiranti rappresentanti delle classi medie.
Queste ultime si distinguevano per la loro spiccata tendenza a migliorare la propria preparazione culturale ed il proprio livello di istruzione. Molti incominciarono a leggere libri, non, come i membri delle classi alte, per divertimento, ma per imparare, cioè per acquisire «conoscenze utili» e per assimilare le «idee moderne», legate alla scienza, alla società e alla politica. Il fenomeno si era già diffuso in Europa e, di conseguenza, i libri, pubblicati, por esempio, in Spagna dalla casa editrice Sempere, erano numerosi, venivano offerti a prezzi economici e distribuiti dalle biblioteche pubbliche, organizzate dai comuni, dai sindacati operai e dalle società scientifiche; essi costituirono però anche la base di un’infinità di biblioteche private possedute da gente di condizione modesta, che era orgogliosa della propria collezione, anche se non poteva vantare in essa la rilegatura in cuoio di Russia. Molte altre collane di libri economici fecero la loro comparsa in questo periodo e alcune vennero pubblicate proprio nelle città dell’America latina. Inoltre, per soddisfare l’inesauribile curiosità di coloro che avevano incominciato a prenderci gusto, vi furono riviste e quotidiani di propaganda e di partito, di matrice anarchica e di ispirazione socialista, senza contare le riviste destinate ad un pubblico più generale, che contenevano articoli di divulgazione scientifica e racconti letterari. In questo modo le classi medie ed i settori più colti di quelle popolari acquisirono un nutrito bagaglio culturale, formato da conoscenze e informazioni di varia provenienza; ciò permise loro di discutere e scegliere e di arrivare ad avere una propria posizione di fronte ai problemi del mondo; queste opinioni erano, ovviamente, molto intellettuali e molto ideologiche, ma, proprio per questo, finirono per spezzare il legame che univa questi gruppi alle classi alte e a quelle popolari, che rimasero entrambe legate ad una visione più diretta ed immediata del mondo.
Dalle fila delle classi medie provennero i nuovi professionisti, i medici, gli ingegneri e gli avvocati, molti dei quali erano entrati a far parte del ceto medio provenendo da strati ancor più bassi della gerarchia sociale. In questi settori intermedi trovò il proprio spazio anche un nuovo tipo di uomo di lettere, che non era più il gentiluomo ozioso e raffinato che per passare il tempo si dedicava alla letteratura, ma era un tipo di scrittore più impegnato, meno interessato al discorso estetico e, generalmente, incline all’utopia. Si poteva vederlo frequentare pittori e scultori nei caffè dei bohemiens, simili a quello bonaerense che Manuel Gálvez descrive in El mal metafísico; oppure era possibile incontrarlo nei salotti letterari ed artistici, alle prime dei drammi e delle commedie, alle mostre o negli atéliers dove lavoravano i suoi amici. Nacque così un nuovo tipo di attività culturale, caratteristico delle città in trasformazione e promotore di una vita intellettuale più militante e meno accademica. La cultura tradizionale continuava a sussistere e aveva i propri centri di diffusione, dove però era ormai costretta a difendersi dagli assalti della nuova ondata che considerava rozza e borghese: le accademie, le università, le società delle lettere e, naturalmente, anche i circoli letterari più prestigiosi, raffinatissimi e puristici, che avevano sede nei salotti e nelle biblioteche dei personaggi più in vista, dove il legno pregiato degli scaffali faceva cornice a rilegature di qualità. Il contrasto divenne palese e, al pari delle nuove lotte politiche e sociali, animò la vita delle città in trasformazione. Vi furono polemiche, scontri fra gruppi e rivalità tra le riviste che sostenevano le varie posizioni estetiche ed ideologiche. Non di rado problemi e gruppi si sovrapponevano, di modo che non era facile capire chi veramente fossero gli ispiratori di ciascuna posizione, anche se il tempo e i fatti dissipavano, ben presto, ogni equivoco. Salotti di particolare rilievo, simili forse a quello descritto da José Asunción Silva in De sobremesa, si formarono a Lima a partire dal 1805, prima all’Ateneo, poi al Circolo Letterario e, per finire, a partire dal 1887, attorno a Clorinda Matto de Turner. Gli argomenti più importanti furono per questo gruppo il programma politico radicale, l’indigenismo e tutti i più scottanti problemi del momento, che andarono immancabilmente a sovrapporsi con quelli di più stretta pertinenza letteraria. Gruppi significativi si riunirono nella Buenos Aires di inizio secolo al caffè La Brasileña e, poi, a quello di Los Inmortales. In Messico, attorno al 1910, il circolo letterario più importante era quello dell’Ateneo della Gioventù. Successivamente si formarono altri gruppi, come quello che, a Lima, ebbe come ispiratore Victor Andrés Belaúnde e come strumento di diffusione il Mercurio Peruano; molti circoli si formarono a seguito della rivoluzione estetica successiva alla prima guerra mondiale: il nucleo del «movimento modernista» a San Paolo, il gruppo di Martín Fierro a Buenos Aires, quello della rivista Contemporáneos a Messico e quello della Rivista de Avance a L’Avana. Tutti questi gruppi erano composti da intellettuali la stragrande maggioranza dei quali proveniva dalle classi medie e si guadagnava da vivere nei più vari modi, anche se all’interno di alcuni circoli poteva esserci posto per il figlio di un ricco imprenditore del caffè o di un influente latifondista. Tutti coltivavano un certo atteggiamento elitario ed aristocratico, tipico di una minoranza consapevole e convinta di avere raggiunto un elevato grado di raffinatezza. Tutti però erano anche, sia pure in varia misura, attenti ai nuovi problemi sociali che esplodevano da ogni parte.
Molti che pure sentivano di appartenere a questa minoranza incominciarono ad impiegarsi al servizio delle maggioranze che sempre più spesso venivano definite «masse». Costoro scrissero sui quotidiani e sui periodici, la cui tiratura aumentava, parallelamente al numero dei lettori, in tutte le città in trasformazione. Ciò avveniva non solo perché c’era sempre più gente, ma anche perché erano sempre di più quelli che sapevano leggere e che volevano istruirsi ed informarsi, per essere a conoscenza dei problemi del mondo nel quale viveva. La gente andava al cinema sia per imparare che per divertirsi e il cinema incominciò ad attrarre, nei primi decenni del secolo, un pubblico vasto e interclassista. Mentre da una parte continuava l’aristocratica passione per la scherma e per il tennis, dall’altra si diffondevano sport più popolari, come il calcio, le cui partite erano seguite dalla folla all’interno degli stadi, enormi impianti sportivi, dove i comportamenti delle masse, che li riempivano in occasione degli spettacoli più importanti, assumevano particolare rilievo. Al pari dei nuovi movimenti politici, anche queste manifestazioni facevano parte di una fenomenologia collettiva che, poco a poco, stava prendendo forma.
Il cinema e gli sport furono i simboli più tipici della trasformazione delle città, proprio perché rivelarono la presenza di classi popolari di fisionomia diversa rispetto a quelle tradizionali. Ora non erano più soltanto la processione del Signore dei Miracoli e il pellegrinaggio al santuario di Guadalupe a raccogliere le moltitudini; anche un incontro di pugilato e la finale di un campionato di calcio riunivano migliaia di persone, evidentemente desiderose di sottrarsi ai monotoni ritmi del lavoro e di godere la vita, sfogando i propri sentimenti, esprimendo le proprie opinioni e, a volte, approfittando della domenica per dare libero sfogo al proprio ribelle risentimento. Come per gli spettacoli dei tori, sulle piazze c’era sempre più gente e la sua partecipazione era sempre più accesa. Dopo l’evento, nelle osterie di periferia o lungo le cantonate dei vari quartieri, ciascuno difendeva le proprie opinioni collettive infervorandosi come se si fosse trattato di opinioni individuali. Sotto la superficie dei processi di trasformazione avviati dalla modernizzazione urbana si celavano la crescente tendenza delle masse popolari ad integrarsi e il desiderio, comune a tutti, di affermare la propria personalità individuale.
Inoltre, nella maggioranza delle città, la vita quotidiana dei settori popolari subì una lenta evoluzione. Il popolo cominciò a beneficiare di nuove comodità, come l’acqua corrente, l’illuminazione, i servizi igienici, anche se questo non avvenne sempre, dato che la crescita delle città e l’alto costo dei lotti urbani spingeva i settori meno abbienti verso le aree che non disponevano di questi servizi. L’educazione dei bambini divenne più facile, poiché aumentò il numero delle scuole, mentre anche la cura dei malati risultò meno onerosa, dato che vi furono più ospedali e notevoli miglioramenti nell’assistenza sanitaria. Il problema più grave restò quello della casa. I dormitori e i quartieri ghetto proliferavano e il grado di promiscuità divenne così insopportabile da spingere molti verso l’avventurosa soluzione di costruirsi autonomamente un alloggio su un lotto comprato a rate. Le pareti di questi alloggi rispecchiavano la cultura popolare, accostando immagini della Madonna a foto di pugili e a vasi di fiori dove venivano concentrati tutti i sogni sentimentali delle classi inferiori. In alcune città, cioè a Montevideo e a Buenos Aires, il popolo espresse questi suoi sentimenti con un genere musicale nuovo, a metà strada tra la musica degli immigrati e le canzoni contadine: il tango; il conflitto tra queste due anime della cultura popolare trovò voce nel sainete, un genere teatrale che nelle città del Piata assimilò contenuti nuovi.
Ben diverso fu il cambiamento sperimentato dalle forme di vita della classe media, caratterizzata pressocché unicamente dal desiderio della scalata sociale e, soprattutto, da quello di mantenere il proprio decoro e migliorare le apparenze. Questo spinse i ceti medi a ricercare con sempre maggiore affanno il possesso di oggetti simbolo e subire tutti gli stimoli della pubblicità, sempre più efficace mano a mano che aumentavano i suoi canali di diffusione. Insieme agli oggetti i ceti medi accettarono anche gli usi e le convenzioni connesse al loro possesso e godimento, cercando di vivere al limite della proprie possibilità o, maglio ancora, un passo al di là di questa.
A rigor di termini i cambiamenti più profondi non riguardarono la vita domestica. Fu infatti l’esistenza quotidiana che gli uomini conducevano fuori di casa a sperimentare le maggiori trasformazioni, dato che il desiderio di partecipare toccò le classi medio in modo ancor più forte che non quelle popolari. Per soddisfare questo desiderio era necessario essere sempre presenti e la strada diventava, quindi, più importante della casa. Tutti si rendevano conto che la vita assumeva, gradualmente, un ritmo sempre più vertiginoso e, però, desideravano essere trascinati da questo vortice, poiché erano convinti che, agendo diversamente, avrebbero regredito invece di progredire. Dire strada significava dire caffè e ristoranti, teatri e cinema, uffici e scrivanie, associazioni e partiti politici. Se la famiglia voleva migliorare la propria condizione era quanto mai necessario che il capofamiglia mantenesse le proprie relazioni e cercasse di estenderle. «Far carriera» era l’imperativo categorico dei nuovi ceti medi che si allargavano sempre più nelle città che si modernizzavano.
Gli strati inferiori della classe media, generalmente schiacciati dal peso delle necessità quotidiane, non arrivarono a tanto. Il commesso di negozio e il burocrate meno qualificato non avevano praticamente speranza, poiché il mondo era di quelli che avevano spirito di iniziativa e di avventura, mentre le incombenze quotidiane non lasciavano ai meno fortunati il tempo di evadere dalla monotonia. Però, proprio perché non avevano molte possibilità di farsi strada da soli, costoro riposero tutte le proprie speranze in quei movimenti politici che promettevano loro rapidi miglioramenti e soprattutto nuove opportunità di carriera. Chi non aveva la possibilità di aprire un piccolo negozio o di fondare una ditta poteva forse avere le capacità necessarie per lavorare nella sezione politica del proprio quartiere, finendo per diventarne segretario o mediatore elettorale. Proprio alle piccole classi medie dei centri urbani si appoggiarono i movimenti riformatori di González Prada e Piérola in Perù, di Alem e Yrigoyen in Argentina, di Alfaro in Equador, di Batlle e Ordóñez in Uruguay e di Alessandri in Cile. Dietro questi movimenti si agitavano le masse popolari, ancora indifferenti alla politica di classe. Questa crescente politicizzazione di ampi settori urbani produsse un grande cambiamento nelle forme di vita e le classi alte capirono di avere perso il controllo delle città.
Tensioni e contrasti
La crescente politicizzazione delle aree urbane non fece che porre in sempre maggiore evidenza l’influenza che le varie città esercitavano sulle rispettive regioni e sul paese di cui facevano parte. Nelle città venivano prese le decisioni relative alla modalità e al livello di sfruttamento a cui dovevano essere sottoposte le risorse delle varie aree; nelle città si formavano, indirettamente, gli stili di vita delle varie classi sociali i cui orizzonti venivano aperti o chiusi in base agli interessi dei gruppi, sempre più impersonali, che disponevano del potere decisionale. Le decisioni, una volta prese, venivano trasmesse, mediante vari passaggi intermedi, ad ogni zona periferica, dove le conseguenze arrivavano come un razzo del quale era impossibile identificare con certezza la base di lancio. La città, divenuta centro di anonime decisioni, si trasformava in un mostro sempre più odiato e sempre più inaccessibile; chi voleva ribellarsi era destinato a combattere contro un fantasma.
Sottoposti a nuovi e troppo gravosi tributi, gli indigeni di Huaraz si ribellarono, nel 1886, quando il governo peruviano fece imprigionare e bastonare il sindaco della comunità indigena Pedro Pablo Atusparia che aveva richiesto l’abolizione del nuovo balzello. Per reprimere gli insorti vennero impiegati una nave da guerra, diversi reparti dell’esercito e, soprattutto, la Guardia Civica, all’interno della quale «i rampolli della buona società occupano le posizioni più in vista». La città fece ogni sforzo per fare in modo che il mondo rurale funzionasse a esclusivo vantaggio del sistema economico che essa amministrava. Allo stesso modo in Argentina era stata organizzata la repressione e l’espulsione degli indigeni, portata a termine con la cosiddetta «campagna del deserto», comandata dal generale Roca nel 1879; analogamente nel Messico di Porfirio Díaz vennero sottomessi, nel 1901, gli indigeni della Sonora e, nel 1905, quelli dello Yucatán. Una volontà di resistenza particolarmente tenace nei confronti del sistema, che aveva le sue roccaforti nella città delegata alla mediazione, venne offerta dai brasiliani del Sertão, che a partire dal 1893, si raccolsero attorno ad Antonio Conselheiro nella remota regione di Canudos. Un gran numero di negri e di meticci, ai quali si aggiunsero anche esponenti del vecchio banditismo e dell’antica proprietà terriera, vennero così a trovarsi uniti dal comune desiderio di costituire un mondo proprio, estraneo alla civiltà urbana, uniformato da culti e credenze assai primitivi e dall’ostilità nei confronti della repubblica laica e liberale che aveva appena preso il potere in Brasile; questo universo si accingeva a vivere alla sua maniera o, se necessario, a morire difendendosi fino all’ultimo dagli attacchi del potere e della civiltà urbana. Euclides de Cunha analizzò, in un libro profondo e inquietante, intitolato Os sertôes (gli altopiani), la peculiarità di questo universo sociale, che, pur essendo lontanissimo, circondava il mondo urbano e che ad un certo punto sentì il bisogno di raccogliersi attorno ad un capo ed ad un villaggio, mescolando confusamente sentimenti atavici ed ancestrali all’odio nei confronti della civiltà. Lo stesso autore narrò anche le vicende dell’inesorabile azione repressiva che, nel 1897, mise fine a questa attiva contestazione che il mondo rurale aveva mosso a quello urbano. Quindici anni dopo sarebbe tuttavia ricomparso, negli stati di Santa Catalina e di Paraná, un altro movimento di questo genere, quello di Juan María, detto «il Monaco», che venne peraltro violentamente stroncato nel 1916.
Caratteristiche diverse ebbero invece le sommosse rurali che più o meno nello stesso periodo scoppiarono in Venezuela e in Uruguay. Un potente latifondista della provincia di Cerro Largo, Aparicio Saravia, si ribellò al governo nel 1897, insieme ad alcune centinaia di contadini mal armati, nel disperato tentativo di difendere la propria autonomia, opportunamente insidiata da un sistema che, da Montevideo, voleva costringere il ricco proprietario ad accettare le leggi del mercato. Cronista di questa rivolta fu il successore di Saravia alla testa del Partito Nazionale, Luis Alberto de Herrera, che, nella sua cronaca, così precisava le ragioni dello scontro: «Inoltre è lecito chiedersi da dove provenisse questo ribelle dal cappello a larghe tese e dal caratteristico poncho contadino, improvvisatosi generale di un esercito quantomeno stravagante. Di certo non potevano saperne nulla le classi borghesi della capitale, formate da gente che si agita, in quell’immenso alveare, senza conoscere altro che i propri affari né avere mai un orizzonte più ampio di quello offerto dal pianale del proprio scrittorio; a coloro che tuttavia, di tanto in tanto, prestavano ascolto alle notizie provenienti dalla provincia e che hanno così potuto seguire le tragiche fasi della rivoluzione del Rio Grande, risulta evidente che quell’uomo aveva la statura dell’infaticabile guerriero, attorno al quale già cominciavano a nascere le prime invidie e le prime esaltazioni». Sconfitto nel 1897, Aparicio Saravia tornò alla lotta nel 1904 e trovò la morte, insieme al suo sogno nostalgico, sul campo di battaglia di Masoller a partire dal quale José Batlle y Ordoñez avrebbe portato a termine la modernizzazione dell’Uruguay, un paese che, ormai, si confondeva con la sua capitale: Montevideo. Nel frattempo, maggiore successo aveva ottenuto, nel 1899, Cipriano Castro, capo degli «andini» del Venezuela, uomo capace di sfidare dall’alto delle sue montagne l’autorità del presidente di Caracas: «Imparerà a conoscere il ruggito delle tigri che scendono dalle Ande!». Le tigri scesero, ma fin dal loro ingresso a Caracas impararono le sottili regole che governavano il rapporto tra economia e politica, di modo che del loro antico impeto rurale finì per non restare altro che quel tanto di maleducazione che il passare del tempo non era riuscito a correggere.
Anche in Messico il mondo rurale alzò la propria voce contro la civiltà e contro il sistema economico, quando, con la rivoluzione del 1910, venne rovesciato Porfirio Díaz. Furono ruggiti stentorei, ma che si conclusero in impotenti singhiozzi, soffocati dal metodico sforzo di quanti difendevano il sistema urbano. La rivoluzione ebbe inizio come movimento politico contrario alla rielezione di Díaz, ed ebbe alla sua testa un liberale moderato, Francisco Madero; tuttavia, fin dal primo momento, e ancor più dopo i primi tragici sussulti, incominciarono a fare la loro comparsa i movimenti popolari rurali. A Chihuahua bande armate si sollevarono agli ordini di Abraham González, Pascual Orozco, José de la Luz Bianco e Francisco Villa; a Morelos si aggiunsero alla rivolta i gruppi di Torres Burgos e dei fratelli Zapata. Quando gli eventi precipitarono, con l’assassinio di Madero e il potere nelle mani di Venustiano Carranza, il movimento agrario si estese a tutto il paese e arrivò ad assumere una certa autonomia sottraendosi al controllo di quello politico. Vi furono distribuzioni di terre talvolta ispirate ad una dottrina sociale e talvolta no, mentre il fenomeno degenerava nel banditismo. Alla fine, all’interno del fronte rivoluzionario, si giunse allo scontro tra due ali contrapposte. Emiliano Zapata e Francisco Villa rifiutarono la linea istituzionale di Venustiano Carranza, dal quale vennero sconfitti ed uccisi, mentre il processo rivoluzionario incominciava a cristallizzarsi mediante l’emanazione di un testo costituzionale. Poco a poco, i settori più politicizzati si raccolsero sotto la direzione di Venustiano Carranza e Alvaro Obregón, nell’intento di rimettere in piedi il sistema economico, avviando un processo che sarebbe stato completato sotto la presidenza di Plutarco Elías Calles. Anche se ebbe minore risonanza, l’azione del nicaraguense Augusto César Sandino fu altrettanto significativa. Nel corso di lunghi anni di lotta liberali e conservatori avevano raggiunto un accordo politico, sotto la pressione delle forze statunitensi che erano garanti. Sandino, a capo di un piccolo esercito contadino, decise di rompere quel patto e di scegliere la strada della guerriglia, asserragliandosi nella zona di San Rafael del Norte. Osteggiato dalle forze di occupazione il movimento contadino venne alla fine riassorbito dal sistema che controllava la ricchezza agraria del paese.
Tutti questi movimenti, spontanei e popolari, ebbero in comune il fatto di non poter incidere sulle cause remote delle situazioni esasperanti a cui si ribellavano. Alla loro azione vennero frapposti tutti gli ostacoli ed i meccanismi di un sistema sperimentato e ben oliato che, operando dalle città, rendeva anonime le relazioni ed occultava i centri di decisione. Qualcosa di simile avvenne anche con i grandi scioperi che scoppiarono specialmente nelle zone minerarie del Messico e del Cile, in quelle tessili dello stato di Veracruz, nella Patagonia argentina e nei distretti ortofrutticoli della Colombia. Nel frattempo, in città, altri movimenti evidenziavano la presenza di grandi tensioni e di potenziali contrasti tra i gruppi in lotta per il potere urbano. In questi casi però il gioco si svolse nel rispetto di regole prestabilite, cioè tra coloro che conoscevano i meccanismi decisionali e avevano la possibilità di influenzarli direttamente.
In particolare, le capitali furono teatro delle lotte per il potere che si svolsero tra i vari gruppi della classe dirigente. Tutti d’accordo sugli obiettivi fondamentali, ciascun gruppo e ciascun individuo lottava, però, per imporsi nell’esercizio dell’autorità. A volte si trattava di una lotta aperta, suffragata da pubbliche argomentazioni, mentre in altri casi prevaleva un braccio di ferro occulto e dissimulato. Il palazzo presidenziale, il Congresso, i circoli, i ristoranti ed i salotti privati offrivano ospitalità a chi ordinava la trama e ne tesseva le fila. Rio de Janeiro, Santiago del Cile, Buenos Aires e Bogotá erano enormi luoghi di riunione, nei quali i gruppi influenti lottavano nell’ombra per ottenere candidature e nomine. La fluidità delle situazioni obbligava i protagonisti a procedere con estrema cautela per non infrangere le regole del gioco, la principale delle quali richiedeva allo sconfitto di saper perdere.
Le cose andavano diversamente là dove c’era un potere forte, cioè una solida dittatura personale che costituiva l’unica fonte del potere. La capitale era allora il centro ispiratore di un gigantesco intrigo volto a consolidare le relazioni che potevano modificare la volontà del dittatore. Anche tra gli autocrati vi furono i conservatori, come il messicano Porfirio Díaz, il guatemalteco Manuel Estrada Cabrera, il venezuelano Juan Vicente Gómez o il colombiano Rafael Núñez, e vi furono i liberali, come il nicaraguense José Santos Zelaya, il guatemalteco José María Reina Barrios o l’equadoriano Eloy Alfaro. Tutti avevano però in comune una gestione personalistica del potere, scrupolosamente rispettata anche dai più intimi collaboratori, ben consapevoli che soltanto il rispetto di certe regole poteva consentire di raggiungere gli obiettivi desiderati. Generalmente sensibili all’adulazione, i dittatori avevano la loro corte della quale bisognava far parte direttamente o indirettamente, se si volevano godere i favori del presidente; in questi casi le anticamere furono il vero scenario della lotta per ottenere i poteri delegati, le prebende, le onorificenze e i benefici.
In ogni caso, il dittatore non era mai un prodotto politico. Quali che fossero le sue doti di comando e la sua autorità personale, egli conquistava il potere come capo e come esponente di un gruppo. In genere assumeva i pieni poteri quando la classe dirigente non era in condizione di esercitarli collegialmente. Il dittatore offriva allora la propria autorità e le proprie capacità di uomo d’ordine, in grado di controllare sia le tensioni generali che i contrasti interni al gruppo che lo sosteneva. L’esercizio del potere concentrava nelle sue mani possibilità sempre maggiori, ma il dittatore sapeva bene di essere espressione di una classe o di un gruppo, in genere quello a cui apparteneva e di cui in ogni caso tutelava gli interessi in modo coerente. Poteva colpire singoli individui, disprezzandoli o cacciandoli, ma non poteva ledere gli interessi del gruppo che lo sosteneva. Se e quando questo gruppo perdeva la propria coesione, anche la dittatura aveva i giorni contati.
Mentre nelle anticamere ci si disputavano le briciole del potere, fuori di esse si cospirava. Se un certo gruppo economico e politico poteva essere il sostegno fondamentale della dittatura, l’equilibrio della situazione era, in pratica, determinato dalla forza militare. L’esercito era consapevole di questo e sapeva chiedere od ottenere ricompense adeguate alla sua leale collaborazione. C’erano però i generali ed i colonnelli. L’apparire di una crepa nelle impalcature politiche che sostenevano il dittatore scatenava le ambizioni di chi poteva mobilitare le forze in una direzione o nell’altra e, a partire da quel momento, la caserma diventava una seconda anticamera del potere. A volte la congiura non era neppure necessaria: il generale Cipriano Castro abbandonò Caracas perché aveva bisogno di cure e, durante la sua assenza, divenne presidente il suo uomo di fiducia, il generale Juan Vicente Gómez.
Tuttavia non fu sempre così facile scacciare un dittatore: egli era difeso infatti dalla rete degli interessi che aveva saputo tessere e dall’apparato difensivo che aveva messo in piedi. L’unico problema era che il trascorrere del tempo modificava le strutture della società e, con esse, gli equilibri politici. Nelle città circolavano nuove idee che esercitavano la loro influenza sullo schieramento delle fazioni, specialmente all’interno dell’area liberale, nelle cui fila incominciavano sempre a prodursi spiragli aperti alle influenze di chi voleva spostare la collocazione dell’intero gruppo su posizioni filo-popolari. Negli ambienti urbani, attenti alle nuove situazioni e permeati delle nuove idee, trovò spazio un certo genere di radicalismo, caratterizzato dal fatto di presentarsi sulla scena in cicliche ondate successive dal contenuto politico sempre più estremistico e dal tono sempre più verboso. Questa tendenza si era manifestata per la prima volta in Cile, nel 1854; essa si estese al Perù e all’Argentina intorno al 1890, all’ Equador nel 1895 e all’Uruguay nel 1903; anche i suoi movimenti capeggiati da Madero in Messico nel 1910 e da Alessandri in Cile nel 1920 subirono l’influenza di queste teorie.
La politica subì, a partire da questo momento, un’ulteriore trasformazione. Smise di essere monopolizzata dai gruppi di pressione che risolvevano tutti i loro problemi nei corridoi e nelle anticamere, per trasformarsi in qualcosa di più tumultuoso che ebbe come scenario le strade e le piazze. Grandi masse o, quantomeno, gruppi consistenti e surriscaldati esprimevano le proprie opinioni con grida e canti, raccogliendosi, talvolta, attorno ad un problema particolarmente scottante e, a volte, dietro un candidato il cui nome veniva acclamato durante i comizi e le manifestazioni.
I sostenitori si esaltavano e venivano alle mani con i propri avversari, determinando l’intervento della polizia che scioglieva la manifestazione o perseguitava gli oppositori del governo. La politica aveva ormai acquisito una nuova dimensione e in questo contesto si muovevano ormai il governo e l’opposizione.
Anche le rivoluzioni incominciarono ad assumere un carattere diverso. Un gruppo di cittadini armati, appoggiato da pochi militari, aveva potuto occupare il parco della Scuola di Artiglieria, in pieno centro di Buenos Aires, proclamando così l’inizio della rivoluzione, il 18 luglio 1890. Erano i sostenitori dell’Unione Civica Radicale, un movimento popolare antioligarchico che, pur venendo sconfitto in quell’occasione, sarebbe giunto al potere ventisei anni più tardi, con una schiacciante vittoria elettorale; la stessa città che aveva visto i tumulti di piazza poteva così assistere all’apoteosi del capo di parte popolare, Hipólito Yrigoyen, condotto alla Casa Rosada (il palazzo presidenziale) su una carrozza trascinata dalla folla che aveva liberato e sostituito i cavalli.
Sostenuto da un forte appoggio popolare, accuratamente preparato, Nicolas de Piérola entrò a Lima il 17 marzo del 1895. Vi furono scontri per le strade e, alla fine, l’ultimo grande caudillo militare, il generale Cáceres, venne sconfitto dal nuovo caudillo civile. Si trattava di un uomo di mentalità moderna che dotò la città di Lima di importanti servizi, ma che, soprattutto, procurò nuove opportunità di lavoro alla popolazione urbana. La calma di Asunción venne scossa da due rivoluzioni liberali: la prima fallì nel 1891; la seconda trionfò nel 1904. Un’altra rivoluzione liberale, appoggiata dalle popolazioni indigene, diede alla città di La Paz la possibilità di mantenere la propria posizione di capitale, in un periodo nel quale ormai diminuiva la produzione argentifera del Sud e cresceva, invece, quella dello stagno, concentrata nel Nord; la città continuò ad essere capitale anche dopo la vittoriosa rivoluzione antiliberale del 1920. Santiago del Cile venne messa sottosopra nell’ottobre del 1905, quando un’enorme quantità di persone protestò, inutilmente, contro il presidente Germán Riesco per l’alto costo della vita. Trentamila persone si concentrarono sull’Alameda e marciarono, minacciose, fino al Palazzo della Moneda (residenza presidenziale). Fu necessario schierare nutriti contigenti per poter arginare questa straripante manifestazione popolare, analoga a quella che aveva avuto luogo, tre anni prima, a Valparaíso e simile a quelle che, negli anni seguenti, si sarebbero ripetute ad Antofagasta e ad Iquique. L’ingresso di Eloy Alfaro a Guayaquil, il 4 giugno del 1895, mise fine alla stagione conservatrice ed inaugurò, con il trasferimento a Quito del nuovo capo di stato, avvenuto tre mesi dopo, il regime liberale, caratterizzato, tra l’altro, dal fatto di avere dato impulso alla vita urbana e alle attività commerciali. La rivoluzione militare che in Brasile aveva posto fine all’impero era stata pacifica: la popolazione di Rio de Janeiro non si rese conto di quanto era successo e la stessa famiglia imperiale restò del tutto all’oscuro dell’azione di istruzione compiuta nelle caserme dal maresciallo Deodoro de Fonseca. Al contrario, Francisco Madero, capo della vittoriosa rivoluzione contro Porfirio Díaz venne accolto, il 7 giugno del 1911, da oltre centomila persone, riunitesi per l’occasione nelle strade di Città del Messico. I successivi episodi di quel tormentato periodo non furono però salutati da analoghe manifestazioni di giubilo: nel febbraio del 1913, quando tre generali si sollevarono contro Madero mettendo sottosopra la capitale per oltre dieci giorni, finché il presidente non venne ucciso ed imprigionato, e nel dicembre del 1914, quando la città fu invasa dai reparti del nord e del sud comandati rispettivamente da Villa e da Zapata. Timorosi di essere trasformati in bottino di guerra, i centri urbani erano pienamente consapevoli del fascino che esercitavano sui nuovi signori, che incominciavano ad apprezzare il gusto del potere.
In realtà, le città si comportavano come strutture sociali complesse. La vittoria di un determinato gruppo stimolava l’entusiasmo e le manifestazioni di giubilo di tutti i gruppi più affini. Quando poi era la città stessa a decidere della vittoria politica dei nuovi settori egemonici, la fisionomia sociale e culturale delle città si modificava, con la scomparsa di alcuni settori e la presenza quasi ossessiva di altri.
Quando la classe operaia urbana raccoglieva le proprie forze in occasione di scioperi e manifestazioni, le classi medie e quelle superiori avevano di che preoccuparsi. Trascorrevano, in questi casi, giorni pieni di tensione, durante i quali le contrapposizioni diventavano visivamente percepibili, indipendentemente da ogni teoria rivoluzionaria. Fu così a Santiago del Cile nel 1905, a Guayaquil nel 1922 o a Buenos Aires durante le celebrazioni del Centenario e, più ancora, nel corso della cosiddetta «Settimana Tragica» del 1919, descritta con umorismo tragico da Arturo Cancela in Una semana de holgorio. Le classi benestanti, chiuse in casa, con le porte e le finestre sbarrate, aspettavano con impazienza che lo stato normalizzasse la situazione, facendo intervenire la forza pubblica, la cui azione provocava di solito varie decine di morti e di feriti tra coloro che, per un attimo, avevano assunto l’aspetto minaccioso di una forza politica potenzialmente in grado di assumere il controllo della situazione.
Minori inquietudini erano determinate dai conflitti studenteschi. A partire dal 1918, molte città, che erano sede universitarie, ebbero non pochi problemi a causa della mobilitazione studentesca. L’università argentina di Cordova diede l’esempio. Padroni dei locali universitari e, entro certi limiti, delle strade e delle piazze cittadine, gli studenti svolgevano azioni violente, collegate al proprio ambiente: impedivano l’accesso a determinate autorità ed ai professori di cui non erano soddisfatti, distruggevano le statue, danneggiavano i quadri, gettavano i mobili dalla finestra e costruivano barricate nelle strade adiacenti. Tutti si rendevano però conto che, dietro questi episodi, c’erano una certa componente umoristica e un sufficiente autocontrollo, di modo che non c’era ragione di temere l’estendersi della rivolta. Solo occasionalmente, infatti, le scorribande degli studenti avevano un collegamento con i movimenti operai e politici e anche quando questo avveniva c’era sempre il modo di distinguere le diverse istanze ed implicazioni dell’uno e dell’altro movimento. Accumulando queste esperienze, però, i gruppi sociali e politici che in seguito avrebbero formato grandi correnti d’opinione, abbastanza forti da sfidare le strutture del potere, andavano affinando il proprio arsenale. A Lima venne infranta per la prima volta la claustrale pace dei portici di San Marcos; nel suo romanzo Fiebre il venezuelano Miguel Otero Silva ricorda le lotte studentesche del 1928 a Caracas, primo nucleo di quello che sarebbe diventato in seguito il movimento di opposizione contro Juan Vicente Gómez.
L’apogeo della mentalità borghese
Se il periodo compreso tra il 1880 e il 1930 ebbe una sua inconfondibile e peculiare fisionomia, ciò avvenne soprattutto perché le classi dominanti delle città, che imposero i propri punti di vista in materia di sviluppo alle varie regioni ed ai vari paesi, dimostrarono di avere una mentalità organizzata in modo molto efficace e costruita su pochi e sicuri princìpi di ampio consenso. Su queste idee, molto elaborate e discusse in tutto il mondo, estremamente aderenti alla realtà socio economica e politica, la borghesia europea aveva edificato, nel periodo del suo maggiore splendore, una forma mentis che implicava un’interpretazione del passato, un progetto per il futuro e un intero sistema di norme e di valori: nel momento del suo trionfo, la grande borghesia industriale offriva uno spettacolo nel quale si celebrava l’apogeo della sua mentalità vincente. Era inevitabile che, tra le tante cose, le borghesie latinoamericane accettassero anche questo modello filosofico di indiscutibile e provata efficacia. Nonostante l’introduzione di molti caratteri specifici, il nucleo di questa ideologia venne assimilato nella sua interezza e venne fedelmente conservato fino a che le circostanze non dimostrarono che cominciava ad essere ormai superato.
Il tratto più tipico di questa mentalità fu probabilmente, in Europa come in America latina, che essa aveva le proprie radici nella certezza che il mondo si trovasse in una fase assai ben definita del proprio sviluppo e che fosse necessario condurla a termine, traendone le estreme conseguenze. Nei paesi latinoamericani tutto finì per contribuire a far sì che questa immagine assumesse i caratteri di una incontrovertibile evidenza, dato che non soltanto il fenomeno era chiaramente percepibile, ma sembrava anche inquadrabile in una teoria talmente evidente da diventare un luogo comune. Nel frattempo, una forte pressione esercitata dai centri di potere riusciva a portare a termine l’inclusione del continente latinoamericano nelle proprie sfere di influenza. La necessaria conseguenza fu che le nuove borghesie latinoamericane, nel momento in cui facevano propria la tesi della necessità di portare fino alle estreme conseguenze il processo nel quale era coinvolto l’intero mondo, accettarono anche, in foto, il sistema interpretativo e progettuale della vincente mentalità borghese.
Questo processo, che coincideva con la grande espansione dell’industria, era sostenuto dalla diffusa convinzione che esportare un preciso modello di sviluppo fosse non solo corretto, ma anche necessario e, anzi, addirittura moralmente obbligatorio per l’uomo bianco che aveva inventato la scienza e la tecnica e che doveva estenderne i benefici a tutti e a qualsiasi costo. Conseguire questo obiettivo era, come avrebbe detto Rudyard Kipling, «il compito dell’uomo bianco» e non c’è dubbio che, quale che fosse il colore della loro pelle, i membri delle nuove borghesie latinoamericane si sentirono parte del mondo dei «bianchi».
Ovviamente, questo moderno culto della scienza e del progresso evidenziò una frattura interna alle classi alte. Mentre alcuni settori si mantennero fedeli ad un tradizionalismo di forte matrice ispanica, perpetuando, pur nel progressivo immiserimento, sia l’eredità nobiliare che quella patrizia, le giovani generazioni e, più in generale, le moderne borghesie si rivolsero alle nuove idee che circolavano, in versione semplificata, anche come insegne di combattimento. Le nuove idee si diffondevano attraverso i giornali e le riviste, attraverso i diffusissimi libri di Spencer e attraverso le innumerevoli opere dei vari e più o meno qualificati divulgatori. Persino il teatro, che tanto fascino esercitava sulle borghesie urbane, divenne uno strumento mediante il quale si formò la nuova mentalità della classe dirigente, ispirata al liberalismo progressista e talvolta radicata ancor più nelle sue convinzioni dall’adesione alla massoneria. «È così che faremo teatro, un vero teatro di idee! […] Basta con i sainetes vacui e vuoti! A tesi, a tesi!», faceva dire, non senza ironia, ad uno dei suoi personaggi, lo scrittore argentino Gregorio de Laferrere, nella commedia Locos de verano, rappresentata per la prima volta a Buenos Aires nel 1905. Era questo il genere di teatro prediletto dai giovani intellettuali, nonché da tutti coloro che avevano a cuore i problemi sociali e politici e che credevano nel progresso.
Mano a mano che il tempo passava, anche le classi medie in ascesa propendevano con sempre maggior decisione per le idee liberali, che allargavano così la loro base di consenso. Le polemiche tra i sostenitori del laicismo ed i clericali, che difendevano il tradizionale ruolo di influenza della chiesa, turbarono la pace di molte città, nei cui fori i personaggi più in vista discutevano animatamente inanellando gli argomenti che ciascuna delle due parti aveva messo a punto un po’ dovunque, nel corso di una lunga riflessione. Tuttavia nelle città che si modernizzavano era possibile avvertire una crescente indifferenza per il fenomeno religioso ed era facile rendersi conto della considerevole diminuzione del numero di maschi adulti che frequentavano i templi. Lentamente il tradizionalismo incominciò ad essere considerato con ironico disprezzo come un ostacolo per il progresso anche da settori sempre più larghi dei ceti medi. Qualcosa di simile avvenne anche all’interno delle classi popolari. I gruppi periferici delle zone più remote restarono però attaccati alle vecchie idee ed alle credenze tradizionali; al contrario, le comunità immigrate, specie se provenienti dall’estero, non solo si sentivano estranee ai contenuti del tradizionalismo, ma erano addirittura disposte ad assimilare le idee e gli orientamenti del sistema economico che le aveva spinte a trasferirsi nelle città, dato che queste idee offrivano anche una plausibile giustificazione per l’intensa mobilità tipica della vita urbana.
Tuttavia il gruppo sociale nel quale la filosofia del progresso regnò incontrastata, permeando di sé le forme e i modi della mentalità dominante, fu senza dubbio costituito dalle moderne borghesie. Queste si sentivano figlie del progresso e si consideravano vestali del suo sacro fuoco. Il progresso era un vecchio mito che il secolo XVIII aveva sviluppato con cura ricavandone una teoria della storia e una filosofia della vita. In quell’antica versione il progresso si identificava in fondo con una continua e tenace avanzata della ragione. Tuttavia, nella seconda metà del secolo XIX questo mito era entrato in contatto con le società industriali e ne era stato aggiornato, in modo da presentarsi in una nuova versione o, quantomeno, in una variante del tutto specifica; in questa nuova accezione il progresso coincideva con lo sviluppo economico e la conquista della natura che veniva progressivamente asservita ai bisogni dell’uomo, alla produzione di beni, ricchezza e benessere.
Questa immagine del progresso era inseparabile dal prestigio del mondo industriale e dall’alto grado di sviluppo raggiunto dalla scienza e dalle sue applicazioni tecnico-industriali. Era l’immagine che dominava l’Inghilterra vittoriana, la Germania imperiale e la Francia del Secondo Impero e della Terza Repubblica. In America latina però, tutto questo non era ancora avvenuto. Si trattò piuttosto di un modello o, meglio, di uno specchio. A partire da allora sembrò essenziale entrare a far parte di questa corrente, in primo luogo importando i prodotti che erano frutto del progresso e, in seguito, organizzando tutti quei sistemi che rendevano possibile trasformare l’inclusione in qualcosa di stabile e di permanente.
Le nuove borghesie, compattate proprio dalle possibilità che si aprivano davanti ai loro occhi, si forgiarono al calore di queste idee, che prospettavano un’immagine dell’evoluzione storica all’interno della quale esse aspiravano a trovare posto. Si formò così il nucleo della loro mentalità, definita, nelle sue linee essenziali, dal progressismo e dalla lotta alla stagnazione e alla cristallizzazione dei vecchi modelli di vita. Dietro a tutto ciò c’era una concezione della società latinoamericana che non si riferiva alla realtà, lacerata da antichi problemi sociali e razziali, ma alle possibilità di trasformarla.
Alcuni gruppi, eterodossi ed anticonformisti, levavano, di tanto in tanto, la propria voce in favore degli indigeni sottomessi e sfruttati. La scrittrice peruviana Clorinda Matto de Turner avviò, nel 1889, con la pubblicazione del suo romanzo Aves sin nido, un movimento indigenista che avrebbe avuto in seguito importanti sviluppi, animando la rivoluzione messicana del 1910, affermando la propria presenza nelle pitture murali di Diego Rivera e raggiungendo la propria maturazione nella piattaforma politica dell’APRA, tracciata da Víctor Luis Haya de la Torre. Ciononostante, la reazione immediata dei settori che si facevano portavoce del progressismo e della mentalità borghese fu quella che trovò espressione nelle campagne militari antirurali, come quella comandata dal generale Roca in Argentina, quelle promosse da Porfirio Díaz nella Sonora e nello Yucatán, o quella che si concluse, in Brasile, con la guerra di Canudos. Tutto ciò che si opponeva allo sviluppo lineare ed accelerato del mondo urbano ed europeizzato era ritenuto condannabile e considerato un ostacolo che doveva essere rimosso. Illustri sociologi affermavano che nulla si sarebbe potuto ricavare dai degradati villaggi popolati dagli indigeni. Nel suo libro Nuestra América l’argentino Carlos Octavio Bunge concludeva benedicendo l’alcolismo, il vaiolo e la tubercolosi che decimavano i negri e gli indios; il boliviano Alcides Arguedas dichiarava in Pueblo enfermo che l’indio « oggi come oggi, essendo ignorante, vizioso e miserabile, è oggetto di sfruttamento e di antipatia da parte di tutti […] dato che, prestando ascolto alla sua anima piena di rancore, sfoga le proprie passioni rubando, uccidendo e assassinando con atroce furia». Soltanto la società integrata nel sistema economico controllato dal mondo urbano e civilizzato costituiva, insomma, l’oggetto del necessario progresso e l’ambito nel quale i cambiamenti potevano moltiplicarsi producendo ulteriore sviluppo e dando vita ad un processo incessante capace di produrre, insieme, il benessere dell’umanità e l’affermazione dei migliori.
La società latinoamericana inserita nella generale trasformazione fu soprattutto, dal punto di vista delle moderne borghesie, una società ricca di opportunità. Quali fossero la struttura, le origini e i tratti specifici dei vari gruppi e dei singoli membri, la cosa veramente importante fu rappresentata dalla scoperta che la società nel suo complesso si trovava ad essere coinvolta in una sfida esterna che ciascun individuo poteva accettare, tentando di cogliere una delle tante opportunità offerte da un contesto gravido di promesse, sapendo per certo, fin dal principio, che un eventuale successo avrebbe consentito ai fortunati di sottrarsi al condizionamento delle vecchie strutture e di raggiungere i vertici. Il progresso, che si manifestava con lo sviluppo della scienza, della tecnica e, di conseguenza, della produzione, agiva indirettamente sulla struttura sociale, determinando la formazione di nuovi gruppi, anche se, in realtà, la sfida non veniva mai posta in termini collettivi, ma sempre in termini individuali, in riferimento alla capacità o meno, da parte dei singoli, di accettare e cogliere le nuove opportunità di affermazione economica. La risposta venne, pertanto, fornita nell’ambito di una concezione fondamentalmente individualistica sia della società che del successo sociale; a questa visione del mondo non era del tutto estranea la fiducia in una sorta di provvidenza profana che, agendo sul complesso della società, ne regolava le carriere in base al principio della selezione naturale.
Questa provvidenza di stampo profano non poteva ovviamente contemplare la carità. I settori meno dinamici della società, concentrati prevalentemente nei ceti medio bassi, ma anche nei settori tradizionali della classi superiori, incapaci di accettare la sfida e di giocare con audacia e decisione la carta del successo economico e della carriera sociale, rivelavano tutta la loro fragilità di fronte alle nuove borghesie, la cui mentalità poggiava sulla convinzione che il successo fosse, sempre e comunque, un premio meritato. Era lecito che i più capaci e i più fortunati strumentalizzassero i settori più arretrati, dato che anche la stagnazione e la rovina erano, in quest’ottica, qualcosa di meritato.
In questo modo la mentalità borghese finì per concretizzarsi in un’ideologia del successo economico e dell’ascesa sociale. I vincitori costituirono una nuova aristocrazia. Forse in altre epoche gli allori di questa élite sarebbero stati messi in questione a causa della loro ipocrisia, ma l’atmosfera morale del XIX e degli inizi del XX secolo aveva non solo cancellato la tradizionale concezione dell’ipocrisia, ma aveva addirittura riconosciuto la validità dei principi che stavano alla base della ricchezza, nella sua duplice accezione di capitale accumulato e di fortunoso successo. Si trattò dunque di un aristocrazia legittima, sostenuta e riconosciuta come tale da ampi settori della società; quando anche veniva criticata, ciò non avveniva su iniziativa delle vittime che essa sfruttava, ma su pressione dei rappresentanti dell’antica concezione del pudore, propria del vecchio patriziato e delle classi medie tradizionali, scandalizzate dallo spettacolo offerto dai vari gruppi che davano la scalata al potere ed alla ricchezza, senza preoccuparsi dei canoni della morale, che conservavano la propria validità agli occhi dei contestatori, nonostante fossero palesemente anacronistici. La nuova aristocrazia fondata sul successo economico e sulla scalata sociale fece piazza pulita dei gruppi precedentemente dominati e impose i propri principi ad una società che, per vari decenni, si riconobbe in essi, impiegando molto tempo prima di riuscire a sostituirli con altri, capaci di esprimere quanto meno il dissenso e l’anticonformismo.
Un dato caratteristico di questa aristocrazia plutocratica e carrieristica fu che, nonostante fosse costituita da persone che riconoscevano apertamente la matrice individuale del proprio successo, manifestò molto presto una vocazione oligarchica, cioè una prematura tendenza a serrare i propri ranghi. Probabilmente ciò fu dovuto al fatto che i membri di questo gruppo monopolizzarono gli affari e, come aveva fatto la nobiltà veneziana, vollero assicurarsi la totalità dei profitti, impedendo che altri, da poco entrati nel gioco, potessero accedere agli stessi canali di arricchimento di cui usufruivano gli esponenti della élite. Inoltre costoro vollero anche monopolizzare il potere politico e quello sociale, esercitando il primo in modo concreto, mediante una sistematica occupazione dei posti chiave ed una costante partecipazione ai supremi consigli del potere, e il secondo in modo diffuso, grazie alla forza e al prestigio garantito dal denaro.
Vi fu anche chi teorizzò la superiorità di queste oligarchie. Intorno al 1930, il brasiliano Oliveira Vianna formulò un elogio quasi delirante della casta bianca del suo paese; scrisse infatti nel suo libro Evolucão do Povo Brasileiro: «Un altro fatto che sembra ulteriormente rafforzare l’ipotesi della presenza di dolicocefali biondi, con tratti celto-iberici, all’interno del primo gruppo di popolamento del Brasile è la superba caratteristica eugenetica dominante di molte famiglie della nostra aristocrazia rurale. I Cavalcanti del nord, i Prados, i Lemes e i Buenos nel sud sono solo alcuni esempi degli eccezionali casati che hanno fornito al Brasile degli ultimi trecento anni un copioso lignaggio di uomini autenticamente grandi, notevoli per la tempra intellettuale, la superiorità del carattere, l’audacia e il vigore della volontà». Era il delirio di un difensore dell’antico patriziato, a proposito del quale Gilberto Freyre potè a buon diritto parlare di «arianesimo quasi mistico». Tuttavia questo non era più il settore di maggiore importanza. Perciò suonano ancor più significative le parole con le quali il cileno Enrique Mac-Iver difese la nuova oligarchia, cioè le moderne borghesie che si erano formate con il processo di trasformazione socio economica e che avevano preso con decisione le redini della nuova società. Durante un dibattito parlamentare, svoltosi nel 1880, ebbe occasione di dire: «L’oligarchia, di cui ci stanno parlando tanto seriamente, vive all’interno di un regime parlamentare rappresentativo, dotato di suffragio più o meno universale, nel quale tutti i cittadini hanno uguale diritto di essere ammessi a svolgere qualsiasi pubblico impiego e nel quale l’istruzione, anche quella superiore e professionale, è gratuita. Si aggiunga che non esistono privilegi economici o ineguaglianze civili riguardo al diritto di proprietà e non si potrà non essere d’accordo con me, onorevoli colleghi, quando affermo che un paese che dispone di simili istituzioni e, ciononostante, ha un’oligarchia è qualcosa di straordinario e di talmente eccezionale da essere veramente inconcepibile. Ho quindi paura che gli onorevoli deputati che ci hanno fatto conoscere questa oligarchia abbiano avuto un’allucinazione, che ha impedito loro di vedere bene, facendogli scambiare per oligarchia la distinzione e il prestigio sociale e politico di cui molti godono per aver dato buona prova di sé negli uffici pubblici, dimostrando di possedere virtù, saggezza, talento, laboriosità, ricchezza e persino una certa tradizione familiare. Oligarchie di questa fatta sono comuni ed esistono anche nei paesi più liberi e democraticamente governati. Gli onorevoli rappresentanti potrebbero trovare oligarchie di questo genere anche in Inghilterra e persino negli Stati Uniti d’America. Soltanto agli anarchici e agli sprovveduti può venire in mente di condannare queste oligarchie che sono, in realtà, la vera forza dell’edificio sociale e politico».
Queste oligarchie, o, meglio, queste nuove borghesie, erano consapevoli di rappresentare il processo fondamentale della moderna società e disprezzavano i gruppi sociali che ne restavano a margine. Sapevano anche che il potere era di loro competenza, anche se erano disposte a delegarlo quando le tensioni sociali provocavano scontri di particolare durezza. Avevano l’abitudine di sostenere il dittatore che poteva garantire loro il mantenimento dell’ordine e la stabilità sociale, sia pure a prezzo di alcune limitazioni nell’esercizio delle libertà personali, dato che, avendo ormai beneficiato delle possibilità di ascesa, volevano limitare la mobilità, bloccando l’evolversi della situazione nel momento in cui avevano raggiunto una posizione di preminenza. Il dittatore era allora un modo di garantire il mantenimento dello status quo ed è per questo che i nuovi borghesi erano disposti ad appoggiarlo e farsi garanti della pace sociale che riconoscevano di rappresentare.
In genere il rapporto tra il dittatore e le nuove borghesie fu alquanto fluido, come è ovvio tra due parti che sanno di dipendere l’una dall’altra. La mobilità sociale incominciò però a introdurre, in queste relazioni, variabili inattese ed insospettabili. Se il dittatore si rendeva conto che un gruppo sociale in ascesa avrebbe potuto garantirgli un certo appoggio, facendo aumentare la sua autorità personale, era difficile che resistesse alla tentazione di scuotersi di dosso la dipendenza dal gruppo che lo aveva condotto al potere. Il dittatore smetteva, cioè, di considerarsi portavoce di una classe e della politica, per assumere il ruolo di rappresentante di una nuova società e di una nuova incarnazione del mondo che si trasformava, all’interno del quale le masse urbane assumevano sempre maggiore importanza, dato che non erano politicizzate e vivevano in un tale stato di necessità che era possibile mobilitarle, proteggerle ed utilizzarle, senza dover pagare per questo un prezzo politico. I vecchi dittatori lasciarono il posto a una specie nuova, che si fece largo nei primi decenni del secolo ed arrivò ad esprimere, con chiarezza, una propria teoria nel 1919, quando il venezuelano Laureano Vallenilla Lanz giustificò e legittimò il potere di Juan Vicente
Gómez, analizzandolo nel suo libro sul Cesarismo democrático, dove, tra l’altro, si diceva: «Se in tutti i paesi ed in tutti i tempi si è potuto riscontrare che, per quanti meccanismi istituzionali possano essere oggi applicati, esiste sempre e continua ad esistere, come una fatale necessità, il gendarme elettivo o ereditario dallo sguardo intenso e dalla mano dura, che, passando alle vie di fatto, ispira timore e, col timore, mantiene la pace, è allora evidente che in quasi tutte queste nazioni dell’America spagnola, condannate da cause molto complesse ad un’esistenza travagliata, il caudillo ha costituito l’unica forza di conservazione sociale, realizzando ancora una volta quel fenomeno che gli uomini di scienza segnalano come caratteristico delle prime fasi di integrazione delle società: i capi non si eleggono, si impongono».
Era un nuovo modo di intendere la società, ispirato alla tradizione romantica e legato alle trasformazioni sociali in corso. Era anche un nuovo modo di intendere il potere politico, anche se le moderne borghesie avevano ormai assimilato troppo in profondità i principi fondamentali del liberalismo individualista e non esitavano a preferirli a quelli dell’autoritarismo. Erano disposte a transigere su questo punto soltanto a condizione che l’autoritarismo consentisse loro di vivere come in un sistema liberale, impegnandosi però a consentire al despota un pieno esercizio del suo potere su tutte le altre classi. A ben guardare, le nuove borghesie credevano soprattutto nei principi del liberalismo economico, che in quel periodo erano molto diffusi nei centri di dominio del mondo industriale, dato che si armonizzavano perfettamente agli interessi del capitale. I borghesi latinoamericani credevano, dunque, prima di tutto nella concorrenza e nell’abilità di cui ognuno aveva bisogno se voleva imporre la propria volontà ed i propri progetti nella tremenda «lotta per la vita» che Darwin aveva identificato come meccanismo fondamentale del comportamento degli organismi biologici, ipotizzando che l’uomo fosse, prima di ogni altra cosa, uno di questi. Il liberalismo economico trapiantava l’idea della lotta per la vita e la trasformava in lotta per la ricchezza e per la carriera sociale, giustificando così le sottili strategie e le sordide tattiche di chi scendeva in competizione sul mercato e adeguando a questo lo schema fondamentale, che poneva come unica alternativa possibile quella tra morte e adattamento. Armate di questa filosofia, se pure è lecito chiamarla così, le nuove borghesie non facevano che alimentare le proprie inclinazioni fondamentali, espresse dall’ideologia del successo economico e della scalata sociale.
Verso la fine del secolo alcuni gruppi si allontanarono da questi schemi assumendo atteggiamenti diversi. Ai margini delle moderne borghesie fecero infatti la loro comparsa coloro che ritenevano che, pur mantenendo la stessa impostazione di fondo, fosse giunto il momento di abbandonare gli atteggiamenti di chiusura per offrire ampie possibilità di partecipazione a chi, nel corso di successive ondate, aveva raggiunto e raggiungeva il successo economico e l’affermazione sociale. Queste «posizioni democratiche» vennero giudicate un suicidio da coloro che avevano paura di perdere qualcosa durante il processo di cooptazione, mentre chi preferiva concedere con le buone ciò che temeva di dover perdere per forza giudicava saggio questo atteggiamento. Più che «democratiche», queste posizioni vennero considerate «radicali», probabilmente a ragione, dato che non proponevano una modifica sostanziale del sistema, ma soltanto una estensione a più ampi settori di quei privilegi che erano stati, in precedenza, ritenuti adeguati ai meriti dei primi che si erano indirizzati verso le nuove forme di vita.
Questo liberalismo democratico e progressista si diffuse soprattutto nelle classi medie e in quelle popolari, almeno fino a che non fecero la loro comparsa formule ideologiche più confacenti alla realtà di questi settori. Al Teatro Politeama di Lima, Manuel González Prada pronunciò, nel 1888, un celebre discorso, nel quale sostenne la necessità di un audace compito rivoluzionario: «i vecchi nella tomba e i giovani all’opera». Le sue iniziative si concretarono nella formazione del partito dell’Unione Nazionale, non troppo diverso dall’Unione Civica Radicale organizzata a Buenos Aires da Leandro N. Alem. Si trattava di partiti popolari che offrivano alla nuove maggioranze, in prevalenza urbane, la possibilità di partecipare alla vita politica, pur senza mettere ben in chiaro gli obiettivi finali dell’operazione.
Anche in altre città come Montevideo e Santiago del Cile, la politicizzazione di queste maggioranze costituì un fatto importante. Alcuni settori preferirono però optare per soluzioni più concrete. A Buenos Aires, su iniziativa di Juan B. Justo, si costituì il partito socialista, nelle cui file militava Alfredo L. Palacios, che, nel 1904, divenne, grazie ai voti del quartiere popolare di La Boca, il primo deputato socialista di tutta l’America latina ad essere eletto per un seggio del Congresso. Emilio Frugoni a Montevideo e Luis Emilio Recabarren, nelle zone minerarie e a Santiago del Cile, si adoperarono per fondare movimenti di ispirazione socialista che raggiunsero una certa consistenza elettorale e politica. A fianco di queste organizzazioni lottarono i sindacalisti e gli anarchici, mentre i cattolici cercarono di opporre a questa ondata una forza non rivoluzionaria, mediante la formazione dei primi Circoli Operai Cattolici, che si formarono seguendo gli insegnamenti dell’enciclica Rerum Novarum. Ebbe così inizio una stagione di lotte ideologiche; il movimento operaio anarchico e socialista organizzò importanti scioperi e venne quindi considerato sovversivo e spietatamente represso. Le grandi città parvero sfuggire ad ogni controllo e alcuni considerarono poco prudente mantenere in vigore l’ordinamento liberale e continuare a garantire le libertà individuali. L’idea della dittatura incominciò a trovare spazio nella mente di molti. A Lima, nel 1924, in occasione del centenario della battaglia di Ayacucho, il poeta argentino Leopoldo Lugones dichiarò che era giunta «l’ora della spada», mentre alcuni settori si fecero seguaci della corrente ideologica del fascismo italiano.
A rigore l’incremento della ricchezza, l’ascesa sociale di vasti settori e l’esplosione demografica, provocata in gran parte dall’immigrazione straniera, avevano modificato, nel giro di mezzo secolo, la fisionomia delle società latinoamericane di modo che, negli anni successivi alla prima guerra mondiale, era ormai evidente che non esisteva alcun espediente in grado di estendere a tutti le trasformazioni che erano avvenute. Le città furono, più di ogni altro luogo, il palcoscenico sul quale i cambiamenti sociali divennero più chiaramente percepibili, mettendo a nudo, di conseguenza, la crisi dei modelli utilizzati per interpretare la nuova realtà. Ci si rese conto che nessuno riusciva a capirla e, poiché era impossibile cogliere il nuovo e diverso contesto nella sua globalità, si finì per concentrare l’attenzione in modo ostinato su ciascuna delle varie parti. La città apparve allora non come un sistema integrato, ma come una giustapposizione di gruppi di diversa mentalità. L’immagine di Babele fu, per l’ennesima volta, il simbolo della confusione che caratterizzava le città in sviluppo, dove venivano di continuo inglobati i gruppi che provenivano dall’esterno e integrati quelli che si muovevano all’interno. La società urbana, che cominciava ad essere costituita da moltitudini, provocava il crollo del vecchio sistema delle norme e dei valori condivisi, senza però che ne subentrasse uno nuovo. Ogni gruppo ritornò al proprio sistema fondamentale di norme e la società nel suo insieme incominciò ad offrire un panorama tipicamente anomico.
Probabilmente agli inizi degli anni trenta non erano molte le città latinoamericane che davano questa impressione. Se in alcune questo era effettivamente il quadro complessivo, nella maggior parte dei centri urbani non comparvero che pochi tratti della nuova situazione. I gruppi più recentemente incorporati nel meccanismo della carriera sociale si caratterizzarono per una intensa aggressività, per una più irrazionale tendenza a disprezzare le regole del gioco e per una spinta leggermente più primitiva verso la lotta, considerata strumento essenziale per perseguire gli obiettivi più immediati. Era l’inizio di un processo di degradazione che coinvolse e continuò a coinvolgere l’ideologia del successo sociale. In vasti settori c’era, sia pure in termini molto vaghi, la certezza che la società nel suo complesso, o, quantomeno, lo stato fossero obbligati a sostenere e promuovere l’ascesa degli emarginati e dei nuovi venuti, mettendo da parte i tradizionali dettami del meccanismo concorrenziale. Molti continuarono ad aver fiducia nelle proprie possibilità di affermazione individuale, ma altri cominciarono a pensare che fosse il gruppo, il settore o la classe a doversi affermare come un unico blocco, grazie all’appoggio di uno stato dalle caratteristiche nuove. L’ideologia della carriera era definitivamente messa in questione.
Nel frattempo, all’interno dei settori integrati, che traevano profitto dai meccanismi del sistema, incominciarono a trovare spazio dottrine che paradossalmente cospiravano contro la stabilità. Alcuni misero sotto accusa la legittimità del profitto e la moralità della libera concorrenza. Il valore della famiglia e dei tradizionali modelli di educazione e di comportamento nelle relazioni sociali ed economiche vennero sottoposti a non poche obiezioni. Per molti, i vecchi costumi, intendendo per vecchi quelli che si erano affermati negli ultimi trent’anni, incominciavano ad essere considerati ridicoli e a venire censurati e bollati come «pregiudizi». Questa parola sulle labbra delle giovani generazioni aveva il valore di una condanna definitiva, dato che le nuove borghesie incominciavano ormai ad essere ed a sentirsi vecchie. La «morale vittoriana» dei genitori, così almeno la chiamavano i figli, sembrò all’improvviso un cumulo di ridicoli pregiudizi. I giovani preferivano assumere, di fronte alle situazioni reali, atteggiamenti più liberi e meno formali, dato che la realtà stessa aveva effettivamente subito, nei primi anni trenta, un cambiamento abbastanza radicale da rendere palese la necessità di rivedere il sistema delle norme etiche. Queste avevano subito ben pochi mutamenti sia nell’Inghilterra post-vittoriana, che in quella degli anni successivi al primo conflitto mondiale; tuttavia gli Stati Uniti e alcuni altri paesi dell’Europa proprio all’inizio degli anni venti vennero additati a modello da chi voleva trasformare i formalistici meccanismi di convivenza che dominavano le città latinoamericane. Lentamente ebbe inizio una totale revisione dell’arcaico sistema di idee relativo al ruolo della donna nella società e, a causa di questa profonda trasformazione, l’intero corpo sociale si trovò coinvolto in una rivoluzione normativa.
Nessuno avrebbe potuto ritenere coerenti i nuovi atteggiamenti politici, sociali, estetici e morali che fecero la loro comparsa all’inizio della profonda crisi degli anni trenta. Molti si resero però conto che si era esaurita la fase di apogeo della mentalità borghese. Quasi nessuno sapeva con che cosa sostituirla, ma pochi, tra quanti assistevano alla metamorfosi delle città latinoamericane, avevano dubbi sul fatto che altre forme di interpretazione della realtà e altri progetti di vita fossero in elaborazione sotto la superficie di un universo sociale urbano sempre più incandescente.
7.
Le città massificate
La crisi del 1930 ha unificato visibilmente i destini dell’America latina. Ogni paese è stato costretto a ridefinire le relazioni che intratteneva con quanti, dall’estero, compravano e vendevano i suoi prodotti, in concomitanza con la nuova congiuntura imposta dal mercato internazionale, trasformatosi improvvisamente in un mercato dove i più forti lottavano come belve per salvare il salvabile, anche a costo di far annegare i loro alleati del giorno prima. Si apriva un periodo di ristrettezze, le cui conseguenze si sarebbero fatte sentire sia nelle città che nelle aree rurali. La penuria poteva spingersi fino al punto di diventare fame e morte, ma fu anche la forza propulsiva che si dimostrò capace di scatenare numerosi e violenti cambiamenti. All’improvviso sembrò che vi fossero molte più persone, molte più grida, molte più iniziative. Aumentavano infatti coloro che abbandonavano la passività e si dimostravano disposti a partecipare, in qualsiasi modo e a qualsiasi costo, alla vita collettiva. Il numero degli abitanti era effettivamente aumentato e in poco tempo risultò chiaro che le masse costituivano una nuova forza, che cresceva come un torrente in piena e levava, con clamore, la propria voce. Vi fu una vera e propria esplosione demografica, all’interno della quale era difficile stabilire quanto giocasse l’incremento numerico e quanto la maggiore determinazione con la quale molti si impegnarono per ottenere di essere ascoltati e considerati. Ancora una volta, come era già avvenuto alla vigilia dell’indipendenza, nelle crepe della società incominciarono a farsi largo i molti che, indipendentemente dalle loro origini, desideravano inserirsi; mano a mano che ciò avveniva la vecchia società si rinnovava, presentando, per la prima volta, proprio in alcune città, caratteri fino ad allora sconosciuti. I centri urbani erano ormai in via di massificazione.
Tutto ebbe inizio a partire dalla prima guerra mondiale e dal decennio che la seguì. I paesi dell’Europa e gli Stati Uniti stavano faticosamente adeguando le proprie economie, vuoi per risanare le proprie ferite, vuoi per porsi nella posizione più vantaggiosa per proseguire il proprio sviluppo. Si trattava di un compito difficile, tanto che, nel 1929, la complessa impalcatura finanziaria e monetaria degli stati vincitori subì un contraccolpo di non comune violenza. Il crollo della borsa di New York scardinò l’intero sistema e trascinò con sé, in brevissimo tempo, tutte le piazze minori. Poco dopo si fecero sentire le conseguenze indirette della catastrofe, che travolse l’intero sistema economico e persuase i protagonisti del dramma ad agire con disperata determinazione per cercare di salvarsi.
Tra i vari provvedimenti uno tra i più importanti fu indubbiamente il riassetto delle relazioni di ciascuno con i propri stati satellite e con le aree periferiche, che erano contemporaneamente mercati di vendita per i prodotti finiti e mercati di approvvigionamento per le materie prime. Le vendite si contrassero e i prezzi crollarono. Il panico moltiplicò gli effetti del nuovo corso e alle conseguenze economiche della nuova crisi si aggiunsero i suoi effetti sociali e politici.
Era inevitabile che coloro che controllavano la ricchezza dell’America latina ripetessero la manovra di cui erano stati vittime. Ridotti ad accettare le condizioni del mercato internazionale, si sforzarono di organizzare la vita interna di ogni singolo stato in modo tale da non essere i soli a doverne subire i danni e, anzi, per cercare, se possibile, di fare in modo che a pagare fossero soltanto gli altri. Vi furono rivoluzioni, mutamenti nella politica economica, sostanziali modifiche nei meccanismi finanziari e monetari e nuovi equilibri nei rapporti tra capitale e lavoro, perfezionati, se necessario, da un’energetica azione politica repressiva nei confronti delle classi popolari, per le quali non ci fu né misericordia, né possibilità di negoziare. Vasti settori, precipitati nella miseria, si guardarono intorno per cercare di uscirne e molti non trovarono di meglio che il trasferimento verso le città.
In alcuni centri incominciava proprio allora a svilupparsi un primo nucleo di attività industriali, talvolta destinato a sostituire le importazioni, talvolta dovuto ad investimenti operati dal capitale straniero e talvolta legato all’emulazione che questi primi esperimenti determinavano, incoraggiando i capitalisti locali ad investire i loro soldi nelle attività di trasformazione. Aveva così fatto la sua comparsa una più intensa domanda di lavoro urbano, generalmente ben retribuito e dunque tale da suscitare gli entusiasmi di molti disoccupati rurali. Si trattò però di una bolla di sapone dalle conseguenze assai spiacevoli. Dato che l’offerta di lavoro era sempre superiore alla domanda, lo sviluppo della città coesisteva con la disoccupazione e la miseria dei cittadini. La situazione migliorò, sia pure di poco, a partire dal 1940, quando la seconda guerra mondiale riattivò le correnti di scambio legate alle forniture per i paesi in conflitto. In breve tempo vi furono nuovi posti di lavoro, anche se la domanda restò sempre superiore al numero dei posti disponibili.
Negli anni che seguirono la seconda guerra mondiale, in quasi tutti i paesi dell’America latina, non era difficile rendersi conto che la vecchia struttura socio-economica, scossa dalla crisi del 1930, non aveva saputo rimettersi in piedi e che al suo interno si profilava ormai un cambiamento tanto inevitabile quanto imprevedibile. Alcuni sporadici eventi segnalavano l’aprirsi di nuove strade, ma il sistema a cui queste avrebbero dato vita non era ancora chiaramente visibile. Nel volgere di poco tempo si capì che il fenomeno stava diventando sempre più consapevole e si collegava a progetti di gestione dello sviluppo economico, con l’intenzione di correggere e dare nuovo significato e nuove opportunità alle vecchie strutture. Molteplici possibilità sembravano essere alla portata dei paesi latinoamericani nel corso degli anni quaranta.
La situazione andò un poco deteriorandosi col passare del tempo, ma nonostante tutto, alcune prospettive restarono aperte per gran parte dei paesi latinoamericani: soltanto i vecchi schemi non avevano più ragione di essere ed era dunque necessario correre il rischio di sostituirli con altri, di cui si doveva misurare l’efficacia alla prova dei fatti. Si aprì dunque un periodo di tentativi, ancor oggi in corso, volti ad indirizzare e controllare i nuovi problemi di una società tormentata. Tuttavia, come già era avvenuto con l’esplosione sociale della fine del secolo XVIII, anche quando sopravvenne la crisi del 1930 vi fu un esodo dalla campagna in direzione della città, e si manifestò sotto forma di una congestione urbana destinata a trasformare gli equilibri dinamici dell’America latina. Vi furono certamente molte città che non modificarono il proprio ritmo di crescita e ve ne furono addirittura altre che rimasero prigioniere della stagnazione. Nonostante questo il mondo latinoamericano ebbe modo di assistere al decollo di alcuni grandi centri, destinati a raggiungere rapidamente dimensioni metropolitane; vi furono inoltre altre città che cominciarono soltanto allora a svilupparsi, ma lo fecero in circostanze così favorevoli da assumere in breve tempo la condizione, almeno potenziale, di grandi poli urbani, manifestando chiaramente una tendenza evolutiva che le avrebbe portate a rivestire questo ruolo con relativa tempestività. In ogni caso, le une come le altre si trasformarono in centri di attrazione tanto significativi per la propria regione e per il proprio stato, da influenzarne in modo decisivo le sorti. Le regioni e gli stati gravitarono, ancor più di prima, nell’orbita delle grandi città, reali o potenziali che fossero. Ciascuna di queste rappresentò un originale focolaio di irradiazione socio-culturale, all’interno del quale la vita assumeva caratteristiche completamente inusuali e nuove.
Il fenomeno latinoamericano seguiva, a pochi anni di distanza, l’analogo processo che già si era prodotto in Europa e negli Stati Uniti, anche se era caratterizzato da numerose peculiarità socio-culturali. In alcune città si costituirono gruppi sociali non inquadrabili nella struttura tradizionale e privi di una precisa identità: le masse. Dove questo avvenne l’intero complesso della società urbana si trovò coinvolto in un processo di massificazione. La fisionomia urbanistica cambiò e sia le forme di vita che gli atteggiamenti mentali subirono l’influsso della cultura di massa. Mano a mano che la trasformazione procedeva, alcune città, la cui crescita si rivelò particolarmente intensa e rapida, videro i primi segni di un cambiamento che di lì a poco avrebbe coinvolto anche il panorama urbano; questi centri cessarono di essere pure e semplici città e si trasformarono in un cumulo di quartieri ghetto, privi di rapporti reciproci e di criteri organizzativi. L’anomia di questi sobborghi divenne, col tempo, una caratteristica dell’intero agglomerato urbano.
Questo processo ha avuto inizio, in forma sotterranea, con la crisi del 1930, non si è ancora concluso e ha anzi assunto sempre maggiore evidenza, arrivando a caratterizzare la situazione attuale dell’America latina. Altrettanto significativo è, del resto, il fatto che, per ragioni di immagine, incominciarono a massificarsi anche molte città la cui struttura sociale era priva di masse.
L’esplosione urbana
Nei primi decenni del XX secolo, sia pure con varia intensità, in quasi tutti i paesi latinoamericani si verificò un’esplosione demografica e sociale i cui effetti avrebbero ben presto incominciato a farsi sentire. Vi furono però dei ritardi nell’identificazione del fenomeno e ancor più nella distinzione tra le sue componenti demografiche vi suoi aspetti sociali. Come tutti sanno la popolazione aumentò, manifestando una spiccata tendenza a moltiplicarsi e ad incrementarsi ulteriormente. Contemporaneamente vi fu però anche un forte esodo rurale che finì per concentrare nelle città una maggiore quota di popolazione, facendo sì che l’esplosione socio demografica si trasformasse in un’esplosione urbana. Così, almeno, si presentava il problema nei decenni successivi alla crisi del 1930.
In Messico, la rivoluzione del 1910 aveva avviato un processo di sradicamento rurale che, a partire dal 1920, si convertì in un deciso esodo in direzione delle città: il fenomeno è documentato dai numerosi romanzi sulla rivoluzione, a partire da Los de abajo di Mariano Azuela, pubblicato nel 1916, e La sombra del caudillo che Martín Luis Guzmán pubblicò nel 1929. In Perù, negli anni venti, gli abitanti dei distretti andini cominciarono a scendere a Lima, percorrendo la nuova strada che la collegava a Puquio. José María Arguedas racconta in Yawar Fiesta (Festa di sangue): «Contemporaneamente, da tutte le nuove strade gli uomini delle montagne del Nord, del Sud e del Centro scesero alla capitale». La crisi del salnitro fece affluire migliaia di disoccupati alle città del Cile; quella dell’agricoltura della pampa alle città dell’Argentina; la siccità degli altipiani e la crisi del caffè contribuirono al popolamento delle città brasiliane. Pressoché ovunque accaddero fatti analoghi. L’esplosione demografica e l’abbandono delle campagne contribuirono, insieme, a dar vita ad un fenomeno complesso e importante, nel quale si mescolavano in modo diabolico problemi di qualità e di quantità, destinati ad esplodere nel quadro dello scenario urbano, dove finivano per concentrarsi tutti questi immigrati, allo stesso tempo speranzosi e disperati.
Prolifici nei loro luoghi di origine, gli immigrati continuarono ad esserlo anche nelle città in cui si stabilirono, costituendo un nucleo aggregato, perduto nella complessità della società tradizionale. Una volta terminata la fase di radicamento continuarono ad aumentare di numero. Famiglie numerose vivevano ammucchiate negli antichi quartieri poveri o nelle zone periferiche della città, raccogliendosi spesso sulla base di comuni origini, villaggio per villaggio e regione per regione. Mano a mano che il gruppo cresceva, la sua presenza risultava più evidente e contribuiva a sottolineare anche la rivoluzione demografica che stava avvenendo. Se qualche immigrato usciva dal proprio ghetto per fare la sua comparsa in un altro quartiere, richiamava immancabilmente l’attenzione della società tradizionale al punto da meritare qualche particolare nomignolo: peladito a Città del Messico, cabecita negra a Buenos Aires. Era evidente che la città ne era inondata, dato che il numero dei nuovi arrivi e dei non cittadini continuò a crescere ad un ritmo più rapido di quanto non fecero i meccanismi destinati a consentire i primi livelli di integrazione.
Gli immigrati provenienti dall’interno del paese mantenevano un vivo ricordo dei propri luoghi di origine: zone rurali depresse, villaggi e piccole città entrate in crisi. Il brasiliano Jorge Amado fornì in Gabriela, cravo e canela un brillante ritratto di queste comunità immigrate, sfuggite alle città del Sertão. Essendo contadini, molti volevano continuare a fare i contadini, tentando la fortuna con la coltivazione dei prodotti il cui prezzo era in ascesa. Altri, pur essendo contadini anche loro, si rendevano conto che la città offriva altre possibilità; quelli che avevano un mestiere o che si decisero ad impararne uno finirono così per stabilirsi definitivamente in città. Si svilupparono in questo modo Ilheus, Bahía, Recife e, soprattutto, San Paolo, dove confluirono sia le vittime della crisi del caffè, sia quelle della siccità nordestina.
Non tutti gli immigrati provenivano però dalla campagna. Molti erano partiti da piccoli centri e da cittadine di provincia che avevano accentuato la propria decadenza: da Ayacucho e Cajamarca in Perù, dai villaggi delle pianure in Colombia, da San Carlos de Salta o da Moisesville in Argentina. Si trasformò così anche l’immagine della città abbandonata, come quella di Ortiz, che Miguel Otero Silva colloca sugli altopiani del Venezuela, nel suo romanzo Casas muertas, come la Comala dove Juan Rulfo ambienta la vicenda di Pedro Páramo o, infine, come l’immaginaria Macondo che Gabriel García Márquez evoca in Cien años de soledad. La miseria e la disperazione spingevano verso le città i giovani e tutti coloro che non si rassegnavano ad essere sepolti vivi nella città morente o che ancora sentivano di avere sufficente forza morale per cercare di ricostruirsi una vita altrove. La vecchia città accelerava così la propria rovina; la maggior parte delle case venivano abbandonate e cadevano a pezzi, popolate soltanto da vecchi che trascinavano il loro lavoro e i loro giorni.
Vi furono ovviamente anche villaggi e città di dimensioni diverse, che pur non venendo direttamente coinvolti nel dinamismo dell’esplosione urbana e restando a margine della rivoluzione socio-demografica, ne furono però le vittime. La loro popolazione, trasferendosi, determinò la crescita di altri centri che sorsero dal nulla ovunque una nuova fonte di ricchezza suscitasse, con la sua comparsa, l’entusiasmo degli emigrati. Il protagonista di Casas muertas lo dice chiaramente: «Ho sentito dire dai camionisti che mentre Ortiz va in rovina e mentre Parapara va in rovina, altrove si fondano villaggi». Questi nuovi centri facevano parte dell’esplosione urbana, anche se la loro fondazione avveniva spesso a prezzo del declino di altri abitati, che dovevano arrendersi di fronte all’impotenza di coloro che li popolavano e che erano incapaci di comprendere chi tesseva le fila del loro destino.
A volte gli antichi abitati non si esaurivano completamente. Coloro che rimanevano finivano per trovare alcune deboli forme di attività con cui sostenere, almeno in parte, lo scheletro del nucleo cittadino. Un’economia minimale ne consentiva la sopravvivenza, in attesa che i tempi nuovi offrissero alla maggior parte di loro una migliore opportunità, che si presentava, talvolta, quando il tracciato di una nuova strada inseriva qualche antico centro nelle direttrici dello sviluppo. Soprattutto le cose potevano cambiare se qualcuno trovava nei sonnolenti dintorni una qualche attrattiva capace di giustificare un flusso turistico. Segno dei nuovi tempi, l’industria turistica si sviluppava nelle grandi città e si riversava sui piccoli centri dove ancora si conservava una qualche traccia di quel passato che le megalopoli avevano irrimediabilmente perduto. La prodigiosa organizzazione di questo nuovo settore economico era capace di creare la curiosità e di orientare il gusto, sapeva inventare indescrivibili bellezze in ogni luogo e poteva, all’improvviso, ridare vita ad una vecchia cittadina ormai in agonia. Un pieghevole ben costruito, con qualche foto suggestiva era di solito sufficiente a riscoprire il fascino di un luogo, della sua silenziosa piazzetta, della sua antica chiesa e delle sue vecchie case, alcune delle quali ospitavano qualche dimenticato ricordo della storia patria. Le comitive dei turisti, stranieri e non, incominciarono ad animare la fittizia esistenza di alcune città, tra cui figuravano anche quelle che a buon diritto potevano essere definite «città museo», come Taxco e Guanajuato in Messico, Guatemala Antigua in Guatemala, Villa de Leyva in Colombia e, la più famosa di tutte, Cuzco in Perù, Al contrario delle «città dormitorio», queste erano pressocché disabitate durante la notte, mentre ospitavano, durante il giorno, una brillante e frenetica attività, scandita dal viavai dei torpedoni turistici, delle automobili e delle comitive che andavano in giro scattando fotografie e comperando souvenirs. Questo modo di nascondere la stagnazione non coinvolse soltanto alcune delle città che l’emigrazione aveva vuotato, ma anche molti centri la cui passività era molto più antica.
Quanto a molte altre città, non si può invece dire che fossero in condizioni di dissimulare la propria crisi. Fondate ai tempi della colonia o nate in seguito, durante un periodo favorevole alla regione circostante, non trovarono poi alcuno stimolo che alimentasse la loro crescita. Sarebbe impossibile farne una lista completa, dato che il loro numero è di gran lunga superiore a quello delle città avviate sulla strada della crescita; sarebbe del resto anche inutile, dato che i loro nomi non hanno eco oltre i confini del paese a cui appartengono. E tuttavia possibile ricordare i nomi di alcune di loro, scelte a caso, o, meglio, in base alla loro importanza nel periodo immediatamente precedente all’esplosione dell’urbanesimo metropolitano: Popayán, San Cristóbal, Ouro Preto, Maldonado, Concepción del Uruguay, Loja, Sucre e León. Il grande sviluppo del fenomeno urbano non le toccò, così come fu estraneo alla vita di molte altre come loro, dato che i movimenti migratori e gli avvenimenti ad essi collegati non potevano prodursi che là dove vi fosse un polo di attrazione, cioè un’opportunità, effimera o duratura, di sviluppo.
Come era già accaduto per l’oro prima e per il caucciù poi, il petrolio suscitò in questi anni grandi speranze. Inseguendo il miraggio del petrolio gli emigrati venezuelani di Casas muertas andavano in cerca di un mitico «oriente», oltre il quale si trovava Ciudad Bolívar, un centro che negli anni trenta non raggiungeva i ventimila abitanti, mentre nel 1970 li aveva quadruplicati. Ancor più spettacolare era stata la crescita di Maracaibo, principale scalo petrolifero del Venezuela: poco meno di centomila abitanti negli anni trenta, duecentotrentacinquemila nel 1950, quattrocentoventimila nel 1960 e seicentosessantamila nel 1970. Abbastanza significativa fu anche la crescita di Comodoro Rivadavia, costruita nel deserto, in prossimità dei giacimenti petroliferi della Patagonia argentina e passata dai cinquemila abitanti degli anni trenta ai quasi novantamila del 1970.
Tuttavia ciò che attrasse con maggior forza l’attenzione di quanti volevano abbandonare le zone rurali o le città in crisi fu senza dubbio la metropoli, la grande città che era circondata da un’aura sempre più luminosa, grazie ai commenti un po’ vaghi di chi ne sapeva qualcosa e, ancor più, attraverso le immagini che ne diffondevano i mezzi di comunicazione di massa: i giornali, le riviste, la radio, ma, soprattutto, il cinema e la televisione, che mostravano in presa diretta il paesaggio urbano, suscitando ammirazione e stupore. La grande città era sede di un’intensa attività terziaria, era piena di luci, era dotata di ogni genere di servizi, aveva un’infinità di negozi grandi e piccoli ed era abitata da molta gente benestante che poteva sempre aver bisogno di servitù o di personale da adibire alle varie mansioni che erano proprie della vita urbana. L’attrazione diventava ancor più forte se la città era avviata verso lo sviluppo industriale. Questo era infatti considerato buon segno. Chi progettava l’installazione di fabbriche cercava, di solito, un luogo che disponesse di infrastrutture favorevoli, che fosse ben fornito di acqua e di energia, che avesse un’efficiente rete di trasporti e di comunicazioni, che potesse sviluppare un efficace apparato di commercializzazione e che, possibilmente, offrisse l’opportunità di godere dei privilegi che venivano accordati a certe zone, nelle quali si voleva favorire l’installazione di impianti industriali, offrendo agli investitori la prossimità di grandi centri finanziari, politici e amministrativi. Per tutte queste ragioni, le grandi città venivano generalmente preferite e davano quindi modo agli immigrati di trovare quello che era considerato il «lavoro urbano» per antonomasia: l’impiego nei servizi, nel commercio e nell’industria, dove chi riusciva a raggiungere un sufficiente grado di istruzione professionale poteva diventare operaio specializzato e guadagnare bene.
Il grande centro urbano offriva però anche altri vantaggi. Il lavoro vi si svolgeva insieme ad altri, con i quali era possibile condividere non solo le varie mansioni, ma anche le pause di riflessione, le reazioni e persino la lotta contro il padronato, organizzata dai sindacati che davano l’opportunità di partecipare attivamente alla vita sociale. Il lavoratore si trovava a vivere in un ambiente urbano, dinamico e pieno di seduzioni. Di giorno, le strade erano piene di gente ed erano uno spettacolo solo a vederle; di notte si illuminavano e tutti i negozi, i cinema, i teatri ed i caffè accendevano le proprie insegne. C’era sempre un posto dove andare. Alla domenica, poi, c’erano divertimenti assai popolari, che attiravano molta gente e che davano modo di sfogare le frustrazioni quotidiane. La cosa più difficile consisteva, quasi certamente, nel trovare un tetto, ma alla lunga, bene o male, ci si poteva riuscire. Una volta ottenuta una casa, forse rudimentale e provvisoria, ma, comunque, urbana, sembrava legittimo reclamare tutti i vantaggi della vita moderna, di cui già godevano tutti coloro che si erano ormai inseriti ed integrati. Anche i consumi incominciavano a sembrare a portata di mano: una radio, un frigorifero, un giorno, forse, un televisore. La grande città sembrava promettere tutto questo all’immigrato, che si avvicinava alle sue luci con l’ostinata speranza di poter vivere dentro una favola.
Il problema era arrivarci e, subito dopo, inserirsi nel misterioso tessuto sociale della città. Non era facile trovare un tetto, un lavoro ed un amico già inserito che potesse insegnare al nuovo arrivato i segreti della vita urbana. Ciononostante, poco a poco ci si riusciva, a volte nei centri storici in rovina e, in altri casi, nelle zone periferiche. Quando tutto andava per il meglio, la massa immigrata finiva per aggregarsi all’insieme delle classi popolari tradizionali, facendole aumentare di numero e, soprattutto, determinando un incremento della quota proporzionale rappresentata dai ceti inferiori, in rapporto alle altre classi.
Molti ebbero la sensazione che la città potesse esplodere da un momento all’altro, dato che l’incontenibile crescita della popolazione urbana si accompagnava anche ad un vertiginoso incremento della natalità, il cui tasso era alto in tutti i settori popolari. Alcune città effettivamente esplosero. Le tensioni sociali si fecero più intense, dato che l’enorme incremento della popolazione determinò un circolo vizioso: più la città cresceva, più suscitava aspettative e, di conseguenza, attraeva tutti quelli che erano convinti di poter trovare in essa una collocazione; per questo, il numero di quelli che si trasferivano in città continuava ad essere più alto di quanto la struttura urbana potesse sopportare. Era inevitabile che l’esplosione urbana, nata da quella socio-demografica, provocasse a sua volta lo scoppio a catena delle tensioni sociali che aveva determinato all’interno delle città.
I flussi migratori e gli alti indici di natalità concorsero all’aumento quantitativo delle città. Altre circostanze contribuirono invece a produrre una metamorfosi qualitativa che, modificando la nuova struttura sociale delle città in crescita, avrebbe influito sulle caratteristiche dell’esplosione urbana, anche se l’aspetto più evidente sarebbe rimasto, per lungo tempo, l’incremento del numero di abitanti.
Nel 1900 erano soltanto una decina le città che superavano i centomila abitanti. Nel 1940 c’erano già quattro città con più di un milione di abitanti: Buenos Aires, che raggiungeva i due milioni e mezzo, Messico, Rio de Janeiro e San Paolo; Buenos Aires figurava dunque, già allora, tra le più grandi città del mondo. In quell’anno altre cinque città superavano ormai il mezzo milione di abitanti: Lima, Rosario, L’Avana, Montevideo e Santiago del Cile, ormai prossima a varcare la soglia del milione. Undici città superavano i duecentomila abitanti: Recife, Salvador e Porto Aiegre in Brasile, Avellaneda, Cordova e La Piata in Argentina, Guadalajara in Messico, La Paz in Bolivia, Bogotá in Colombia, Caracas in Venezuale e Valparaíso in Cile.
Nel corso del trentennio seguente la situazione è precipitata. Ben otto capitali non solo hanno superato il milione, ma, estendendosi su vaste aree metropolitane, hanno raggiunto cifre da capogiro, paragonabili a quelle città più popolose del mondo; Buenos Aires e Messico sono persino arrivate alla cifra record di oltre otto milioni e mezzo di abitanti. Altre quattro capitali e precisamente Santiago, Lima, Bogotá e Caracas, hanno conosciuto una crescita vertiginosa. Santiago, che già nel 1940 sfiorava il milione, ha raggiunto, in trent’anni, i due milioni e seicentomila; nello stesso arco di tempo Lima è passata da seicentomila a due milioni e novecentomila, Bogotá da trecentosessantamila a due milioni e cinquecentoquarantamila, Caracas da duecentocinquantamila a due milioni e centodiciottomila. La crescita è stata talmente impetuosa che, per tutti questi casi, potrebbe valere un’osservazione che Antonio Gómez Restrepo fece a proposito di Bogotá, nella fase iniziale di questo processo: «Noi abitanti di Bogotá stiamo diventando una colonia sempre più piccola all’interno della nostra terra natale; tuttavia, questa stessa sovrappopolazione, se da una parte ha contribuito alla fondazione di nuovi quartieri residenziali e di altre zone assai dignitose, destinate agli impiegati e ai piccoli funzionari, dall’altra parte ha riversato sui sobborghi della periferia una massa uniforme e confusa, che ha trovato alloggio in un agglomerato di misere baracche, prive di ogni servizio igienico». Le migrazioni finivano per emarginare la società tradizionale delle capitali, accerchiandola da ogni parte e permeandola lentamente. Questo fenomeno risultò meno evidente nelle due grandi capitali che nel corso di questo periodo si mantennero sotto i due milioni di abitanti: Montevideo e L’Avana.
Nel frattempo anche altre città, pur non essendo capitali, avevano avuto una notevole crescita. Rio de Janeiro, che nel 1960 ha smesso di essere la capitale del Brasile, già nel 1940 aveva superato il milione e ottocentomila abitanti, per raggiungere nel 1970 i sei milioni e settecentomila, nel complesso del comprensorio urbano; la sua crescita è stata meno intensa di quella di San Paolo, il cui prodigioso sviluppo evidenziò tutti gli elementi che contribuivano al processo di urbanizzazione dell’America latina. Partendo da una popolazione di un milione e trecentoventiseimila abitanti, nel 1940, la città industriale si estendeva su un’ampia area suburbana e, superando i propri argini, raggiungeva, nel 1970, insieme a tutta la zona metropolitana, una popolazione di sette milioni e settecentocinquantamila abitanti. Queste non furono le uniche città brasiliane a sperimentare una grande crescita: tra il 1940 e il 1970 Recife passò da duecentocinquantamila ad un milione e duecentomila abitanti, Porto Alegre da trecentocinquantamila a circa un milione e Salvador de Bahía da trecentocinquantamila ad un milione.
Anche due città colombiane della valle del Cauca, Cali e Medellín, entrambe nate come centri commerciali ed industriali nel cuore di zone molto ricche, la popolazione delle quali ha scelto però la strada dell’urbanizzazione, hanno superato nel 1970 il milione di abitanti: tra il 1938 e il 1968 oltre quattrocentomila contadini si sono trasferiti a Medellín, stabilendosi nei «quartieri abusivi» che circondano la città. Due grandi centri messicani sono arrivati nel 1970 a sfiorare i due milioni di abitanti: Guadalajara, antica capitale dello stato di Jalisco, da sempre la seconda città del paese, passo dai duecentoventinovemila abitanti del 1940 al milione e mezzo del 1970, superando addirittura questa cifra con i suoi sobborghi; Monterrey, nuova metropoli industriale cresciuta alle falde del Cerro de la Silla, che aveva appena centocinquantamila abitanti nel 1940, ha toccato nel 1970 il milione e duecentomila.
Non meno stupefacente, su scala nazionale e regionale, fu la crescita dei centri che si sono attestati attorno al mezzo milione di abitanti, come Guayaquil in Equador e Barranquilla in Colombia; a queste vanno aggiunte quelle che oscillano intorno a questa cifra, come Maracaibo in Venezuela, Puebla in Messico e Rosario e Cordova in Argentina. In tutti questi casi il polo urbano rappresentò un’alternativa alla crisi delle aree rurali, provocando, in varia misura a seconda dei casi, intense migrazioni, grandi concentramenti di popolazione e grande incremento delle città. Decine e decine di centri la cui popolazione oscillava tra i venti ed i quarantamila abitanti nel corso degli anni trenta, hanno triplicato, quadruplicato o aumentato in misura ancora maggiore la propria popolazione nel giro di quaranta anni, riproducendo su piccola scala le stesse dinamiche sociali che avevano caratterizzato l’evoluzione delle grandi città. Anche centri relativamente piccoli, abitati da circa duecentomila persone, avvertirono la massificazione e videro le proprie infrastrutture entrare in crisi di fronte all’eccessivo aumento della popolazione. Si potrebbe quasi dire che persino cittadine ancora più piccole abbiano avvertito gli effetti della crescita incontrollabile che le ha investite durante questo periodo.
L’esplosione urbana ha modificato l’aspetto delle città. Coloro che avevano goduto, in precedenza, dei vantaggi di una vita urbana non solo placida e tranquilla, ma soprattutto alimentata da infrastrutture sufficienti a soddisfare le necessità degli abitanti, hanno finito per lamentarsi della nuova situazione. Gli invasori sfiguravano il tessuto urbano, trasformandolo in un mostro sociale che, proprio in quegli anni, andava assumendo le fattezze, ancor più inumane, dello sviluppo tecnologico. Qualcuno è arrivato a sostenere che le città erano ormai «invisibili». Il peruviano Sebastián Salazar Bondy, testimone di questo processo, ha riunito le proprie osservazioni sulla città in un libro intitolato, non a caso, Lima, la horrible. Parlando dell’esplosione urbana e della massificazione della capitale peruviana, scrisse nel 1962: «Parecchio tempo fa Lima ha smesso di essere […] la quieta città regolata dagli orari della messa e dell’angelus, la cui osservanza tanto impressionò il francese Radiguet. E ormai diventata un grande agglomerato urbano nel quale due milioni di persone si spingono per sopravvivere, in mezzo al traffico e alla confusione provocata dai clacson, dalle radio libere, dalla calca e da tutte le altre forme della follia contemporanea. Due milioni di esseri che si scostano rudemente l’un l’altro, nel tentativo di farsi strada […] in mezzo a uomini che il sottosviluppo ha spinto ad ammassarsi ed ha trasformato in bestie. Il caos civile, prodotto dalla famelica, cancrenosa e frenetica competizione urbana, è diventato, grazie al vortice della vita capitolina, un vero e proprio ideale: il paese intero, come impazzito, anela confondervisi, alimentando con la propria presenza l’olocausto dello spirito umano. L’imbottigliamento dei veicoli nelle vie del centro e lungo i viali, la spietata concorrenza tra il venditore ambulante e i mendicanti, le estenuanti code in attesa degli inefficienti mezzi di trasporto, la crisi degli alloggi, gli allagamenti dovuti allo scoppio delle tubature, i disservizi della rete telefonica, le crescenti nevrosi sono come tutto il resto frutto dell’improvvisazione e della dolosa incapacità. Queste due caratteristiche hanno la proprietà di sedurre in modo folgorante, come gli occhi di un serpente, il candore provinciale, che viene poi liquidato a colpi di turpe e farraginosa assurdità. La conventuale pace di Lima che i viaggiatori del XIX e dei primi anni del XX secolo celebrarono come condizione favorevole alla meditazione, è stata ormai cancellata dall’esplosione demografica, anche se la trasformazione è stata soltanto quantitativa e superficiale, poiché l’espandersi della città ha nascosto, ma non soppresso, la vocazione melanconica degli abitanti che guardano all’Arcadia della colonia con crescente nostalgia, vedendola sempre più come un mondo archetipico e desiderabile».
Questi furono gli effetti dell’espansione socio-demografica. Ciononostante nessuno intende rinunciare alla città. Viverci è diventato un diritto, come ha acutamente sostenuto Henri Lefebvre: tale diritto consiste nel godere dei vantaggi della civiltà, del benessere e del consumo, nonché di quel tanto di eccitante che c’è in un certo genere di alienazione. Le città crescevano, i servizi pubblici diventavano sempre più carenti, le distanze reali si allungavano, l’aria si faceva sempre più inquinata ed i rumori sempre più assordanti. Tuttavia nessuno, o quasi, ha voluto o vuole rinunciare alla città. Luoghi di concentrazione delle energie, le città hanno esercitato un’influenza sempre maggiore sul destino delle regioni e dei paesi. All’interno delle città le masse, formazioni sociali tipiche dell’esplosione socio-demografica, sono divenute sempre più determinanti. L’esplosione urbana ha certamente avviato una rivoluzione, latente e percepibile al tempo stesso. Potrebbe forse essere questa la tipica forma di manifestazione di un processo rivoluzionario cieco, che ha le sue radici nella dinamica sociale. La città, fedele alla propria vocazione, ha però cominciato a sottoporre questa rivoluzione cieca ad una decisa manipolazione che ha finito per aprirle gli occhi. Poco a poco, l’evolversi della situazione incominciò ad essere tentato dal pomo agrodolce dell’ideologia.
Una società divisa
Nelle città in cui si concentrarono gli immigrati la trasformazione fu profonda. Ben presto risultò chiaro che la presenza di un maggior numero di persone non implicava soltanto una evoluzione quantitativa, ma anche un cambiamento qualitativo, che consisteva nel sostituire ad una società aggregata ed omogenea un’altra, spaccata in due, all’interno della quale si muovevano mondi contrapposti. Nel futuro, la società avrebbe contenuto, per un periodo imprecisato, due società coesistenti e contigue, poste però una di fronte all’altra fin dall’inizio e costrette quindi a sperimentare, in seguito, un permanente confronto e una compenetrazione lenta, laboriosa, conflittuale e, almeno provvisoriamente, incompleta.
Da un lato c’era la società tradizionale, composta da varie classi e da gruppi articolati, le cui tensioni e le cui forme di vita procedevano entro i confini di un ben definito sistema di norme: si trattava, insomma, di una società legale. Dall’altra parte c’era invece il gruppo degli immigrati, formato da persone isolate che si concentravano in città e che soltanto lì stabilivano tra loro un primo vincolo, legato all’unica circostanza di essere appena arrivate. Questo gruppo mancava di ogni legame e, di conseguenza, non aveva un sistema di norme: si trattava di una società anomica, precariamente collocata accanto all’altra, in posizione marginale.
Prima di subire il complesso processo sociale che lo avrebbe trasformato nel nucleo fondamentale della massa urbana, il gruppo immigrato, così come appariva nelle città latinoamericane a partire dagli anni della prima guerra mondiale, si presentava come un insieme eterogeneo, composto da famiglie e da individui, da uomini e da donne, soli e alla ventura, legati cioè ad una specie di destino dal quale sembrava dipendere il nuovo corso delle loro vite. Provenivano sia da zone rurali, in genere limitrofe ma a volte remote, che da piccoli centri, lasciati alle spalle nella convinzione che non offrissero alcuna possibilità; tutti arrivavano così ai margini della città che costituiva la loro meta. José María Arguedas racconta che i primi che arrivarono a Lima trovarono lavoro come domestici, in casa dei ricchi del loro paese, che, a loro volta, si erano trasferiti nella capitale. Integratisi nella città costoro offrivano la prima accoglienza a quelli che continuavano a arrivare in ondate successive. In Yawar Fiesta si dice: «E senza che nessuno la organizzasse, l’entrata dei puquios in città si è svolta, come del resto quella di tutti i montanari, con grande ordine: i meticci hanno aiutato i meticci […] i mezzi signori hanno aiutato i mezzi signori […] mettendoli in contatto con la società. Gli studenti si sono aiutati anch’essi nello stesso modo, a seconda della ricchezza dei loro genitori; i poveri hanno cercato camerette nei pressi dell’università e della Scuola d’ingegneria, si sono sistemati nelle camere per la servitù, nelle mansarde, nei sottoscala o nelle case signorili antiche, che, siccome erano sul punto di cadere, erano diventate case d’affitto per gli operai e per la povera gente ».
In alcune città c’erano luoghi stabili dove si concentravano gli immigrati, come racconta in Gabriela, cravo e canela il brasiliano Jorge Amado, descrivendo la vita di Ilheus. Per arrivarci bisognava uscire dal centro, lasciare dietro di sé il mercato, dove le bancarelle venivano smontate e le merci rimesse in ordine, e attraversare gli isolati della ferrovia. Jorge Amado continua: «Prima dell’inizio del Morro della Conquista, c’era il mercato degli schiavi. Qualcuno, molto tempo fa, aveva chiamato così il luogo dove, prima di trovare lavoro, si accampavano quelli dell’altopiano. Il nome era rimasto e ormai nessuno chiamava quel luogo in un altro modo. Lì si concentravano gli uomini fuggiti dalla siccità del Sertao, i più poveri tra quanti avevano abbandonato le loro terre e le loro cose per rispondere al richiamo del cacao». Altrove l’arrivo era ancor più formale. Nelle città argentine gli immigrati si muovevano in treno e l’arrivo avveniva nelle stazioni ferroviarie, dove da ogni convoglio scendevano decine di famiglie dall’aspetto stravagante e dal pittoresco bagaglio, cercando chi speravano che fosse venuto ad attenderle, nella maggior parte dei casi un altro immigrato più antico, che disponeva di una qualche sistemazione. Altrove erano gli autobus provenienti dalla campagna a svolgere questo ruolo. Dal capolinea incominciava allora un vero e proprio pellegrinaggio, diretto talvolta verso i quartieri più vecchi e degradati della città, come quello di Tepito a Messico, e talaltra verso le periferie spopolate, la terra di nessuno dove era possibile sistemarsi, alla sola condizione di rinunciare a tutti i servizi, come accadeva sulle colline che circondano Caracas e Lima, nelle pianure circostanti a Buenos Aires, nelle zone sporche di Monterrey, o sui terreni nitrici del lago prosciugato di Texcoco, a Messico. Una rudimentale baracca, tirata su nel giro di una notte, rendeva più stabile la situazione dell’immigrato che, a partire dal giorno seguente, poteva cominciare ad avvicinarsi con fatica alla struttura in cui regnava la società normalizzata. Questo avvicinamento era destinato a concludersi con l’integrazione, dopo un periodo più o meno lungo, che poteva talvolta protrarsi per più di una generazione.
A rigor di termini, il gruppo immigrato non era ancora una vera società e, dunque, non è lecito contrapporre un sistema all’altro. Ciò che si opponeva alla struttura della società normalizzata, desiderando soltanto di entrare a farne parte, era in realtà il corpo indifeso di un agglomerato umano privo di risorse, di vincoli a cui sottostare, di norme che lo rendessero omogeneo, di ragioni valide per cercare di arginare la piena degli istinti o, più semplicemente, la disperata spinta fornita dal bisogno. Era un formicaio di esseri umani in lotta per procurarsi il cibo e un tetto, in una parola, per sopravvivere, ma questi stessi gruppi lottavano anche per cercare di vivere nel vero senso della parola, nonostante il prezzo di questa affermazione fosse alto. Sia la lotta per la sopravvivenza che quella per la vita rendevano necessario mettere radici in qualche punto della struttura della società normalizzata, quasi sempre senza autorizzazione, in violazione di qualche norma o dei diritti di qualcuno che già apparteneva alla società legale e che guardava con spavento alla presenza degli intrusi.
La società ufficiale poteva infatti accettare di offrire al nuovo venuto un tetto ed un lavoro, poteva persino soccorrerlo caritativamente e provvedere alla salute e all’educazione dei suoi figli, ma molto tempo avrebbe dovuto passare, senza che nessuno potesse sapere con precisione quanto, prima che gli immigrati scoprissero e accettassero che tutto ciò che costituiva la struttura della società legale apparteneva anche a loro. Nel frattempo le attività degli immigrati si erano basate sulla certezza che tutto fosse di proprietà degli altri: la fontana, la panchina del viale, il letto del dormitorio e tutto il resto apparteneva infatti a qualcun’altro e su tutto c’era sempre chi poteva vantare un diritto più forte.
La società legale immaginò invece che la massa immigrata che stava filtrando attraverso le sue maglie fosse un gruppo omogeneo. Ai suoi occhi essa costituiva l’«altra società», quella della cui esistenza si avevano notizie per sentito dire, dato che si cercava di evitare il contatto. Quando qualcuno degli emarginati faceva la sua comparsa oltre i confini del proprio ghetto, la società legale lo guardava con curiosità, lo riconosceva come diverso, proprio in base alla differenza che lo separava dalla classe popolare integrata, e lo lasciava passare. Le cose andarono diversamente quando i membri dell’«altra società» fecero la loro comparsa come gruppo. A quel punto gli immigrati erano sicuramente riusciti a rafforzare alcuni vincoli, avevano cominciato a sentirsi più omogenei e a rendersi conto di poter opporre alla struttura qualcosa di più che non la semplice aspettativa individuale: la forza di un gruppo, moltiplicata dal fatto di poter essere esercitata irrazionalmente e fuori dalle norme. Era questa la forza tipica di chi si sente estraneo al mondo che combatte e che, per questo, non conosce freni alla propria azione. Fu così possibile vedere i nuovi venuti aggirarsi a gruppi per le strade di Messico, di Bogotá e di Buenos Aires, prendendo o distruggendo con la forza tutto ciò che era degli «altri» e che faceva parte del mondo legale, rifiutando le regole della convivenza urbana e infrangendo le norme di un sistema che era condiviso da tutti gli altri.
Naturalmente, l’effetto provocato dalla comparsa di questo mondo anomico sulla società legale fu intenso, proprio perché l’obiettivo dell’attacco del nuovo gruppo era costituito dal sistema delle norme vigenti, prima ignorate e poi sfidate. La società legale vide nei nuovi venuti non solo degli avventizi, ma anche dei nemici; mano a mano che la resistenza degli altri si faceva più attiva, il mondo ufficiale non solo chiuse agli immigrati le porte dell’accesso e dell’integrazione, ma smise anche di esercitare le proprie capacità di comprensione sull’insolito fenomeno sociale che stava avvenendo davanti ai suoi occhi. A questo atteggiamento e a questa decisione contribuì forse l’incremento quantitativo della società anomica e l’aria sovversiva che questa assumeva, sia per numero che per aggressività. Intenso e decisivo fu anche l’effetto esercitato sul mondo non regolato dal confronto con la società legale. Gli immigrati ne avevano infatti ricavato, contemporaneamente, una preda e un modello. Il confronto si risolse in una lenta ma dura repressione che la società ufficiale esercitò sull’altra per obbligarla a sottostare ad alcune regole fondamentali, in modo da poterle poi offrire i meccanismi di un’integrazione che, dopo un certo periodo, diventava imposta ed inevitabile. A partire da questa situazione le due società finirono per collaborare, senza saperlo e senza darlo a vedere, per realizzare un processo di reciproca integrazione le cui alternative si sono manifestate, e ancor oggi continuano a manifestarsi, nel quotidiano e nella vita sociale e politica delle città latinoamericane che hanno conosciuto un fenomeno migratorio di portata più o meno vasta.
L’integrazione reciproca incominciò nel momento in cui gli immigrati riuscirono a procurarsi un tetto e, soprattutto, un lavoro. Questo creò infatti bisogni e occasioni che resero necessario il contatto o il rapporto. Era necessario imparare a prendere un autobus, a conoscerele strade, a raggiungere lo stadio, a disporre ed utilizzare un documento di identità, a metter piede, una volta o l’altra, in un posto di polizia. Ciò che mise in marcia il processo di integrazione fu però il progressivo inserimento dei nuovi venuti nel tessuto sociale della società legale. Si trattò indubbiamente di una tappa importante, grazie alla quale i gruppi immigrati entrarono in contatto tra loro, rafforzarono i legami che univano quelli dello stesso paese e della stessa regione, acquisirono un primo abbozzo di solidarietà, dal quale ricavarono forza e fiducia nel non facile assedio della struttura. Tuttavia la fase veramente decisiva fu quella successiva, durante la quale avvenne il contatto con coloro che facevano parte della società tradizionale e che potevano iniziare ai suoi segreti i nuovi venuti. Ovviamente, i settori popolari della società legale furono i primi a cedere alla pressione esercitata dagli immigrati e ad aprirsi alla comunicazione, anche se non mancarono gruppi, appartenenti alla piccola classe media, povera quanto e forse più di quella popolare e, in un certo senso, altrettanto emarginata, che si mostrarono benevoli e, in definitiva, solidali con i settori immigrati.
Come è ovvio, questa disponibilità non fu generale. Vi furono rancori, timori, rivalità e soprattutto quel sentimento di malcelata superiorità che sempre i cittadini hanno provato nel confronto con i campagnoli. Proprio qui fecero però la loro comparsa gli interstizi che consentirono al nuovo gruppo di inserirsi, di mettere radici e incominciare ad imparentarsi ed a creare reti di solidarietà con individui già integrati. Nella maggior parte dei casi la crisi favorì l’avvicinamento. Se gli immigrati erano senza lavoro, anche nelle classi popolari tradizionali della città e in alcuni settori della piccola classe media c’era un grado di disoccupazione. Se la miseria aumentava bisognava lasciare la stanza e cercare rifugio in una baracca di periferia, dove l’integrato non poteva fare a meno di venire a contatto con il nuovo venuto, con il quale si incontrava anche nelle code di coloro che cercavano lavoro, nei cantieri dove l’uno o l’altro trovavano occupazione saltuaria e alle mense che il governo e gli istituti di carità offrivano ai più miserabili. C’erano poi le donne, meno prevenute e dunque più disponibili ad un contatto amichevole, mediante il quale si andavano creando vincoli ai quali gli uomini finivano successivamente per rassegnarsi.
Dalla fusione tra i gruppi immigrati, i settori popolari o la piccola classe media della società tradizionale nacquero, a partire dagli anni della prima guerra mondiale, le masse delle città latinoamericane. Il nome usato per designarle, preferito di norma a quello di moltitudini, andò assumendo un significato più ristretto e preciso. Massa era l’eterogeneo insieme che viveva di espedienti ai margini della società legale, alla quale si contrapponeva per la propria complessiva anomia. Era un fenomeno urbano, anche se non sempre e non del tutto urbanizzato, dato che era composto da cittadini di antica data e da gente di campagna che soltanto allora incominciava ad avvicinarsi alla convivenza propria delle città. Ben presto però la fisionomia ed i comportamenti di questa massa rivelarono caratteristiche urbane ben precise, costituendo una società aggregata ed omogenea, in grado di opporsi, più o meno ovunque, all’altra, altrettanto compatta e omogenea, che già da tempo esisteva. Il panorama sociale complessivo della città incominciò allora a presentarsi articolato in due blocchi contrapposti, riproponendo una divisione analoga a quella della società barocca.
La massa urbana non era soltanto anomica, ma anche fondamentalmente instabile. In principio, ne facevano parte sia i settori immigrati che i settori già radicati che, in una certa misura, si andavano sradicando, scorporandosi dalla società tradizionale di cui fino a poco prima avevano accettato le norme. Questo determinava un aumento dell’anomia, che, forse, era incrementata ancor più dalla successiva comparsa di nuove acquisizioni sociali da parte dei vari settori che componevano la massa. Ogni nuovo gradino della gerarchia sociale comportava un maggiore grado di integrazione, faceva comparire nuove aspettative e rivendicazioni nei confronti della struttura sociale tradizionale e metteva in campo ulteriori strategie in grado di affrontare un mostro di cui le nuove generazioni avevano un po’ meno paura di quanta ne avessero avuta i loro genitori. Il meccanismo si fece perverso, poiché l’integrazione e l’anomia crescevano insieme. Ciononostante la massa finì per raggiungere una certa omogeneità di fondo al suo interno e, pian piano, anche una certa chiarezza riguardo ai propri obiettivi. Risultò chiaro che la massa non intendeva distruggere la struttura che aveva aggredito, dato che, anzi, aveva per essa un assoluto rispetto, condividendo persino i principi fondamentali che la sostenevano; il progetto non consisteva in una radicale trasformazione, come auspicavano alcuni gruppi atiticonformisti della società tradizionale, ma, semplicemente, in una totale ed incondizionata accettazione, volta a correggere soltanto il minimo necessario per consentire ai nuovi venuti di accedervi; l’obiettivo finale della massa era che ciascuno dei suoi membri potesse entrare a far parte della società tradizionale per goderne i benefici e quindi fare carriera al suo interno. Queste aspirazioni erano esplicite, ma, siccome non potevano essere immediatamente soddisfatte e siccome chi le realizzava si separava rapidamente dal resto della massa, questa si fece sempre più aggressiva nei confronti della struttura e della società che la controllava, lasciando da parte, poco a poco, l’originaria adesione consensuale. L’aumento del grado di ostilità da parte della massa non faceva che rafforzare l’atteggiamento speculare di una società tradizionale posta sempre più sulla difensiva. Il meccanismo continuava ad essere diabolicamente perverso, nonostante le molte iniziative politiche messe in campo per spezzare questo circolo vizioso.
La formazione delle masse urbane, che nelle città latinoamericane accompagnò il processo di industrializzazione, acquisì tratti peculiari in rapporto alla nuova situazione occupazionale. Per molti, e in particolar modo per le donne, la speranza di inserirsi e di progredire all’interno della struttura venne di solito associata alla possibilità di andare a servizio presso qualcuno che ne facesse parte. Era questa, nel romanzo di Jorge Amado, la speranza di Gabriela: «Vado a stabilirmi in città, non voglio più vivere in campagna. Voglio fare la cuoca, la lavandaia e la serva in casa d’altri. » Tutto questo si aggiungeva ad un allegro ricordo: «Entrata come serva in casa di gente ricca, ho potuto imparare a cucinare». In questo modo era facile ottenere vitto e alloggio, un salario, ma, soprattutto, un tutore, qualcuno cioè da cui imparare come funzionava la struttura e da cui farsi aiutare per ampliare quella relazione stabilita con il nuovo ambiente. A partire da questo rapporto una vasta parentela e una fila interminabile di amici e di paesani potevano trarre beneficio della breccia che si era aperta nella struttura.
Questa prospettiva risultava però meno attraente per gli uomini, specie se ambiziosi. Molti si sentivano attratti dagli alti salari offerti dall’industria al punto da non considerare se effettivamente disponevano delle qualità necessarie per ricoprire tali incarichi. Le nuove mansioni richiedevano infatti la capacità e la volontà di sottoporsi ad un tirocinio. Coloro che erano in grado di soddisfare queste condizioni finirono per entrare nella nuova aristocrazia dei settori popolari: il proletariato industriale. Oltre a costoro c’era però chi non aveva sufficienti capacità per definire e perseguire un proprio obiettivo. Molti si accontentarono di trovare un lavoro non qualificato, nelle imprese pubbliche, nei servizi municipali che crescevano insieme alla popolazione urbana o nell’edilizia, che durante questo periodo costituì una vera e propria ossessione per le autorità di governo, tenute sotto assedio dalla costante richiesta di lavoro avanzata da masse urbane sempre più grandi e nuove. Alcuni si dedicarono con maggiore o minore successo al piccolo commercio ambulante, attività che può essere intrapresa quasi senza disporre di capitali. Altri impararono un mestiere o una professione artigianale e si guadagnarono con essa una paga aggiornata. Altri ancora accettarono il proprio destino di emarginati e caddero in abiette forme di abbandono, spesso confinanti con l’illegalità, come il contrabbando, la prostituzione, il furto e il gioco. Tutte queste attività ebbero grande impulso nelle città dove la crescita della popolazione rese più facile l’anonimato.
Una gamma così ampia di possibilità non offriva però mai molta sicurezza ai membri di questa nuova società che si stava formando nelle città, dato che sia gli emigranti che i settori popolari integrati che insieme ad essi si lanciarono nella disperata avventura della carriera sociale non godevano mai della necessaria stabilità. Il gioco continuava ad essere diabolicamente perverso e, mentre da un lato crescevano le possibilità offerte dalla città, dall’altro si faceva ancora più forte la domanda di opportunità alimentata dagli integrati, dagli immigrati della prima ora e da quelli che solo successivamente vi si erano aggiunti a ondate ininterrotte. La città continuava a crescere e la competizione per entrarvi si faceva sempre più spietata; forse non più che all’interno della società legale, ma comunque in modo più evidente, dato che nel mondo dei nuovi venuti non c’erano sistemi di norme né convenzioni formali. Questo spirito competitivo alimentò in coloro che cercavano di «farsi largo» un vero e proprio «si salvi chi può» e cospirò contro l’omogeneità della massa, dato che ogni giorno i «trionfatori», che riuscivano a trovare una posizione stabile all’interno della struttura, si separavano dal proprio gruppo originario.
Risultò così chiaro che la massa non era una classe, ma un semenzaio dal quale sarebbero usciti soltanto quelli che avrebbero saputo conquistare una carriera sociale, mentre tutti gli altri sarebbero rimasti al punto di partenza, senza ottenere nient’altro se non la possibilità di consolidare la propria appartenenza alle classi popolari, sia pure a prezzo di un piccolo regresso nella scala sociale.
Per queste ragioni una caratteristica della massa fu la grande instabilità. I suoi membri non sentirono mai di appartenere ad essa, dato che essa non esisteva, a ben vedere, che nella mente di coloro che la temevano. Quelli che la formavano invece non vollero mai creare un’«altra» società, ma soltanto integrarsi a quella che già c’era e nella quale si erano introdotti e inseriti a fatica, ammirandola ed invidiandola, poiché nonostante tutto seguitava a rifiutarli e li costringeva ad attaccarla per difesa. E questo un dramma di amore e odio che ogni individuo ben conosce, ma che soltanto di rado arriva a manifestarsi apertamente nella coscienza sociale.
Se il progetto personale di ciascuno dei suoi membri tendeva a disarticolare la massa più che a cementarla, il senso di frustrazione di coloro che non riuscivano a uscirne finì, invece, per darle una certa omogeneità. La società legale, troppo pacata, timorosa e inibita per intendere la portata del fenomeno, finì, proprio per questo, per vedere nella massa una società nemica; la osservò dal balcone o dall’interno di un’automobile, nelle vie del centro nei giorni di festa, e gli parve un’idra dalle mille teste; la vide allo stadio infervorata ai limiti dell’irrazionalità e, in alcuni casi, la vide inserita nel proprio ambiente di tuguri e baraccati, priva di consistenza materiale, astratta e collettiva e, contemporaneamente, formata da uno spaventoso brulicare di esseri umani individuali e concreti, soffocati dalla miseria e dalla disperazione, impotenti di fronte al mostro che li manteneva in posizione subalterna senza rivelare loro i propri incomprensibili disegni.
Se talvolta arrivavano ad esprimere i propri sentimenti, ciò avveniva quando agivano come massa, cioè muovendosi in tanti e tutti insieme, quelli appena arrivati a fianco di quelli ormai integrati, che ispiravano la protesta mobilitando tutti gli altri. Questo accadde poche volta e in poche città, originando fenomeni inconsueti c rivelando all’improvviso la portata delle trasformazioni determinate dalla comparsa di una massa sociale anomica all’interno di una città controllata fino a poco prima da una società legale. Orientandosi verso la violenza, la massa rivelava la forza di cui era capace quando riusciva a mobilitarsi, mostrando, incidentalmente, le debolezze e le crepe che percorrevano la struttura della società tradizionale, come accadde, per esempio, il 17 ottobre 1945 a Buenos Aires e il 9 aprile del 1948 a Bogotá. Entrambe le città avevano subito una rapida crescita demografica legata alle migrazioni interne; entrambe avevano visto nascere attorno alla città tradizionale una cintura di quartieri popolari ed entrambe si trovarono di fronte alla contrapposizione che opponeva la società tradizionale e la nuova massa, all’interno della quale i gruppi immigrati si mescolavano ai settori popolari e alla piccola classe media, cioè alle vittime della crisi e della recessione economica.
La massa che si concentrò il 17 ottobre sulla plaza de Mayo di Buenos Aires, chiedendo la liberazione del colonnello Juan Perón proveniva in gran parte dai distretti operai delle zone meridionali della capitale: Avellaneda, importante polo industriale, Berisso, sede dei macelli e dell’industria conserviera, Lanús, Llavallol e altri minori, tutti popolati da gente di ceto sociale molto basso e da lavoratori dell’industria giunti di recente. Tuttavia faceva parte di quella folla anche gente proveniente dai quartieri popolari della città stessa e appartenente alla piccola classe media. L’insieme aveva forse un colorito leggermente più scuro di quello che si era soliti vedere, fino a poco tempo prima, per le strade del centro della capitale e senza dubbio assai più scuro di quello predominante all’interno della società tradizionale. Quest’ultima identificò la massa proprio in base al colore della pelle, chiamando chi rie faceva parte col nomignolo di cabecitas negras, mentre il capopopolo (Perón) preferì chiamare descamisados i propri sostenitori, alludendo alla loro condizione di emarginati. La struttura, controllata in quel periodo dai sostenitori di Perón, offrì il proprio appoggio alla concentrazione della massa, sostenendo lo sciopero con l’azione dell’esercito, della polizia e della CGT (confederazione generale del lavoro), della quale facevano parte sia gli operai integrati al tessuto urbano che quelli arrivati da poco. La massa si fece violenta e minacciosa al punto che la società tradizionale ebbe paura del saccheggio; la massa si astenne però da ogni manifestazione di violenza, fatta eccezione per il gesto simbolico, estremamente significativo agli occhi della società tradizionale, di lavarsi i piedi, affaticati per la marcia, nelle fontane della plaza de Mayo. La massa non sapeva esattamente cosa voleva, ma la frattura prodottasi nella struttura della società tradizionale permise ad alcuni dei suoi membri di offrire agli altri una sorta di programma, che si riassumeva nella delega di tutto il potere nelle mani dell’uomo in cui riponevano tutte le loro speranze.
A Bogotá la massa che attraversò la città in disperata risposta all’assassinio del proprio leader Jorge Eliécer Gaitán, sorprese la società tradizionale sia per il numero che per l’atteggiamento dei dimostranti. A differenza degli scioperanti del 17 ottobre di Buenos Aires, questa moltitudine aveva ormai poco da sperare, dato che l’unico uomo che godeva della sua fiducia era morto. La protesta non voleva difenderlo, ma vendicarlo e l’esplosione di violenza fu per questo assai maggiore. All’interno della società legale di Bogotá era noto a tutti a quali categorie appartenessero membri della classe privilegiata tradizionale, composta, per usare i termini del secolo XIX, dagli «uomini di livrea» e da quelli di «mantello». Spesso questi due gruppi si erano scontrati e i loro conflitti avevano portato alla guerra civile, intesa però secondo i classici canoni delle società patrizie e borghesi. Nel 1948 la società tradizionale scoprì, invece, che la massa che riempiva le strade della città nel giorno del cosiddetto bogotazo non era composta soltanto da «uomini di mantello» (cioè notabili di campagna), dato che questi ultimi erano integrati e facevano parte, sia pure marginalmente, della società legale. Si trattava stavolta di una folla di gente diversa, in gran parte arrivata da poco, proveniente dalle aree rurali e ancora del tutto estranea al mondo della città. Il suo peso moltiplicò la forza dei tradizionali settori subalterni ed emarginati, dando alla nuova massa un comportamento sociale peculiare, caratterizzato da un’indiscriminata aggressione nei confronti di tutto ciò che era città e che tutti i manifestanti, inseriti o immigrati che fossero, consideravano ora di comune accordo come qualcosa di cui non erano parte e che apparteneva all’«altra società».
Quando J. A. Osorio Lizarazo volle, nel suo libro Gaitán, descrivere le forze che componevano la folla del bogotazo, non si soffermò sulla presenza del gruppo immigrato, anche se questo faceva sicuramente parte di molti degli strati sociali enumerati dall’autore; egli descrisse infatti l’insieme delle componenti minoritarie e prive di peso sociale che finirono per aggregarsi alla massa di coloro che ancora non contavano nulla, radicalizzandone gli atteggiamenti e avanzando demagogiche richieste. L’autore scrive: «Da tutte le parti arrivava gente spinta dalla necessità». Poco dopo aggiunge: «Le anonime cellule che compongono il popolo sembravano essere trascinate da una voragine. Provenivano da ogni parte. Erano uomini della classe media, condannati a vivere nelle più oscure ristrettezze, martirizzati dal contrasto tra la finzione della loro vita, la fame silenziosa e la necessità di salvare le apparenze mantenendo una miserabile forma di decoro sociale che finiva per indebolire la volontà e corrompere l’anima per far fronte alla crudeltà della lotta. Erano operai intraprendenti e loquaci, in cerca di una momentanea compensazione della propria miseria. Erano oscuri lavoratori dalle passioni tenebrose, abbrutiti dall’alcool che dava loro il coraggio di soprassedere alla morale per cercare una qualche forma di rendita burocratica. Erano i malavitosi che avevano intrapreso la strada del crimine perché non avevano avuto un’istruzione sufficiente a governare i loro istinti e perché fin dall’infanzia avevano patito una furiosa persecuzione, senza trovare mai un difensore e senza conoscere altri aspetti della vita che quelli più turpi e spaventosi. Era, insomma, il popolo, multiforme, eterogeneo, mostruoso e divorato dall’odio e dal desiderio di vendetta e di distruzione ».
Fluida e rumorosa, la nuova massa urbana ha perduto negli ultimi decenni un po’ della propria aggressività. Il processo di industrializzazione ha aumentato il proprio ritmo, moltiplicando le opportunità di lavoro. Anche se non tutti ci sono riusciti, molti dei membri di quella massa disorientata ed instabile hanno certamente finito per trovare una via per raggiungere o consolidare il proprio inserimento nel tessuto sociale. Tre decenni costituiscono un periodo molto breve per un processo di questa portata, ma le cose hanno cominciato a muoversi e ancora continuano a farlo, palesando caratteri sempre nuovi, e meno drammatici, anche se altrettanto inquietanti. Le masse sono formazioni sociali fantasma che qualsiasi circostanza può improvvisamente aggregare e mobilitare. È evidente che sia le piccolo classi medie che i settori popolari hanno mantenuto la capacità di identificarsi con la massa, specie in quelle società urbane che, per la loro stessa grandezza, hanno perso il controllo sugli individui. Le megalopoli sovrappopolate sono infatti il tipico luogo nel quale le masse consumano la propria esistenza virtuale. Indipendentemente dalla sporadica comparsa di alcuni comportamenti massificati, i membri della massa sembrano però tendere ad una sempre maggiore integrazione individuale all’interno del tessuto sociale.
Evidentemente, sia le piccole classi medie che le classi popolari sono riuscite a trovare una collocazione proprio grazie alle prime esperienze di massificazione. Ci si chiedeva se l’individuo economicamente depresso avesse la possibilità di migliorare la propria posizione impegnandosi individualmente, come assicurava l’ideologia carrieristica, o se invece dovesse ricorrere alla pressione collettiva; questo dubbio ha influenzato sia l’evoluzione delle ideologie che quella dei comportamenti. L’intera struttura sociale ha finito così per subire i contraccolpi di questa esperienza di massificazione. Per alcuni settori, anche molto ampi, questa situazione è paradossalmente servita ad accentuare il desiderio di affermazione individuale attraverso il successo economico e la carriera sociale; quanto più l’industrializzazione e la ripresa economica facevano da stimolo, tanto più si facevano vaghi ed imprecisi i confini sociali tra le classi popolari e le piccole classi medie. Una decisa propaganda consumistica ha contribuito a far scomparire questa divisione, dato che gli oggetti simbolo che potevano testimoniare della realizzazione sociale hanno incominciato ad essere, in un modo o nell’altro, alla portata di molti.
Il flusso migratorio e l’esodo dalle campagne alla città non si sono arrestati del tutto e questo ha continuato a mantenere nell’instabilità le classi popolari urbane. Nel frattempo si era però prodotto anche un rinnovamento generazionale della massa formatasi per la movimentata compenetrazione tra gruppi immigrati e gruppi residenti. Nuove domande erano nate e si erano sviluppate nel clima della protesta e nel progressivo chiarirsi degli interessi di classe. Siccome i tassi di natalità erano alti, i giovani erano numerosi e, giunti ad una certa età, hanno cominciato a chiedere lavoro e a cercare di collocarsi all’interno di una struttura economica che pur essendo in crescita non è mai riuscita a crescere abbastanza rapidamente da assorbire per intero la domanda. La disoccupazione giovanile ha contribuito alla formazione di bande semi-delinquenziali, come i gamines di Bogotá, capaci di agire senza scrupoli e senza remore, dominando la Settima strada. La disoccupazione ha riguardato però anche il mondo degli adulti e, cosa grave e significativa, è cresciuta costantemente, gettando migliaia di famiglie nell’insicurezza e nella necessità di procacciarsi in altro modo il pane quotidiano.
Privi di reddito fisso e sufficiente, sistemati all’interno di strutture abitative precarie e generalmente prive dei servizi più essenziali, incapaci di conservare l’unità del nucleo familare, ampie fascie sociali, formate dagli strati più umili della massa, hanno finito per formare un universo doppiamente emarginato, perché periferico e perché escluso dalla società legale e dalle sue forme di vita. Questo mondo di emarginati, comprendente sia i baraccati che i distretti più lontani dal centro, ha evidenziato ancor più la propria tendenza all’anomia. Non si tratta propriamente di una classe operaia, benché vi fossero nel suo ambito alcuni operai. Nonostante il lavoro svolto dalle donne e dai bambini, questa società è rimasta nel suo complesso al di sotto dei livelli di sussistenza ed ha costituito per il mondo legale una « società altra», irriducibile ed irrecuperabile. La divisione sociale si è così trasformata in un fatto fisico, in una nuova società barocca; in alcune città, proprio come nelle corti barocche, lo spettacolo del più ostentato lusso, offerto dalla società legale, viene osservato dalle migliaia di uomini che vivono nei baraccati delle colline e che formano la società anomica. All’aggressività del primo periodo è ormai subentrata una rassegnata tranquillità; nel frattempo però, come nella corte dei miracoli di Parigi, nessuno poteva entrare nelle zone delle baracche senza la protezione di un apposito apparato di sicurezza.
Probabilmente facevano parte di questa «società altra» ed anomica anche alcuni settori formati da lavoratori di condizione media, giornalieri o manovali saltuari, non completamente assorbiti dalla struttura e quindi più esposti di altri al rischio del regresso sociale. Tuttavia coloro che sono riusciti ad inserirsi nelle nuove attività privilegiate dell’industria hanno smesso di appartenere a questo mondo e sono entrati a far parte di quello legale. In molte città si è formato in pochi decenni un proletariato urbano più o meno numeroso, che è diventato l’élite delle classi popolari e ha manifestato la tendenza ad uscirne. Gli alti livelli di reddito, il forte potere d’acquisto e un certo grado di organizzazione sindacale hanno consentito al proletariato industriale di raggiungere una situazione di privilegio non raggiungibile da parte degli altri settori popolari. In poco tempo la classe operaia è diventata un fattore politico importante ed è stata capace di ricavare da questo notevoli benefici. Una politica degli alloggi largamente sostenuta dalle finanze statali o dalle casse dei sindacati ha assicurato a molti il possesso di discreti appartamenti, all’interno di condomini moderni e dotati di buoni servizi, appositamente costruiti in aree urbane il cui aspetto è compietamente diverso da quello delle borgate abusive di collina o dei baraccati sorti sui terreni alluvionali e nelle zone più degradate. Servizi sanitari, ospedali efficienti, assicurazioni e soggiorni turistici in buoni alberghi che, al mare o in montagna, offrono combinazioni a prezzi accessibili hanno finito per garantire al proletariato industriale sindacalizzato una situazione che lo distingue nettamente dal resto della classe lavoratrice. Si è così avviato, favorito anche dalla possibilità di offrire ai figli un’istruzione di livello superiore o, eventualmente, anche universitario, un processo di identificazione con i ranghi inferiori della piccola classe media. In questo modo la posizione del proletariato industriale all’interno della società legale si è consolidata, completando la progressiva separazione dei lavoratori dell’industria dal resto delle classi popolari.
Una nuova separazione destinata a spostare i limiti tra le classi popolari e i ceti medi è stata la possibilità di accedere al settore terziario. Questo era per tradizione dominato dai settori medi della classe media, ma il crescente incremento dell’istruzione di livello secondario ha permesso a molti giovani della classe popolare di essere in condizioni di trovare spazio nelle attività commerciali ed amministrative. Il rapporto operaio/impiegato ha finito così per esprimere la mancanza di confini precisi tra le classi popolari e i settori intermedi della classe media. Era indubbiamente importante che si fosse creata questa possibilità, anche se, nonostante tutto, non fu sempre facile coglierla. Il modo di vestire, il linguaggio e le convenzioni vigenti nei rapporti sociali continuavano infatti ad evidenziare le origini e a segnare di fatto una differenza che veniva utilizzata per distinguere nei casi dubbi. Chi proveniva dalla classe media aveva la spocchiosa superiorità che gli derivava dall’educazione familiare e da varie generazioni di stabile permanenza nei ranghi della società legale.
Inoltre, lo sviluppo industriale e la crescita economica hanno contribuito a moltiplicare le possibilità dei settori medi della classe media che, se da un lato ha visto crescere il numero dei propri effettivi, dall’altro ha anche assistito al parallelo incremento delle attività terziarie, in quasi tutte le città. Chi poteva contare sul sostegno familiare o su importanti conoscenze aveva ragione di ritenere possibile trovare un impiego o entrare senza difficoltà nella propria carriera professionale. Nonostante questo la concorrenza è diventata col tempo sempre più dura. Il numero dei membri dei settori medi della classe media ha continuato a crescere fino a superare le capacità ricettive della struttura, dato che ora aspiravano alle tradizionali posizioni di questa classe non solo quelli che vi appartenevano per nascita, ma anche tutti coloro che dall’alto e dal basso nutrivano aspettative tipicamente inserite negli schemi mentali della classe media, cioè anche il figlio dell’operaio industriale e il giovane delle classi alte costretto a ripiegare su aspirazioni e possibilità più modeste. In questo modo, mano a mano che perdeva benessere e libertà di movimento, la media classe media andava massificandosi.
A differenza di quanto era accaduto due generazioni prima, era diventato meno facile per il figlio di una famiglia importante ottenere un impiego per semplice favoritismo e in mancanza di qualsiasi altro titolo. Lo stato e le imprese erano consapevoli di poter fare una scelta migliore e hanno quindi incominciato a richiedere un certo livello di istruzione per qualsiasi mansione. Dapprima si è trattato di una licenza elementare, poi di una licenza secondaria e, spesso, persino di un titolo universitario. Anche le libere professioni hanno incominciato a trovare spazio. Il problema è che le università hanno messo sul mercato del lavoro migliaia di laureati e questo ha reso facile esercitare le professioni. Le mutue hanno compromesso le riserve di caccia dei medici e dei dentisti; le industrie farmaceutiche hanno tolto mercato ai farmacisti; i grandi studi legali e le imprese di costruzione hanno creato difficoltà agli architetti ed agli avvocati. Poco tempo dopo si è incominciato a sentir parlare di un proletariato professionale. Analogamente la massificazione coinvolse anche il settore commerciale, ormai dominato dalle posizioni estreme del supermercato e della boutique. L’unico settore veramente in espansionedal punto di vista delle opportunità era quello al quale si dedicavano i più intraprendenti ed i più audaci: il vasto campo dei servizi di mediazione, le rappresentanze, le assicurazioni, il mercato immobiliare e tutte le nuove attività tipiche degli ambienti urbani, come, ad esempio, la moda, la pubblicità e lo spettacolo radiofonico, televisivo e cinematografico. Le opportunità erano in aumento anche per chi si inseriva nei quadri della crescente tecnocrazia. Le organizzazioni imprenditoriali, pubbliche o private che fossero, diventarono sempre più efficienti, adottando nuovi metodi e assorbendo un numero sempre maggiore di tecnici, a partire da quelli che lavoravano nel settore dei calcolatori elettronici, pietra angolare del nuovo mondo tecnocratico, per arrivare agli specialisti delle analisi di costo, agli studiosi di fattibilità e agli analisti di impresa. Ingegneri, fisici, economisti, statistici, sociologi e psicologi erano sempre più richiesti dalle grandi imprese, intenzionate a costituire gruppi di lavoro specializzati che sapessero pianificare e realizzare i complicati sistemi richiesti dallo sviluppo industriale. In espansione erano però anche gli apparati dediti alle attività che godevano di sempre maggiore spazio: la salute pubblica, l’assistenza sociale e la scuola, tutti campi nei quali si moltiplicò il numero degli addetti specializzati, dotati di una preparazione in apparenza sempre più specifica, ma collegata in realtà a quadri disciplinari di maggiore ampiezza e quindi in grado di affrontare i nuovi problemi posti da una società sempre più complessa e ormai così articolata da richiedere una costante sensibilità per i suoi sempre nuovi e diversi ingranaggi. La società intera andava massificandosi e insieme con essa si massificavano anche le funzioni che la vita sociale rendeva necessarie; l’assistenza sociale costituiva un nuovo tipo di problema, la cui comparsa era strettamente legata a quella del mondo massificato; l’assistenza medica veniva estesa non solo alle classi popolari, ma, progressivamente, anche a tutti gli altri settori della società, proprio come l’educazione, che lo sviluppo quantitativo sembrava però condannare ad un deterioramento nella qualità media delle prestazioni, percepibile a tutti i livelli, ma specialmente nell’istruzione di grado universitario, in precedenza destinata a pochi e ora sempre più coinvolta nella massificazione, specie nei grandi centri.
Era logico che coloro che si dedicavano a tutti questi problemi non avessero o, quantomeno, non si preoccupassero di avere un occhio di riguardo per il gestore di un negozio di lusso, il notaio di antica famiglia, il medico affermato e l’avvocato prestigioso. Negli ambienti professionali e impiegatizi dei settori medi della classe media nessuno aveva tempo da perdere, dato che tutti dovevano svolgere almeno due lavori per poter sopravvivere. Oltre al marito lavorava anche la moglie ma nonostante questo, non era facile mantenere un certo livello di vita. Tuttavia la massificazione obbligava a modificare gli schemi tradizionali e la media classe media aveva cominciato a disprezzare il tranquillo culto per le apparenze che nelle due precedenti generazioni aveva costituito il suo tratto sociologico predominante. Massificandosi essa si è liberata di molti pregiudizi e, proprio come a Londra, ha saputo fare a meno del colletto bianco.
Ciò a cui invece non ha saputo rinunciare è il suo desiderio di affermazione sociale ed economica. Come all’interno di un’istituzione gerarchica, considerava infatti necessario raggiungere il grado superiore. La tanto sospirata promozione è stata ottenuta con un disperato sforzo da coloro che sono riusciti a confluire nei settori più alti della classe media, cioè di una classe molto vicina ai vertici della società. Di questo gruppo facevano parte tutti coloro che si erano affermati nel campo delle professioni, del commercio e delle attività imprenditoriali, ricavando dal loro successo fortune tali da consentire una sostanziale indipendenza dal lavoro quotidiano e alcuni timidi tentativi di vita oziosa: poter giocare a golf durante un giorno lavorativo o poter disporre di tre settimane per un viaggio alle Bahamas in un periodo diverso da quello stabilito per le ferie di massa era considerato un trionfo sulla routine che poteva essere conseguito soltanto da chi si trovava al più alto livello della struttura. Nel frattempo erano giunti a questo stesso livello anche alcuni altri che però si trovavano ancora in una fase di consolidamento delle proprie posizioni e che quindi non potevano concedere spazio alla propria vocazione per l’ozio. I più alti livelli dell’apparato esecutivo aziendale, notevolmente cresciuto in questi ultimi decenni, si sono caratterizzati per la loro scrupolosa dedizione ad un lavoro tanto più grande di loro da fare di questa categoria la vittima prediletta dell’infarto. Si tratta di un lavoro diabolico che aggiunge all’impegno intellettuale di una attività dirigenziale tutte le preoccupazioni collegate con la responsabilità di dover prendere decisioni importanti e gravide di conseguenza; a tutto questo deve essere aggiunto l’onere delle relazioni pubbliche, comprendenti anche il divertimento forzato: le cene di lavoro, gli incontri di night-club, i rinfreschi, le serate a teatro e tutte le attività necessarie per mettere in piedi un grande giro di affari e mantenerlo in vita in un ambiente che somiglia molto a quello dell’ozio e alle forme della classe alta, ma che si realizza in gran parte fuori dalle ore di ufficio e dopo che la discussione di un contratto o le decisioni relative ad un’importante operazione hanno ormai logorato le risorse degli operatori. Un inseguimento quasi maniacale dei simboli di status, intesi come anticipazione della condizione alla quale si aspirava, ha poi finito per aggiungere alle fatiche e alle responsabilità della vita sociale anche quelle della vita privata: era necessario abitare nei quartieri alti, far parte dei circoli più esclusivi, frequentare certi ambienti e possedere tutto ciò che era indispensabile per non sfigurare. Tutto ciò era dovuto al fatto che anche i dirigenti esecutivi di più alto livello aspiravano a consolidare la propria posizione e ad affermarsi socialmente per arrivare a far parte della classe alta.
Era un progetto diffide ma non impossibile. Anche le classi alte avevano infatti subito l’impatto della massificazione e si trovavano ormai in piena crisi. Il primo segno di difficoltà era stato rappresentato dalla perdita del monopolio esercitato fino a pochi decenni prima sui ruoli di élite dell’intera società. La classe superiore aveva perduto anche la propria unità e quindi era più facile di prima riuscire a farne parte, qualora si fosse in possesso dei requisiti necessari. In molte città ha certamente continuato a perpetuarsi una classe alta di tipo tradizionale, impegnata a difendere disperatamente la propria posizione di privilegio, anche se questo privilegio consisteva solamente nel cercare di aprire le proprie fila il meno possibile, accentuando la chiusura e instaurando un vero e proprio culto delle famiglie e dei cognomi. In questo stesso ambito si muovevano però molti individui orientati verso le nuove classi alte e disposti a rendere più folte le file degli imprenditori e degli industriali, nel tentativo di superare la crisi dei patrimoni ereditari. Restava quindi aperto un canale che consentiva il passaggio dalla vecchia alla nuova classe alta, dato che entrambi i settori condividevano lo sconcerto nei confronti delle dinamiche, sorprendenti ed allarmanti, di una società massificata, di cui, peraltro, volevano essere l’élite. Ispirandosi ad un atteggiamento pragmatico, le classi alte hanno cercato di mettersi alla testa dei processi, principalmente economici e politici, che potevano comprendere e, per quanto riguarda i problemi sociali, che di tanto in tanto emergevano alla superficie della vita quotidiana, modificando i programmi prestabiliti, hanno preferito rimanere alla finestra. Così facendo non sono riuscite ad essere l’élite dell’intero complesso sociale, ma hanno comunque dominato una società divisa, dirigendone la parte legale e assumendo nei confronti dell’altra una posizione difensiva, a tratti corretta da spunti egemonici, là dove le circostanze rendevano necessario l’utilizzo di misure coercitive o palesavano la possibilità di piegare la resistenza del nemico con saggi ed opportuni cedimenti.
Nella società dell’industria e dei consumi di massa le opportunità di far soldi sono aumentate. Grandi fortune si sono formate, consentendo ai loro possessori di inserirsi stabilmente all’interno della classe alta, quali che fossero le loro origini. Costoro hanno rapidamente assimilato i simboli di status e il loro potere economico è riuscito persino a scardinare la resistenza delle classi alte tradizionali, che i quotidiani conservatori si ostinavano a definire aristocrazia. Le famiglie sono andate scomparendo e hanno lasciato il posto ai clan economici, all’interno dei quali coesistevano fortune di origine diversa, come le liste dei direttori di banca e dei dirigenti delle grandi aziende potevano agevolmente dimostrare: un nome di grande prestigio sociale poteva valere la presidenza, ma alle sue spalle si muovevano altri nomi, legati a percorsi di affermazione sociale radicalmente diversi. Anche le classi alte si stavano massificando. La ricchezza non poteva infatti impedire che chi la possedeva fosse spinto per le strade o dovesse fare la coda per prendere gli ascensori. Viaggiare in prima classe su un aereo di linea comportava più o meno le stesse scomodità del viaggio in classe turistica. Quando non era possibile far scattare i meccanismi del privilegio nessuno poteva essere sicuro di trovare libero un taxi, un tavolo nei ristoranti più esclusivi o una linea telefonica.
Era inevitabile che la comparsa di una massa sottoposta a successive trasformazioni e operante in diversi modi finisse per ripercuotersi su tutto il resto della società urbana. La massa originaria ha decantato e ha finito per formare un mondo emarginato ed economico parallelo, o, meglio, contrapposto a quello legale. L’impatto dell’industrializzazione ha creato molte difficoltà sia a questa società alternativa che a quella legale, anche se quest’ultima ha subito anche le conseguenze della presenza della massa, sia in termini quantitativi che qualitativi. La società legale non ha acquistato le caratteristiche della massa ma ha subito una massificazione qualitativa che è forse la fase preparatoria di una futura integrazione, di cui è però impossibile prevedere le scadenze.
Metropoli e baraccati
In poco tempo, le città dove si era costituita una società divisa hanno incominciato a palesare nel loro aspetto fisico le peculiarità della propria struttura sociale. Originariamente concepita e costruita con certe dimensioni, si era poi allargata per dare spazio alla società borghese, dotandosi di infrastrutture di servizio adeguate ai bisogni della popolazione. Con l’esplosione urbana però il numero degli abitanti aumentò a dismisura e anche la città fisica rischiò di essere coinvolta nell’esplosione.
Nella prima fase, quella dello shock originario, fu proprio il numero a modificare i caratteri della città e ad attirare l’attenzione degli osservatori sul fatto che qualcosa stava cambiando. Si vedeva molta più gente per strada; incominciavano ad esserci difficoltà nel reperimento delle abitazioni e degli alloggi; sui terreni inutilizzati, dove ben presto sarebbero sorti nuovi quartieri, facevano la loro comparsa le prime costruzioni abusive; diventava sempre più difficile prendere un tram o un autobus. Tuttavia ci si rese ben presto conto che anche il comportamento della gente che riempiva le strade, i mezzi pubblici e i negozi aveva subito una trasformazione. Prima si poteva farsi da parte con cortesia, ora era diventato necessario spingere e difendere a spallate il proprio posto, con il conseguente abbandono dei codici formali che fino ad allora avevano caratterizzato l’urbanitas, cioè quell’insieme di regole convenzionali al mondo della città. All’improvviso ci si rese conto che se si voleva andare al cinema bisognava fare la coda.
L’incremento numerico modificò il modo di muoversi all’interno della città. Le strade strette dei centri storici si rivelarono insufficienti di fronte alla crescente concentrazione di persone. Trattenersi a chiaccherare con un amico nel centro finanziario della città diventava un problema. Persino i tradizionali viali di passeggio, come la calle Florida a Buenos Aires o la calle del Conde a Santo Domingo, incominciarono, più o meno celermente, a diventare nervose. Pian piano ci si rendeva conto che nessuno conosceva nessuno. L’incremento numerico finì per determinare una congestione del trasporto urbano. Le automobili aumentavano e i tram scomparivano per lasciare il posto ai più agili autobus, anche se quasi a tutte le ore, e specialmente in quelle di punta, ci si dovette rassegnare ad impiegare molto tempo per allontanarsi dal centro in automobile, o, peggio ancora, a fare lunghe code alle fermate degli autobus. La metropolitana finì per diventare un bisogno urgente e anche Messico se ne dotò. Fino ad allora soltanto Buenos Aires ne aveva una, costruita nel 1914; negli ultimi decenni le autorità di molte capitali hanno incominciato a progettare i tracciati della sotterranea. Nel frattempo, per risolvere i problemi del traffico, sono state costruite costose reti viarie a scorrimento rapido, come le autostrade di Caracas o l’anello di circonvallazione alla periferia di Messico; queste iniziative non hanno potuto evitare gravi conflitti con il tradizionale sistema di comunicazioni, attraverso il quale si esprimevano vecchi modelli di convivenza. Opere di allargamento e di pavimentazione delle sedi stradali e un severo sistema di controlli sul transito costituirono un tentativo volto a rendere meno pesante la gravità dei problemi creati dalla continua e inarrestabile crescita del numero dei veicoli, che aveva trovato espressione nei diabolici ingorghi che, col tempo, erano entrati a far parte del panorama urbano di tutte le metropoli latinoamericane. Trovare parcheggio era diventato una cosa in genere più importante di quella che si sarebbe voluto fare una volta sistemata la macchina.
Il numero modificò la densità per ettaro della popolazione urbana. La fisionomia